Storia dell’indipendenza di San Marino. Il sale della libertà. Di Marino Cecchetti

Storia dell’indipendenza di San Marino. Il sale della libertà. Di Marino Cecchetti

STORIA SAMMARINESE. COME HA FATTO LA REPUBBLICA DI SAN MARINO A RIMANERE INDIPENDENTE

Il sale della libertà (sec. XVI)

ab immemorabili tempore… semper fuisse in possessione … neminem Superiorem in temporalibus recognoscendi

(Studi romagnoli, XLIX, 1998 – Marino Cecchetti)

Il sottotitolo è tratto da un breve di papa Paolo III dell’11 ottobre 1549, indirizzato ai sammarinesi. Il breve conclude una trattativa sul sale fra San Marino e Santa Sede iniziata una decina di anni prima. Dal testo emergerebbe l’ammissione, da parte dello Stato della Chiesa, che i sammarinesi erano “nel pacifico possesso di non riconoscere Superiorem in temporalibus”. Almeno questa è la – preoccupata? – interpretazione che ne dà Zenone Riquerio, autore, nel marzo del 1740, di una voluminosa e dotta dissertazione a sostegno dei diritti della Santa Sede sulla Repubblica di San Marino.

Il titolo, ‘Il sale della libertà’, sintetizza un legame creato dalla storia. Dalla storia generale. Ad esempio, almeno per il Cinquecento, dai “termini – che una comunità – teneva nel levare li sali e nel pagare”, si ricava una fondata informazione circa il suo livello di autonomia. Sino a ritenerla, di fatto, ‘libera’ se nella condizione di poter “comperare il sale dove le piace”.

Nel caso della storia sammarinese il legame fra sale e libertà è del tutto manifesto e immediato. Il primo documento dello Stato della Chiesa in cui viene nominata la libertà di San Marino, è un contratto per il sale: “una Convenzione stipolata da Roma il dì 13 Mag. del 1541 tra la Comunità, e i ministri camerali per la compera del sale di Cervia nel Porto Cesenatico”. La segnalazione è ancora di Zenone Riquerio. Per ben due volte – egli osserva – in quel contratto “fu usata q.sta formula: Universitas et Homines Sancti Marini Terrae libertatis”. A suo parere “da quell’espressioni di libertà si inferisce” che fin da allora, i sammarinesi “nudrivano que’ semi d’illimitata libertà, ò sia indipendenza alla quale … erano nominati”.

 

Il sale, attenzione a come si acquista

Come sono arrivati i sammarinesi a mettere a segno quel “Terra libertatis” e, addirittura, quel “neminem superiorem in temporalibus”? E perché proprio a seguito di una trattativa per il sale?

I sammarinesi sono stati sempre molto attenti nell’acquisto del sale. Guardiamo, ad esempio, un contratto del 20 gennaio 1391. San Marino è stretto, almeno da una quindicina di anni, fra le signorie dei Malatesta e dei Montefeltro. Vende il sale ai sammarinesi “maior et generalis offitialis et negotiorum gestor camere salis Magn. Domini Caroli de Malatestis”. Compera per la comunità sammarinese “Pippus quondam Cioncij de Castro S. Marini”. Quel sale – ed è ben precisato – dovrà essere portato sul Titano per “ibi facere cameram salis”.

Apprendiamo, così, che nel 1391 San Marino ha la sua camera salis, cioè il proprio ‘monopolio del sale’; che il sale lo compera dal vicino che si frappone fra il suo territorio e il mare; che riesce ad averlo senza subire imposizioni di natura politica. L’unico vincolo imposto dai Malatesta, senza reciprocità, è il seguente: il sale non può essere venduto dai sammarinesi “palam vel occulte … in grosso vel ad minutum” agli abitanti del riminese, mentre i Malatesta possono venderne, in Rimini, ai – singoli? – sammarinesi che ne facciano richiesta.

Altri punti significativi del contratto coi Malatesta. Durata: “ad totum mensem februarii” del 1392 (cioè un anno circa). Quantità: 400 “salmas salis…ad rationem trecentarum octo librarum pro qualibet salma”, cioè 342 sacchi circa (da 360 libbre). Costo: “pro pretio trium Librarum bonenorum veterum et solidorum quindecim pro qualibet salma”.

In conclusione, Pippo Cionci compera a Rimini, a nome della comunità sammarinese, 400 salmas, cioè 123.200 libbre di sale, e prevede di smerciarle entro un anno o poco più. Come può la camera sammarinese smerciare tanto sale? Lo stesso Pippo Cionci, che ha firmato quel contratto a Rimini, vende ordinariamente sale, per conto della comunità, sulla piazza di Borgo, nel giorno di mercato, il mercoledì. Quella di Borgo è una piazza importante: “la chiave del Montefeltro per la Romagna”.

 

Sale e mercato

Almeno dal 1228 Borgo è un’importante piazza di mercato. Per volontà di Rimini. In quell’anno Rimini stipula una serie di trattati di grande rilievo politico, militare ed economico con vari centri di potere delle zone circostanti. Uno di questi trattati, favorito dall’imperatore, coinvolge le due famiglie comitali, Carpegna e Montefeltro, che controllano le valli del Montefeltro e quindi le vie di comunicazione con la Toscana. Nel trattato figura anche San Marino: eletto – unitamente a Pietracuta – a luogo di mercato. Per i mercati di San Marino e di Pietracuta le parti prevedono uno sviluppo di tutto rilievo, tanto da ritenere necessaria, per amministrarvi la giustizia, la presenza stabile di un uomo di legge.

Rimini è già in buoni rapporti con Ravenna, la quale controlla Cervia che ab antiquo produce sale. Ed è in ottimi rapporti con Venezia la quale monopolizza il commercio del sale nell’Adriatico: alle sue navi ha concesso di attraccare in esenzione.

Per Rimini ed il suo sale, San Marino è una piazza di un qualche rilievo data la sua collocazione “supra stratam, qua itur Urbinum, et qua itur de Montefeltro Ariminum”. San Marino, a sua volta, ha bisogno di quel sale, che costituisce la merce base del mercato di Borgo, da cui trae la massima parte delle entrate. Per cui continuerà a comprarne sempre. Anche quando il comune di Rimini volterà le spalle all’imperatore e passerà col papa, separando il suo destino politico da quello dei Montefeltro e dello stesso San Marino, alleato dei Montefeltro. Ed anche quando a Rimini diventerà sempre più potente la famiglia dei Malatesta, protesa a cercare spazio verso i monti a scapito dei Montefeltro. Ed addirittura quando – salvo alcuni mesi delle fasi più acute – sarà guerra aperta fra Malatesta e Montefeltro. Ed anche dopo tale guerra, conclusasi con la sconfitta dei Malatesta nel 1463.

Dopo il 1463 a Rimini cominciano ad alternarsi al potere, e quindi nella gestione del sale, Malatesta, funzionari pontifici e governatori veneziani. Tutti hanno interesse a venderne quanto più è loro possibile durante il loro periodo di potere. Per cui San Marino non fatica a procurarsene. Anzi. C’è l’imbarazzo della scelta. E anche qualche difficoltà a scegliere come, ad esempio, nel 1507, quando a Rimini comandano i veneziani. Il card. legato di Bologna invita i sammarinesi a comprare il sale “omninamente dal Thesaurero de Sua Beatitudine in Cesena et Romagna”precisando che l’avranno “con quello medesimo pretio” che lo comperano a Rimini dai veneziani e, fra l’altro, “con magior … comodità

 

Rimini sotto il dominio diretto della Chiesa

La situazione riguardo al sale per San Marino cambia radicalmente e si fa veramente – per la prima volta? – difficile, quando a Rimini comincia ad affermarsi abbastanza stabilmente il potere di governo dello Stato della Chiesa. Di fatto a partire dal 1509. In quell’anno i veneziani, a seguito della sconfitta di Agnadello, devono ritirarsi dai loro possedimenti di Romagna, fra cui appunto Rimini. Papa Giulio II prende con piglio duro possesso della città, per il tramite del commissario apostolico Antonio Di Monte, arcivescovo di Siponto. Fra le novità: l’obbligo di acquistare il sale dalla camera apostolica. Soltanto dalla camera apostolica, che, fra l’altro, adesso possiede Cervia.

Dunque anche San Marino, a partire dal 1509, se vuole continuare a comprare sale a Rimini, deve necessariamente trattare le condizioni con la camera apostolica, cioè con Roma.

San Marino si rivolge a Roma in questi termini: “essendo consueta la Comunità de San Marino a comperare sale dove le piace comperando in qualunque loco quello possino et siali licito condurlo et fare condurre nel porto et Città de Arimino et suo contado et altri porti e luoghi dello Stato Ecclesiastico et quello trahere et portare a la terra di San Marino et suo Contado a suo beneplacito liberamente senza alchuno pagamento de passo ne de datio gabella o impedimento alchuno”.

Da Roma nessuna risposta.

Il fatto che da Roma non giunga risposta non preoccupa eccessivamente i sammarinesi. Almeno per qualche tempo. Per un paio di decenni, infatti, la situazione attorno al Titano rimane politicamente in movimento. Sul versante adriatico gli indomiti Malatesta hanno più di un’occasione per rientrare a Rimini. Dalla parte dei monti arrivano i fiorentini, portati da papa Leone X, un Medici. Via vai di milizie mercenarie, fra cui molte straniere. Il controllo del territorio da parte dei funzionari pontifici è debole, pressoché nominale. Per cui sfugge loro pure la gestione del sale. Fra l’altro, i della Rovere di Urbino, nella cui orbita San Marino è restato anche dopo la sconfitta dei Malatesta del 1463, hanno acquisito Pesaro e quindi un buon porto sull’Adriatico al quale fare arrivare il sale. In caso di assoluta necessità, pure San Marino potrebbe usufruirne. Talvolta ne usufruisce. Solo occasionalmente però e per piccole quantità. Più comodo e meno costoso farlo venire dalla parte della Romagna, e addirittura acquistarlo direttamente presso la camera apostolica.

La situazione politica cambia notevolmente attorno al Titano qualche anno dopo il sacco di Roma, quando Clemente VII, col consenso e l’aiuto di Carlo V, recupera il controllo dello Stato della Chiesa, sfaldatosi durante la sua prigionia in Castel Sant’Angelo. L’operazione ha un costo politico ma anche finanziario. Per farvi fronte il papa alza il prezzo degli impieghi pubblici; vende quante più creazioni cardinalizie gli è possibile ai migliori offerenti; ricorre massicciamente al debito pubblico; introduce una serie di nuovi tributi; rincara il sale. “Trovandosi al presente sua Beatitudine in bisogno di danari” ordina “l’aumento del sale” ed ordina pure che le comunità “lo paghino di presente per tre anni prossimi futuri”.

Nel registro delle comunità che comperano abitualmente il sale della camera apostolica c’è anche San Marino.

 

L’aumento del sale di Clemente VII

Ai primi di dicembre del 1529 arriva sul Titano l’avviso che, essendo la comunità solita comprare dalla camera apostolica “ogn’anno sacca trecento, fatto diligente calcolo”, deve “hora sborsare … ducati tremila ottantacinque, bolognini quattordici et denari tre” cioè “3085.14.3”.

Ora San Marino deve dimostrare che usa comperare il sale dalla camera apostolica, solo perché nullibi comodius provideri possit quam in locis et magazenis Camarae Apostolicae propter locorum vicinitatem et propinquitatem”,e non già perché ne ha l’obbligo, come avviene per i luoghi ‘soggetti’.

Papa Clemente VII è a Bologna nel dicembre del 1529. Vi si è recato per incontrare Carlo V e, nell’occasione, incoronarlo imperatore. Il rappresentante sammarinese Andrea Sabattini, dopo giorni e giorni di inutili tentativi di farsi ricevere per le vie ordinarie, la sera del 29 dicembre 1529 sorprende – si fa per dire – il papa nella “camera segreta à tavola”. Appena “levata la tovaglia” si butta “alli piedi” e comincia col dire che la sua “patria … era libera et non subiecta” e come tale era stata sempre “libera in pigliar li sali dove li piaceva, tanto altrove che dalla Camera apostolica”. Il papa come sente “narrar del sale par si sturbasse tutto e rispose che questa cosa era generale”, per cui sgravando San Marino si sarebbe dovuto fare altrettanto per “tutta Romagna”. Come può un luogo pretendere di avere un trattamento così diverso dagli altri?

Clemente VII quella sera, forse ben disposto perché poco dopo entreranno i musici, lascia al Sabattini una speranza: “commetteria” il caso “al Camerlengo”.

Camerlengo è il card. Spinola, pure lui a Bologna. Il Sabattini comincia a tampinarlo. Vista la impossibilità di ottenere l’esenzione totale, cerca di strappare almeno una riduzione: un “Castello piccolo e povero” non può essere costretto “pagar gran soma”.

Sotto la minaccia di rappresaglie i sammarinesi sono indotti a pagare, sia pure una somma ridotta, sia pure a rate semestrali. E’ un colpo durissimo per l’autonomia sammarinese: in gioco non è un tributo qualsiasi, ma il sovrapprezzo del sale. Pagare il sovrapprezzo del sale al papa vuol dire riconoscere il papa come superiore. Dopo di che diventa più difficile – teoricamente impossibile – sfuggire al pagamento degli altri tributi quali, un ducato per ‘foco’ ed un ‘mezzo ducato’ (per ogni cento ducati di proprietà), introdotti dallo stesso papa. Tributi infatti che pure San Marino deve cominciare a pagare, sotto la minaccia delle solite rappresaglie.

E’ la fine della autonomia sammarinese?

 

Il primo riconoscimento

Nel 1531 il camerlengo, il card. Spinola, con lettera, riconosce ai sammarinesi il diritto di importare i frutti dai loro possedimenti in Romagna, Rimini compresa, in esenzione da qualsiasi gravame. Nel 1533, lo stesso Spinola, ancora con sua lettera, avente per oggetto la questione del sale,

·         riconosce che i sammarinesi “sempre lo hanno preso dove è piaciuto loro”;

·         prende atto “che per l’advenire [essi] per rispetto di Nostro Signore sono contenti di pigliarne da la Camera Apostolica”;

·         ordina che se ne dia loro “tutta quella quantità che sarà necessaria per uso loro al prezzo solito”.

San Marino, dunque, ottiene il riconoscimento del diritto di comprare il sale dove vuole, dietro impegno che, per “rispetto” al papa, si servirà presso la camera apostolica.

La questione del sale fra San Marino e lo Stato della Chiesa, nata praticamente nel 1509, deve ormai ritenersi definitivamente risolta? I sammarinesi non si illudono. E perciò continuano a dedicarle molta attenzione anche dopo il 1533. Anche dopo l’arrivo del nuovo papa, Paolo III, il quale dapprima sopprime gran parte dei tributi introdotti dal predecessore, ma poi comincia a ripristinarli uno dopo l’altro. Reintrodurrà anche un sovrapprezzo sul sale? Nel 1536 il sammarinese Gian Battista Belluzzi appunta nel suo diario: “questa comunità stava in grandissimo afanno de li sali. Dubitava che continuando a tore sali da la Sedia apostolica, a qualque tempo li soi ministri potriano dire che avesero qualque atione in questo lochoNon li tolendo più, dubitava non li forzzasse a torlli o farlli qualque altre straniezze”.

 

L’aumento del sale di Paolo III

Paolo III per fornire il sostegno finanziario ai principi cristiani impegnati contro i Turchi, il 21 aprile 1539 rincara il sale “in toto Statu Ecclesiastico”. Un sovrapprezzo enorme: “vectigal augmentum trium quatrenorum pro qualibet libra Salis”. In Romagna il sale passa da 30 a 210 bolognini il sacco (da 360 libbre). Per ogni comunità viene fissato il quantitativo annuo minimo obbligatorio da ritirare, ovviamente, al nuovo prezzo. Per San Marino: 250 sacchi.

Nello Stato della Chiesa ovunque proteste. Ci sono casi di ribellione. Si solleva una città popolosa come Perugia. Si ribella un feudatario potente come Ascanio Colonna che controlla varie località ben fortificate pericolosamente vicine a Roma e che gode, ancor più pericolosamente, della protezione dell’imperatore, Carlo V. Fremono città in genere ‘tranquille’ come Senigallia. Ribollono quelle da sempre in effervescenza, ad esempio le romagnole. A Rimini, i Malatesta, eccoli pronti a sfruttare il malcontento popolare per cercare ancora una volta di rientrare in possesso dei loro antichi domini.

I sammarinesi, visto quel che sta succedendo attorno a loro, provano a guadagnare tempo. Sperano che Roma sia costretta a cedere davanti ad una reazione tanto forte ed estesa.

Roma però non cede. Paolo III contro Perugia e contro Ascanio Colonna, falliti i tentativi di pacificazione, si accinge ad assoldare un esercito. Comincia con Perugia. Anche San Marino vi è in qualche modo coinvolto: un migliaio di lanzichenecchi nel viaggio di trasferimento fanno sosta in Repubblica, il 9 giugno 1540. Quanto alla Romagna, il presidente Giovanni Guidiccioni che aveva cercato di far decantare la situazione consentendo che da ogni comunità venissero inviati ‘ambasciatori’ a Roma a sollecitare una riduzione dell’aggravio, viene sostituito dal card. Gian Maria Di Monte, nell’estate del 1540, appena questi ebbi finito di domare Perugia. Il Di Monte, pugno di ferro, già aveva piegato la Romagna sollevatasi durante il sacco di Roma, e, in particolare, aveva recuperato Rimini, ritornata in mano ai Malatesta.

I sammarinesi cercano di resistere facendo leva sul card. Ennio Filonardi, vescovo del Montefeltro, che durante l’estate del 1540 manda suo nipote, e in ottobre è lui stesso a salire sul Titano, ove rimane per una ventina di giorni. Egli si adopera per tenere fuori San Marino dalla questione del sale. Ma, appena lui parte, dalla Romagna le pressioni su San Marino riprendono, perché comperi il sale col sovrapprezzo come gli altri luoghi. Tanto che per salvarsi dalle rappresaglie i sammarinesi sono costretti a spedire a Roma, una decina di giorni dopo, due ‘ambasciatori’: Giovanni Antonio Belluzzi e Giuliano Corbelli, i quali nell’inverno di due anni prima avevano trattato, a Roma, con pieno successo, in qualche settimana, l’esenzione dalla tassa del ‘mezzo ducato’, proprio con l’aiuto di Filonardi.

I due sammarinesi sbarcano a Roma mercoledì 10 novembre 1540. Hanno in tasca il danaro sufficiente per un mese. Al più per un mese. Ennio Filonardi, Ascanio Parisani e Federico Fregoso sono i tre cardinali amici dei sammarinesi cui subito i due ‘ambasciatori’ si recano a far visita con in mano le solite lettere credenziali ed i soliti omaggi.

Primo obiettivo dei due sammarinesi: che venga subito da Roma impartito al tesoriere di Romagna l’ordine di sospendere le rappresaglie contro la comunità. L’ordine viene promesso, ripromesso, finalmente emesso, ma poi non parte. Un ritardo disastroso per la comunità. I concittadini che soffrono i sequestri dei beni e che sono impediti nella mobilità, in quanto non possono uscire dalla Repubblica, mugugnano contro i governanti. I governanti se la prendono con i due inviati. Sul Titano cominciano a sospettare che i due, a Roma, perdano tempo e tirino le cose in lungo per lucrare sui compensi.

Il card. Parisani, promette di sollevare la questione in concistoro. Promette, ma non riesce. Altri problemi e di ben maggiore peso ed urgenza, si presume che venissero dibattuti in concistoro in quel periodo: i rapporti con l’imperatore e col re di Francia; la convocazione del concilio; la riorganizzazione della curia; la reazione, all’interno dello Stato della Chiesa, all’aumento del sale.

Per il sale, osservano Belluzzi e Corbelli, “sono … ricorsi molti ambasciatori di molte città et terre che mostrano efficacissime ragioni et autentici privilegij li quali non che admessi, non sono pure auditi: cuosa che ne ha sbigotiti”. San Marino, diversamente da Perugia e dalla stessa Rimini non ha un documento specifico su cui poggiare la sua richiesta di esenzione. Come può sperare di farcela?

 

Impostazione della trattativa

Belluzzi e Corbelli prendono una decisione di grande responsabilità: “risolvemmo per noi stessi narrar li nostri bisogni a Sua Santità”. Si accostano a Paolo III mentre questi cavalca alla volta della Magliana (e quindi è ben disposto perché lì va a rilassarsi con qualche battuta di caccia in compagnia di figli e nipoti). Il papa ascolta e dispone che ad occuparsi del caso siano i “Clerici di Camera”.

Raccontano Belluzzi e Corbelli: “ritrovati tutti detti Clerici di Camera ciascheduno per se, che sono otto, gl’informassimo delle nostre ragioni”. San Marino è un luogo libero, ab immemorabili esente da tutte le gravezze. Perché dovrebbe pagare questa? Reazioni: avvenne “che il più di loro mostrassero meraviglia come puorsi essere, che quel luogo situato in la Romagna fra tante Città, e Terre della Chiesa, solo sia libero, et exempto da li carichi et impositione ecclesiastica”.Insomma i camerali – tutti personaggi navigati e di rango – stentano a credere alle loro orecchie. Non già per la richiesta di esenzione in sé. Chissà quante ne hanno sentite! A lasciarli sorpresi è la motivazione: essere quello un luogo di esenzione totale.

I sammarinesi, mai soggetti a gravezza alcuna, non vogliono pagare nemmeno il sovrapprezzo del sale. E su questo sono irremovibili. Pur irremovibili sul principio, essi però si guardano bene da non tener conto della esigenza dei camerali di procurare comunque un qualche introito alle sempre esauste finanze dello Stato. Un atteggiamento rigido avrebbe potuto indurli a passare al setaccio il passato per verificare se effettivamente, in passato, San Marino mai avesse pagato tributi. Nel caso sarebbero senz’altro emersi i pagamenti effettuati sotto Clemente VII, appena sette-otto anni prima!

Dal Titano arrivano le istruzioni a Belluzzi e Corbelli. Sono previste due fasi.

Per primo i due ‘ambasciatori’ faranno sapere ai camerali che i sammarinesi, sensibili ai bisogni di Paolo III che, in quanto sommo pontefice, è tanto impegnato “pro fidei Catholicae tutela”, si offrono “libenti animo” di dare il loro contributo come cristiani (per “se promptos et vere orthodoxos exhibere”). E questo contributo consiste nell’impegno a comperare dalla camera apostolica, a prezzo maggiorato (al più “mità del Augumento”), fino a 120 sacchi di sale all’anno, per un periodo, massimo, di dieci anni.

Profferto tale impegno – e, precisano dal Titano, “in modo che non resultasse … preiudicio” alla libertà – i due ambasciatori passeranno alla seconda fase: chiedere di riconoscere che i sammarinesi

·         non sono soggetti a onera aliqua realia vel personalia per Sedem Apostolicam pro tempore imposita ”;

·         ab immemorabili tempore” sono “in possessione seu quasi libertate non reconoscendi aliquem superiorem in temporalibus”;

·         per semetipsos si amministrano secundum loci ordinationes absque aliqua Sedis Apostolicae vel alterius cuiusque licentia regendi et gubernandi… ”.

In conclusione, i sammarinesi puntano a un riconoscimento esplicito e pieno del loro status di libertà. La camera apostolica, che all’ordine del giorno ha il quantitativo di sale da imporre a San Marino, viene astretta da Belluzzi e Corbelli – con la complicità del card. Parisani? – a pronunciarsi nientedimeno che o de la libertà o de la servitù” di San Marino.

 

Una seduta straordinaria della camera

La camera apostolica non si riunisce subito o comunque non in fretta come i sammarinesi avrebbero voluto, pressati dalle rappresaglie del tesoriere di Romagna, il quale a sua volta doveva vedersela coi i luoghi del circondario che pretendevano di seguire il ‘malo esempio’ del Titano. Belluzzi e Corbelli riescono, prima di Natale, a bloccare quelle rappresaglie, strappando una “dilazione” dei pagamenti richiesti dal tesoriere “fino che si agita la causa”.

La camera apostolica si riunisce per esaminare la “causa” il 23 dicembre 1540. Una seduta estraordinaria”. E’ presente anche il card. Parisani col suo amico card. Gambara. La proposta dei sammarinesi – illustrata dal Parisani? – viene recepita per la parte relativa all’impegno da parte degli stessi sammarinesi di acquistare 120 sacchi annui di sale, per otto anni, col sovrapprezzo di due quattrini per libbra (120 bolognini il sacco). Impegno da formalizzarsi in un atto notarile, un contratto. Quanto al resto i camerali si limitano a promettere che, dopo che i sammarinesi avranno firmato il contratto, loro stessi chiederanno al papa di emanare “un breve il quale – riferisce Corbelli ai capitani – amplamente dichiarasse e, confirmasse la Terra nostra essere stata et essere libera et conseguentemente immune da ogni qualunque carico et impositione”.

Insomma la camera apostolica delibera sulla proposta sammarinese limitatamente agli aspetti economici, che comportano degli oneri per i sammarinesi. Quelli politici, a favore dei sammarinesi, saranno – eventualmente? – oggetto di deliberazione da parte del papa.

Belluzzi e Corbelli rimangono esterrefatti. Si aspettavano una risoluzione che riguardasse l’intera proposta, un documento unico che fissasse l’impegno dei sammarinesi a comprare il sale e, al contempo, formalizzasse il riconoscimento del loro status di libertà.

Firmato il contratto, chi assicura il rilascio del breve? I camerali ‘amici’ – per tranquillizzarli? – fanno sapere che la promessa del breve è concreta, reale. Dicono che già ne “hano data la minuta al secretario del Camerlengo”. Sarà vero? Anche se fosse vero “la cuosa non è anchora al sicuro per havere – come è sempre per i brevi – da passare per molte mani”.

Qualche giorno dopo i sammarinesi vengono a sapere di un’altra condizione: niente “breve se doi o più … Cardinali non fanno fede che la terra nostra sia stata sempre libera et immune”. E non basta una dichiarazione cumulativa. Ciascun cardinale deve stendere “una poliza di sua mano”.

San Marino, a causa della questione del sale, si è mostrato a Roma per quel che è: un luogo che non paga tributi, un luogo che, di fatto, non ha superiorem in temporalibus. E senza documenti che legittimino sul piano giuridico quello status. Potrebbe scattare da un momento all’altro un’accusa di ribellione. Occorre per San Marino mettersi urgentemente al riparo. Un breve, documento a firma papale, potrebbe effettivamente fornire un buon riparo.

I camerali vogliono “una poliza … di mano … di doi o più … Cardinali” attestante lo status attuale di San Marino? Gliela si darà. Secondo Belluzzi e Corbelli, i tre cardinali amici dei sammarinesi Parisani, Filonardi e Fregoso non avranno difficoltà a rilasciarla. Pregano perciò i capitani di chiederla sollecitamente quella “poliza” a tutti e tre, quanto prima, con lettere opportune.

 

Cambiamenti nella camera apostolica

Dopo anni di preparazione, dopo un’accelerazione verso la metà del 1540, con l’inizio del 1541 comincia ad entrare in esecuzione la riforma della curia romana. Almeno per alcuni settori. In primo luogo per quello finanziario. In particolare cambia o dovrebbe cambiare, nel senso di un maggior rigore, cioè di una sterzata anticorruzione, il modo di operare della camera apostolica. Qualche modifica anche nella composizione. Ad esempio non ne farà più parte il card. Parisani e nemmeno il suo amico card. Gambara, che vi rappresentano, in caso di assenza, il cardinale camerlengo, Guido Ascanio Sforza, nipote carnale del papa. A condurre le sedute d’ora in avanti sarà il presidente Sebastiano Graziani, vescovo di Ancona, in rapporti tutt’altro che buoni col card. Parisani. Inoltre diviene decisivo, per ogni deliberazione della camera, il parere di un esterno, Bernardino Elvino, Abbreviatore apostolico e, soprattutto, segretario del – giovanissimo – camerlengo. Elvino agisce sulla camera attraverso il presidente.

Il cambiamenti intervenuti nella camera apostolica ai primi di gennaio del 1541, complicano le cose per i sammarinesi. I quali, per giunta, si trovano a dovere affrontare, proprio in quegli stessi giorni, anche un altro genere di difficoltà. Dal Titano fanno sapere a Belluzzi e Corbelli che è necessario ridurre le spese. Insomma la comunità non è in grado di continuare a mantenerli a Roma. Devono rientrare. Entrambi? Rientrerà uno solo, Belluzzi, il più anziano. Resta Corbelli, il quale, per sopravvivere, insomma per mangiare, è costretto a continuare a chiedere soldi in prestito ai concittadini di Roma: poveri emigranti stagionali, che gli danno i soldi che dovrebbero spedire a casa. I capitani rifonderanno le loro famiglie?

Corbelli assicura che rimane lì non certo per il carnevale: “io delibero di continuo espormi per la patria e, libertà di quella ad ogni fatica, e disagio, come ho fatto e farò per questo arduo negocio”. Egli è conscio dei suoi limiti: “l’importantia del negocio voria negociatore di grande sufficientia e, pratica il che non son io”. La mancanza di danari gli impedisce di “pigliar conseglio d’altri”. A volte si abbatte e si dice “pronto à cedere l’impresa ad un altro”, preoccupato da “la lunghezza, e la dipertione del negocio”.

Corbelli stende una minuta del contratto. Alcuni amici gli consigliano di far vedere quella minuta, in anteprima, al camerlengo. Altri lo sconsigliano: l’anticipazione potrebbe metterlo in allarme. Corbelli: “Dio et il fautor nostro San Marino mi concedino dal lume dell’intelletto che per ignorantia io non cespiti in error alcuno”.

Corbelli fa visita a Bernardino Elvino, nel tentativo di “havere la minuta del breve”. Ma si sente negare quel piacere. Sarà perché ci va a mani vuote?

Davanti ai curiali non sarebbe mai opportuno presentarsi a mani vuote. Più si sale nella scala gerarchica e più il disagio cresce a domandare senza aver nulla da offrire. Corbelli è costretto a presentarsi a mani vuote anche davanti ai cardinali. Addirittura, in quel periodo, anche davanti ai cardinali amici. Talvolta senza nemmeno una lettera di presentazione fatta come si deve: “se non li damo dinari né formaggio, li faciamo almeno parte del pagamento con parole, che sono di poca spesa”, sbotta coi capitani!

 

Fra contratto e breve, la patente

La stipula del contratto del sale per San Marino è urgente, urgentissima. Dalla Romagna potrebbero riprendere da un giorno all’altro le rappresaglie.

L’urgenza del contratto, però, non si concilia con i tempi ordinariamente lunghi previsti per il rilascio di un breve. Corbelli, per superare l’inghippo, propone ai suoi concittadini di accontentarsi, in un primo momento, di un documento di livello inferiore, una patente firmata dal card. camerlengo, per la quale i tempi sarebbero stati certamente inferiori. A deliberarla, in pratica, sarebbe stato lo stesso organismo, la camera apostolica, che aveva fissato i termini del contratto. In seguito, senza l’acqua alla gola, si sarebbe cercato la convalida di quella patente camerale attraverso un documento, breve, a firma papale.

Sul Titano sono d’accordo. Si parte per la patente.

Anche la patente, però, si rivela ben presto di difficile conseguimento, dopo i cambiamenti intervenuti nella camera. Addirittura, dopo quei cambiamenti, potrebbe essere difficile ottenere il contratto, nei termini deliberati il 23 dicembre.

Corbelli, già verso la fine di gennaio, riceve dai capitani il mandato di procura per la stipula del contratto. Per scrupolo e per guadagnare tempo, lo dà subito da leggere, in anteprima, a Elvino. Questi, però benché continuamente sollecitato, tarda giorni e giorni a far conoscere che cosa ne pensa. E quando finalmente si pronuncia, verso la metà di febbraio, dice chiaro e tondo che se il documento non viene modificato, non si può procedere alla stesura del contratto, in quanto vi si dovrebbero mettere tante e tali clausole da farlo divenire un trattato. Contro la volontà del papa, il quale, secondo Elvino, assolutamente “non voleva capitulare” con San Marino.

A Corbelli non resta che tentare di raggirare Elvino.

Siccome Elvino non fa parte della camera, Corbelli il 18 febbraio 1541 si presenta in camera e chiede di “stipulare – all’istante? – secondo l’ordine già replicato più volte”, cioè nei termini stabiliti in dicembre. Fin dalle prime battute, però, si accorge che Elvino lo ha anticipato: rispetto a dicembre, la camera ha “mutato proposito”. Elvino lo ha anticipato. Corbelli riferirà ai suoi: i camerali “volevano che io soltanto obligasse la comunità à pigliar il sale non si volendo loro obligare versa vice à vendercilo”. In sostanza la camera apostolica, nella nuova composizione, è intenzionata a trattare quella del Titano come una qualsiasi comunità soggetta. Quel sale i sammarinesi lo devono ritirare, e basta. Corbelli, rifiuta. Dice ai camerali che lui dai suoi concittadini “aveva havuto el mandato per eseguir quanto altre volte si era raggionato”, cioè: “un contratto di compra, e di vendita dove, deve una parte obligarsi a prezzo e laltra a la cosa venduta”.

Corbelli, insomma, rivendica, davanti alla ‘nuova’ camera apostolica, l’esecuzione della deliberazione presa dalla ‘vecchia’ camera apostolica. I camerali ribattono. Corbelli pure. Finalmente il presidente mette fine alla discussione prima che degeneri, rinviando il caso ad altra seduta. Quando se ne riparlerà?

Da San Marino, nessun aiuto per il povero Corbelli. Nemmeno per vivere. Egli può continuare a stare a Roma grazie al buon cuore dei concittadini, lì per lavoro: “Marino del papa … ducati 2 Mozzi, e, Pasquino de giuliano da Canino… ducati 2 Doro”. Chiede ai capitani che almeno “voglino essere buoni renditori …. Non è giusto che – le famiglie di quei concittadini – pateno” per riavere quegli scudi!

Quanto alla trattativa, ormai essa ha preso ad avvitarsi su se stessa. Pericolosamente. Bisogna uscirne. Per uscirne Corbelli non vede altra strada che “ricorrere a li piedi di Sua Santità”. Il card. Parisani si offre di accompagnarlo lui dal papa. E lo rincuora dicendogli che gli avversari di San Marino non possono, nemmeno se vogliono, stravolgere “i pristini aprontamenti”, cioè la deliberazione di dicembre.

Che effetto può avere un colloquio con Paolo III?

Paolo III ha appena posto fine alla guerra di Perugia, conclusasi con la resa della città, costretta d’ora in avanti ad acquistare il sale della camera apostolica alle condizioni degli altri luoghi. E sta spostando parte delle milizie utilizzate a Perugia, per lanciarle contro il ribelle Ascanio Colonna al fine di costringerlo a pagare, come tutti, i tributi, in primo luogo il sovrapprezzo del sale. A Rimini, cioè a due passi da San Marino, il presidente di Romagna, card. Di Monte, fronteggia il malcontento popolare nato dal sovrapprezzo del sale, senza concedere nulla, nonostante la pericolosa strumentalizzazione che ne stanno facendo i Malatesta.

Difficilmente un colloquio col papa, in un tale contesto, avrebbe potuto portare qualche vantaggio ai sammarinesi a proposito del sovrapprezzo del sale. Il Parisani troverà un’altra strada?

 

Cambia il tesoriere generale

Il 1° maggio 1540 Girolamo Capodiferro, tesoriere generale, si trasferisce ad altro ufficio, la dataria. Il suo posto, nella camera apostolica, viene occupato dal bolognese Giovanni Poggio, amico di Parisani e di Gambara, i due cardinali che avevano pilotato, a favore di San Marino, la seduta di dicembre.

Il 5 maggio Giuliano Corbelli fa visita al presidente della camera. Riferisce ai capitani: “tanto il suplicai et gli dissi che lo condussi in Camera di messer Bernardino Elvino: e perché lui è stato sempre di animo di non ci volere dare la patente né di fare il contratto secondo gli approntamenti”; ad entrambi “ gli feci vedere li exanimi de li testimonij super libertate et immunitate nostra et le pollize de li Reverendissimi Cardinali e gli feci anche vedere la patente conforme à dette pollizze et examinij”. Il presidente sbotta: “havete à ringratiare Dio che è fatta, che se non fosse fatta non l’havresti maj”. E con Elvino promette di preparare il contratto nel rispetto della deliberazione della camera presa il 23 dicembre 1540.

E’ prevista una riunione della camera per domenica mattina 8 maggio, in casa del camerlengo. Il presidente, nel comunicarlo a Corbelli, si premura, a nome dei camerali, di dargli un avvertimento: che “non pensi de Capitular con loro”! Come dire, niente discussioni.

Quella domenica, però, la riunione non ha luogo. Invece di sbrigare pratiche “il Reverendissimo Camerlengho andò à desinare con madama”. Corbelli approfitta del rinvio per tornare “nuovamente …a parlare al Reverendissimo Camerlengho”, il quale, in sua presenza, chiama il presidente e fissa una nuova convocazione della camera per venerdì 13.

Giovedì 12 Corbelli, in compagnia di un segretario del Parisani, fa visita a “doi di questi Chierici di Camera”, a casa loro ovviamente. “Il che di poi non poco … giovò” rivelerà lo stesso Corbelli, il quale però si guarda bene dallo scrivere i nomi dei due, trattandosi di ‘contatti’ vietatissimi, benché usuali. Finalmente arriva il grande giorno. Racconta Corbelli: “venerdì mattina raccomandatime prima a Dio, et a San Marino, come quello che si vede un periglioso passo inanzi; fatto buon animo mi aprestai al cospetto loro menando meco messer Michelangelo Notario di Camera per rogarsi del contratto e, così raccontateli li approntamenti, con brevi parole,…, dissi che desiderava che non mi trattenessero piu oltre e, dato il mandato in mano à messer Michelangelo dissi che era paratissimo de fare detto Instrumento”. Di rimando pure i camerali si dicono disposti alla stipula del contratto, ma aggiungono – ancora una volta – che non vogliono “capitulare”. San Marino è San Marino. “Non si tratava de capitular fra la Sedia Apostolica e la Signoria di Venetia”!

 

Il contratto

Corbelli si affretta a dire che era pure lungi da lui l’intenzione di “capitulare”. Che lui era lì non per stendere un trattato, ma un semplice, normale, comune contratto, dove c’è uno che vende qualcosa e c’è chi è interessato a comprare quella tal cosa. I camerali avevano dei “sali” da vendere? A lui servivano. Era “giusto che [glieli] vendessero obligandose alla traditione e consignatione de detti sali, alli lochi e tempi debiti”. I camerali, “dopo molte parole, argumenti pur se contentorno, che io [quel sale] l’havessi in nome di compratore”. In conclusione, nel 1541 Giuliano Corbelli si pone nei confronti della Santa Sede, come, mutatis mutandis, nel 1391 Pippo Cionci nei confronti della signoria dei Malatesta.

Altro punto attorno a cui si sviluppa la discussione, il prezzo. Non per l’ammontare, già fissato in 150 bolognini il sacco nella seduta del dicembre, ma per il modo con cui riportarlo. I camerali sostengono che bisogna scrivere che di quei 150 bolognini, 30 vanno a coprire il costo di ‘coltivazione’ del sale e 120 costituiscono il sovrapprezzo fiscale (“augumento”). Corbelli no. Non vuole che risulti che i sammarinesi hanno pagato il “sale con l’augmento”, cioè col sovrapprezzo fiscale. Vuole “tutto un prezzo” e basta. E l’ha di vinta. “Alultimo io fui vittorioso”, comunicherà ai capitani.

Poi camerali e Corbelli passano a questionare sulle monete in cui esprimere quel prezzo: se romane o romagnole. Ogni dettaglio diventa oggetto di serrato confronto fra il giovane dottor Giuliano Corbelli, un montanaro, venticinque anni appena, ed i maturi navigati membri della camera apostolica, un campionario dello spregiudicato mondo rinascimentale romano.

Per concludere, fra le altre, c’è, da parte del Corbelli, la singolare richiesta che tanto colpirà Zenone Riquerio: “ho fatto istantia che quando nel contratto si fa mentione di S. Marino sempre ci si metta libertatis terrae Sancti Marini dicendo che se io haveva spesi li denari et il tempo affaticando molti in provarlo che era giusto che l’admettessero, e così si ottenne onde merce de Dio e, del Protettore nostro, e dela giusticia”.

Il contratto del 13 maggio 1941 è un risultato di grande rilevanza per la comunità sammarinese. Esso è merito certamente della abilità e della determinazione del giovane Corbelli, ma anche del tesoriere generale Poggio il quale aveva bisogno di sdebitarsi con Parisani, protettore di San Marino, per l’aiuto ricevuto, negli anni precedenti, per far le scarpe a Guidiccioni nella nunziatura presso l’imperatore.

Appena firmato il contratto, Corbelli si preoccupa di far avvertire le autorità della Romagna perché pongano fine alle rappresaglie. Ma non può mandare una copia, autentica, del contratto. Per ritirare quel contratto occorrono soldi. Corbelli non li ha. Bisogna aspettare che glieli mandino dal Titano. Quando?

 

Dopo il contratto, la patente

Raggiunto il contratto, sull’onda di quel successo, Corbelli punta subito alla patente, un documento a firma del camerlengo che dia formale riconoscimento alla libertà sammarinese. E ci sarebbe arrivato se il presidente non si fosse impuntato sul testo predisposto dal Corbelli stesso (unitamente a suoi amici romani). Quel testo era già stato inoltrato al camerlengo per la firma e, secondo Corbelli, addirittura era già stato firmato. Il presidente vuol fare delle modifiche. Come minimo pretende che nel passo ove si afferma che i sammarinesi non possono essere obbligati al pagamento dei tributi in vigore nello Stato della Chiesa, si inserisca a mo’ di puntualizzazione: “contra solitum”. La reazione del Corbelli è netta, decisa. Perché contra solitum? Sarebbe come ammettere che in passato qualche volta è accaduto. Cioè che San Marino, in passato, ha pagato. San Marino, a detta di Corbelli, non ha mai pagato. E’ luogo libero ab immemorabili. Al che il presidente, che sa di precedenti pagamenti, dà in escandescenze. E rinfaccia a Corbelli – e a tutti i sammarinesi – una quantità di cose. Fra l’altro, che nel “sugello” della comunità figurino “quelle lettere che dicono libertas perpetua”.

Il presidente cerca di guadagnare tempo? Giovanni Poggio, sta per lasciare Roma, richiamato ancora una volta dai suoi doveri di nunzio in Spagna, e si dà per certo che gli subentrerà nella funzione di tesoriere generale – non, a quanto pare, nella titolarità – Bernardino Elvino. Corbelli sente crescergli attorno una ostilità quale prima non aveva mai avvertito. Scriverà ai capitani: “Esser ancho straccho tutto il mondo di questa cosa che tutti gli amicij sono infastiditi, e ormai non s’aprono più porte”, Quando il presidente fa quella sfuriata contro i sammarinesi a proposito della “libertas perpetua”, i funzionari e i normali frequentatori e clienti degli uffici, lo applaudono. Insomma per i sammarinesi dentro i palazzi della curia il vento comincia a spirare all’incontrario. Fuori?

Anche fuori dalla curia il caso San Marino, nella piccola Roma cinquecentesca, diventa ben presto noto per la sua singolarità. Calamita attenzione, suscita curiosità. Per gli uomini di cultura la testarda determinazione con cui i sammarinesi affermano di non avere superiorem in temporalibus e chiedono al papa di convalidare quel loro status, è la conferma di quanto hanno letto in Flavio Biondo: “Samarinum oppidum … perpetuae libertatis gloria clarum”. E ne sono ammirati. Pietro Bembo scriverà di una “comunanza d’huomini montani, che la repubblica amministrano, né servono ad alcuno”. Il Trissino canterà di un “San Marino/ che di perpetua libertà si gode”.

A Roma però c’è anche chi, al sentire di un San Marino libero, gli si muove l’appetito. Un luogo libero, cioè senza un signore, è pure senza un protettore. Quindi facile da ‘rubare’, come si dice in gergo in quell’epoca, per farne un feudo. Così che il nome San Marino comincia a circolare negli ambienti ove si trattano feudi, un mercato fiorente verso la metà del Cinquecento, in mano a personaggi che assommano l’ardire e le capacità organizzative dei capitani e il fiuto e le disponibilità finanziarie dei banchieri.

 

Corbelli, criticato dai suoi

L’ottenimento del contratto del 13 maggio 1541 da parte di San Marino ha del miracoloso se si tien conto del contesto in cui avviene. Sono ancora vivi gli strascichi della guerra contro Perugia e da appena tre giorni è terminata quella contro Ascanio Colonna. Guerre in cui il papa ha impiegato fino a 10.000 soldati, pur di non consentire che si disobbedisse alla imposizione sul sale.

Eppure i concittadini di Corbelli sono tutt’altro che soddisfatti. Quel contratto li obbliga a comperare un certo quantitativo di sale, a prezzo maggiorato e per otto anni, senza contropartita. Il riconoscimento del loro status di libertà, pur promesso, non è arrivato né come breve e nemmeno come patente camerale. Si sentono raggirati. Roma ha approfittato, senza scrupoli, della inesperienza del troppo giovane Giuliano Corbelli. Insomma Corbelli non avrebbe dovuto firmare il contratto senza avere in mano la patente (e in ‘buona forma’).

Corbelli si mette a correre come un dannato da un lato all’altro di Roma, per rimediare, per recuperare la situazione, per strappare quella benedetta patente senza l’aborrito contra solitum. Racconta ai capitani: “faccio ogn’opera per levare la patente del sentore di prima et ho fatto e faccio istantia di oprar il mezzo dell’Illustrissimo duca di Castro. Ci sono stato a casa”. Egli si è recato a casa del duca di Castro, Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III, una decina di volte. Non è riuscito a farsi ricevere.

Carbelli scrive e riscrive la minuta di quella patente. La questione si impelaga in disquisizioni sottili, defaticanti: “ultra solitum …, iuxta solitum…, contra solitum”. Intanto “l’affanno, le fatiche et li caldi” incidono sulla salute del giovane. In quelle condizioni egli non può riposare “ne la mente… ne il corpo”. E dal Titano nessun aiuto. Nessun conforto. Nemmeno il contratto, i concittadini del Titano vorrebbero ritirare. Poi sono costretti. Il tesoriere di Romagna sta per dar corso nuovamente alle rappresaglie.Si fermerà solo quando, quel contratto, glielo mettono in mano in copia autentica.

Dunque i sammarinesi ritirano il contratto, perché costretti. La patente no. Per quel contra solitum. Non la ritirano nonostante che il card. Filonardi consigli loro di ritirarla: “A’ noi pare fosse bene accettare la patente del Reverendissimo e Illustrissimo Signore Camerlengo nel modo, che già si trova signata da sua Reverendissima e Illustrissima Signoria”. Filonardi assicura che Corbelli si è profuso al massimo nella trattativa, fino a pregiudicare la sua salute. Di più non era possibile ottenere. Ad avviso del cardinale, un personaggio autorevolissimo, “homo … grande con papa Paulo terzzo”, anche con quel contra solitum, la patente è un documento importante, un riconoscimento eccezionale della libertà sammarinese che va colto, incassato.

I sammarinesi del Titano non ascoltano Filonardi e nemmeno tanti esperti di diritto e di politica. Così che per quel contra solitum, Corbelli verso la fine del mese di luglio deve rientrare a San Marino con la coda fra le gambe. Senza patente e, per giunta, in precarie condizioni di salute.

Col ritorno sul Titano del Corbelli anche la trattativa sul sale sembra ormai definitivamente conclusa. Pare che, ritirato il contratto, i sammarinesi abbiamo rinunciato a perseguire il riconoscimento formale del loro status di libertà, che pure era stato loro promesso nella riunione straordinaria della camera apostolica del 23 dicembre del 1540.

 

Si riparte da Santarcangelo

Nell’autunno del 1541 Paolo III, di ritorno da Lucca dove ha incontrato l’imperatore, passa nelle vicinanze del Titano. I sammarinesi mandano Belluzzi e Corbelli ad ossequiarlo. I due provano ad accostarglisi a “Gualdo”. Non ci riescono. Ci riescono a Santarcangelo. “Con l’aiuto de nostro Signore Idio gli havemo comodamente parlato in Camera”,riferiscono ai capitani. Non c’è però modo di toccare questione alcuna nell’incontro. Non si va oltre a un formale invito a visitare il Titano. Il papa “ha risposto e ringraziato del buon animo della comunità”, ma sul Titano non salirà: “havea deliberato passare da basso per la strada più comoda”.

Corbelli e Belluzzi hanno modo di ossequiare – non a mani vuote – anche il camerlengo, che trovò il “presente… graditissimo”. Poi è la volta del presidente della camera “al quale è molto piaciuto il vino”. Tanto che “secondo che ha motteggiato ne vorrebbe domani e ogni dì se possibile fusse”, riferiscono ai capitani. Infine vanno a salutare Casulano (il notaio del contratto del sale) e Michelangelo (pure lui notaio presso la camera apostolica), coi quali finalmente si può tirar fuori la questione che preme: la patente. I due notai promettono che ne parleranno al camerlengo e al presidente.

Questa volta a trattare a Roma i sammarinesi non mandano né Belluzzi né Corbelli, ma uno nuovo, Gian Giacomo Pinti, il quale, probabilmente, si era proposto – aveva promesso? – di conseguire la patente e poi il breve di convalida (o addirittura una bolla) in tempi molto stretti. Forse un mese o poco più. Evidentemente non si aspettava che Bernardino Elvino, il tesoriere generale della camera apostolica, col quale subito appena giunto a Roma deve scontrarsi, fosse realmente come a San Marino veniva dipinto: uno che “è venuto grande e tiene quel luogo perché nelle cose della Camera è rigidissimo e terribile: e dove si tratta di expiditioni ò de le libertà o, immunità, che lui non ci vuol mai inclinare”.

Pinti, per piegare Bernardino Elvino (cavarsi “dalle mani di questo pharaone”), attraverso una catena di servitori e segretari si fa ricevere dal card. Marcello Cervini, un personaggio di indiscussa moralità e autorevolezza, ed anche “un favorito del papa”, anzi “la anima del Papa e di Farnese”. A un ordine del Cervini, Elvino non avrebbe che dovuto obbedire.

Il Cervini – poi papa Marcello II – prima di dare un ordine a Elvino a favore dei sammarinesi, vuol capire in cosa consista la questione. Pinti gliela spiega. Gli racconta tutta la vicenda e, fra l’altro, che i sammarinesi ritengono di non avere sopra di sé “superiorem in temporalibus”. Riferisce Pinti ai capitani, che al cardinale “parse un monstro il dire che noi non conoscevamo per superiore ne Re, ne Papa, ne Imperatore, ne altro principe al mondo dicendo volete voi adunque venire immediate da Dio?”. Secondo Cervini il Titano non può non essere sotto la sovranità del papa, in quanto non può non appartenere allo Stato della Chiesa. Vi è entrato a far parte con la donazione dei re dei Franchi, cioè col primo nucleo di territori da cui, appunto, ha avuto origine lo Stato della Chiesa. Pinti ribatte che la libertà sammarinese è nata prima dello Stato della Chiesa, grazie al Santo, il quale, avendo ricevuto, per i suoi meriti, in dono il Monte da una matrona, Felicita, lo ha lasciato poi in eredità agli abitatori del luogo, suoi fedeli, i sammarinesi appunto. Il Cervini, paziente, spiega che la matrona Felicita aveva, al più, il possesso del luogo, ma non disponeva della sovranità. La sovranità era dell’imperatore. Pinti ribatte che il fatto è avvenuto quando l’Italia divenne cristiana: il Titano fu tra i primi luoghi – lui dice il primo –  a passare alla vera religione, subito dopo la caduta dell’Antico Impero Romano e prima della nascita del Sacro Romano Impero, cioè quando non c’era nessun imperatore.  Un dialogo fra sordi. Quattro o cinque incontri non sono sufficienti a dipanare la matassa. Il card. Cervini è irremovibile. Onesto e ligio ai suoi doveri di cristiano e di cardinale, come potrebbe assecondare la richiesta di una comunità dello Stato della Chiesa, che arriva a “negar di riconoscere el Papa in superiore”? Se i sammarinesi vogliono l’esenzione da tutti i tributi sulla base del fatto che da sempre ne hanno goduto, ebbene sì, in questo, è disposto ad aiutarli. Ma non quando pretendono che si riconosca, per iscritto, che non hanno superiorem in temporalibus. In conclusione, secondo Cervini, la patente, può essere sì rilasciata, ma “senza quella clausula non recognoscendi aliquem in superiorem”.  Pinti, fallito il tentativo di scavalcare Elvino, ricorrendo al Cervini, rivelatosi più duro dello stesso Elvino, nella primavera del 1542, getta la spugna ed abbandona l’impresa.

 

L’attentato di Fabiano Di Monte

Nella notte fra il 3 e il 4 giugno del 1543, due colonne di soldati da Santarcangelo e da Rimini muovono all’attacco del Titano. E’ un progetto serio: 500 fanti più un certo numero di uomini a cavallo e scale e corde. Una improvvisa nebbia fa perdere l’orientamento a una colonna. C’è un ritardo nel ricongiungimento. Il progetto, in cui l’effetto sorpresa, evidentemente, era considerato essenziale, fallisce. Al comando dei soldati, Fabiano Di Monte, nipote del card. Di Monte. L’impresa era stata finanziata dalla famiglia Strozzi, fiorentina, specializzata in ‘rubare’ luoghi in proprio o su incarico.  San Marino, benché attaccato dal papa, non si butta nelle braccia dell’imperatore, Carlo V, che subito ha offerto la sua protezione, inviando sul Titano un proprio rappresentante. E nemmeno in quelle di Cosimo de’ Medici, in lotta e col papa e con gli Strozzi. Per due anni si chiude sulla difensiva, a riccio, come un animale ferito proditoriamente, che vede pericoli da ogni parte. Poi esce da quello stato di autoisolamento per imboccare nuovamente la via di Roma, per riprendere la trattativa per il riconoscimento formale della sua libertà. Ambasciatore: Giuliano Corbelli. Istruzioni: conseguire quella benedetta “patente già tanto tempo fa promessa…nel modo et forma” a suo tempo richiesti; “la quale havendo, – dicono i sammarinesi – reputeremo quela libertà che gia mille anni et più avemo in pace posseduta”.  Questa volta San Marino prima di avviare la trattativa col papa, informa il duca d’Urbino di “quella patente che si cerca d’havere à dichiarazione, et testimonio perpetuo de la libertà di testa Terra”. Il parere del duca (il quale in occasione dell’attentato di Fabiano Di Monte, subito era accorso in aiuto di San Marino) è che detta patente “debbiasi cercarla, et pigliarla”, come “cosa che sia à Benefizio di testo luoco, come è veramente”. Insomma, i sammarinesi, “seguitino purre” a trattare per ottenerla. Da Urbino nessun ostacolo.

 

La seconda volta di Corbelli

Giuliano Corbelli, verso la fine di marzo del 1545, arriva a Roma. Durante il viaggio ha fatto sosta a Perugia, per far visita al card. Ascanio Parisani, il quale gli ha dato una lettera per il camerlengo. In essa il cardinale ha riassunto l’intera vicenda, soffermandosi in particolare su quanto “concluso” nella “Camera estraordinaria” del 23 dicembre 1540 ed evidenziando che i sammarinesi avevano onorato l’impegno circa il “pagamento dei sali”, per cui ora toccava alla camera apostolica fare la sua parte, cioè rilasciare “quella declaratione che in quel tempo ne fu promessa”.  Il camerlengo legge quanto scritto da Parisani, ma non prende decisioni. Prima vuol sentire il parere del tesoriere generale. Cioè Bernardino Elvino. Insomma niente da fare. Corbelli, disperato, decide di andare dal papa. Poi ci ripensa. A che pro’? Paolo III – scrive lo stesso Corbelli ai capitani – “non essendo informato ci rimetterà al Camerlengo il quale per questo non ce espedirà se non per mezzo del Thesoriero”, cioè Bernardino Elvino.  Finché tesoriere generale della camera è Bernardino Elvino, non c’è verso di spuntarla. Corbelli scrive ai capitani: “per non perder più tempo né dar dispendio alla comunità dellibero con bona licentia e gratia delle S.V. al principio di maggio essere di ritorno”.  In effetti la patente si potrebbe anche avere, ma “con quella clausula contra solitum”. Nemmeno pensarci di “haverla senza la clausola contra solitum”. Sbotta Corbelli: “se l’havessi voluta di quella sorte, che non ci accadeva di aspettare sin qui”!  Tuttavia Corbelli non ritorna subito a San Marino come aveva preannunciato. Uno spiraglio apertosi all’improvviso proprio alla vigilia della partenza, ai primi di maggio, lo induce a rimanere. Ennesimo tentativo. Dopo un mese di duro lavoro, ai primi di giugno, Corbelli riesce ad ottenere una bozza di patente che gli sembra accettabile. La invia sul Titano per l’approvazione. Sorpresa! Questa volta sono quei del Titano a fare i difficili: gli scrivono di ritorno che la bozza a loro “è parsa magra et poco al proposito de la Comunità”! Insomma, ancora una volta, non se ne fa nulla. La patente è ormai un incubo per Giuliano Corbelli, distrutto dalla fatica di quella trattativa senza fine. Col passare degli anni, gli cresce dentro il rammarico, per essersela lasciata sfuggire all’inizio, nei primi mesi del 1541. Se l’era lasciata sfuggire, quella volta, a pensarci, per una inezia: “una clausula che si mutava in la prima patente, la cosa passava senza più contra solitum”! Ora non resta “che pregare Dio che à prece del devoto Protettore nostro ci drizzi à buon camino e che si finischi una volta l’occasione di travagliare”.

 

La seconda volta di Pinti

I sammarinesi riprendono a “travagliare” per la patente nella primavera del 1546, affidando l’incarico per la seconda volta a al Pinti. Questi si presenta a Roma con una lettera del duca d’Urbino Guidobaldo, il quale dopo avere affermato che i sammarinesi sono sotto la sua protezione (come sono stati in passato sotto quella dei suoi avi), ricorda “l’antica libertà, nella quale sempre se sono conservati… come è noto a tutti”; assicura che proprio “per questa” libertà non furono “mai molestati per occorrenza alcuna de la Santa Chiesa”; infine accenna al “contratto che già fecero limitatamente per otto anni, non per obbligo, ma per gratificare Nostro Signore de la cui Santità sono devoti, et fedeli”.  Il camerlengo, vista la lettera del duca d’Urbino, manda Pinti, per un parere, da Bernardino Olivero, tesoriere di Romagna. Ebbene cosa dice Olivero a Pinti che gli ha portata a leggere la bozza della patente? “Voi narrate di molte cose in essa che qua non consta niente: saria bisognato che havesti fatto un’processo qui e fatto constare tutto quello che si narra”. Come dire: mancano le basi per rilasciare la patente. “Li exanimi de li testimonij super libertate et immunitate … et le pollize de li Reverendissimi Cadinali”, non valgono nulla, sul piano giuridico, visto come sono stati raccolti.  Ormai non è più questione di forma. Nemmeno tentare di modificare il testo col togliere questo o aggiungere quest’altro. E’ il rilascio stesso del documento – il rilascio tout court – a essere rimesso in discussione.  Pinti, per la seconda volta, deve rinunciare all’incarico. Rimane a Roma per ragioni private.

La patente!

Il 18 febbraio 1547 muore a Fossombrone, all’improvviso – troppo all’improvviso? – Giulia Varano, di anni 23, moglie del duca d’Urbino, Guidobaldo II. E “Guidobaldo, caldo ancora per la gioventù, lasciato appena freddare il talamo nuziale, si cercò una nuova sposa e presto la trovò nella famiglia farnese”. Sposa Vittoria Farnese, nipote del papa.  Adesso i sammarinesi possono riprendere a inseguire la patente non solo col consenso di Urbino: bensì facendo leva su Urbino. A Pinti, già a Roma, affiancano un nuovo ‘ambasciatore’: Pier Paolo Bonelli. Domenica mattina 25 marzo il segretario del duca d’Urbino, Pinti e Bonelli sono ricevuti dal camerlengo. Ma – sembra un destino – anche questa volta “la cosa” prende da subito una “assai mala piega”. Pare “che il Camerlengo” ancora una volta “vogli rimettere” la questione al “ Thesoriero”, cioè a Bernardino Elvino, in quanto, a suo parere, il più indicato a ricostruire la pratica. Questa volta, però, i sammarinesi non si fanno sorprendere. Con pronta “destrezza”, in alternativa a quello di Bernardino Elvino (fra l’altro non in buona salute) suggeriscono il nome di Nicolò Casulano, sostenendo che questi avendo partecipato a tutte le fasi della trattativa come notaio della camera, la documentazione ce l’ha già pronta. Il camerlengo accetta la proposta. Elvino sta veramente male? Casulano, come sa dell’incarico, si precipita in casa di Pinti. Poi, spronato anche da un altro sammarinese, Francesco Pellizzari, che aveva con lui “qualche familiarità”, senza frapporre indugi “se ne andò dal Camerlengo, et gli referì come stava la cosa”. Dal camerlengo è andato con in mano la patente, già bell’e pronta nella forma auspicata dai sammarinesi. “Il Camerlengo – all’istante – sottoscrisse la patente”. Unica condizione: prima di spedirla, che gli si porti a “vedere l’instrumento del sale che si fece con la Camera” il 13 maggio 1541. Glielo portano di corsa.  “Finalmente questa sera mi è stato spedita la nostra patente”, scrive ai capitani Pier Paolo Bonelli il 14 aprile 1548. Una patente che per il contenuto, è stata registrata come “sententia declaratoria”. Per ritirala ha dovuto – giustamente! – “pagare la tassa delle sententie”.  La patente risponde pienamente alle attese dei sammarinesi espresse nel pro memoria (o istruzioni) per gli ambasciatori del gennaio del 1541. Addirittura secondo il – gongolante – Pier Paolo Bonelli, sarebbe “non solamente, come la prima volta, ci fu segnata, ma ancho con qualche cosa di meglio per noi”. Com’è potuto accadere di migliorarla? “Havendo noi nel negociare nostro scusato la mano del Thesoriero, senza strepito havemo ottenuto l’intento nostro”.  Bernardino Elvino ha mollato proprio per ragioni di salute. Ragioni serie. Morirà poco dopo, verso la metà di luglio.  Il successo dei sammarinesi ha dell’incredibile, da segnare nella storia come una delle tappe più importanti della loro storia, come giustamente, Zenone Riquerio, due secoli dopo, rileverà.

 

 Il “breve confirmatorio”!

Il camerlengo – unico fra i cardinali – ha la facoltà di firmare documenti a nome del papa pur in assenza di una delega specifica. Quindi la patente ottenuta dai sammarinesi ha già, sul piano giuridico, un valore pieno, come se fosse stata firmata dal papa in persona. Basterà a proteggere San Marino? Il 10 gennaio 1549 il conte Fabrizio di Bagno segnala da Montebello ai sammarinesi che è “nato qualche sospetto alla Republica”, per un improvviso movimento di armati nella zona di Verucchio, feudo dei Pio di Carpi. Per mesi sul Titano ad un allarme ne seguirà un altro e poi un altro ancora. Una tensione continua. C’è necessità di una vigilanza continua. Verso Urbino partono dal Titano continue richieste di soldati. Ogni volta occorre una esplicita e formale autorizzazione del duca. Uno stillicidio. Il 20 maggio i sammarinesi, sfiancati, procedono alla stipula, col duca di Urbino, di un formale trattato di protezione. Di qui in avanti quando i sammarinesi “recercheranno de fanti con un capo per servirsene” a difesa del Titano, il comandante delle milizie del duca ha la facoltà di “mandarne in quel numero che loro medesimi vorano, et tante volte quante” i sammarinesi lo chiederanno.  Tuttavia i sammarinesi non rinunciano a portare avanti la loro antica rivendicazione a Roma per il riconoscimento della loro libertà, nonostante il trattato di protezione firmato con Urbino. Si rimettono in moto per conseguire un “breve confirmatorio” della patente camerale, ottenuta l’anno prima. E’ Pinti questa volta a condurre l’operazione-breve: “negotiarò con la massima destrezza ch’io saprò perché habbia effetto, et di mano in mano darò avviso de i successi”. Ben presto però s’accorge che nonostante quella sua “massima destrezza” e nonostante l’impegno pure massimo, “i successi” millantati non arrivano. Onestamente lo riconosce. Ne fa partecipe subito i capitani. E propone di uscirne chiedendo aiuto al duca d’Urbino, Guidobaldo, il quale – da Venezia dove si trova – risponde positivamente: “scrivessimo anco all’ambasciatore nostro acciò favorisce la confermatione de la vostra bolla in Roma appresso Sua Santità et quant’altro fosse di bisogno”.  Qual è la strada migliore per ottenere un breve? Secondo Pinti: “fare passare una suplica et poi sopra di essa expedire il breve“. Una supplica può dar luogo a un breve qualora “sia signata di mano del papa”. Data “la materia” piuttosto delicata, la strada sarà “difficiletta, pur ne spero bene”, spiega Pinti ai capitani. La strada che Pinti propone – e che poi seguirà – è quella della Segnatura Apostolica, il tribunale supremo nello Stato della Chiesa, presieduto dal papa stesso. Punto nodale della procedura presso quel tribunale è la illustrazione della pratica ad opera del “Referendario proponente”.  Pinti dice ai capitani che aspetterà una udienza in cui “sarà proponente” un referendario che si “conosca habbia da essere favorevole” a San Marino. Uno che “habbia da favorire la cosa gagliardamente”. Ed, effettivamente, riesce a moderare l’impazienza sua e dei suoi concittadini, “fin’tanto che” non arriva il momento giusto. Il 6 luglio avverte i capitani: “alla prima signatura che farà il papa”, se tutto va per il suo verso, “sarà proponente un’amico mio e del signor Imbasciatore [d’Urbino], et potria la cosa passar bene: che Iddio ne concedi la gratia”.  Il Tribunale della Segnatura si riunisce ogni quindici giorni. Puntualmente il 20 luglio Pinti comunica ai capitani: “questa mattina in signatura del papa …, hò dato a  proponere la nostra suplicatione, et il proponente mi hà promesso non manchare, et mi hà dato anchor assai speranza ch’habbia da passare”. E due giorni dopo già conferma che la “suplicatione” è stata proposta “dinazi a Sua Santità et fu signata favorevolmente di sua mano“. Conclusione, adesso San Marino ha “la supplicatione già … signata in buona forma”. In “buona forma”!

 

Forse una bolla?

Guadagnato quel segno di approvazione di mano del papa sul documento, per riuscire a disporne, bisogna espletare alcuni adempimenti. Passaggio obbligato: la dataria, cioè l’ufficio preposto ad apporre la data sul documento e quindi a perfezionarlo, in pratica a renderlo esecutivo. Ovviamente si paga. Secondo un tariffario, diciamo così, indicativo dei minimi. In genere il datario cerca di ricavare di più. E non perde occasione per ricavare di più, cioè chiedere un supplemento. Il supplemento, detto compositio, egli può chiederlo quando il documento, per il suo contenuto, non può essere classificato come ordinario.  Ebbene il datario come vede il documento di San Marino, “pensando lui fosse cosa di maggior importanza” di una supplica ordinaria, eccolo a chiedere “per sino cinquanta et sessanta scudi di compositione”. Chi poteva prevedere che il datario “havesse da volere compositione”? Il datario ritiene che nel documento si tratti di “una materia estraordinaria”. Ed ha ragione! Una materia “che Dio sa quando ne fu una simile” in una supplica avanzata in Segnatura, ammetterà lo stesso Pinti!  A San Marino non si rendono conto delle difficoltà che Pinti deve superare. Fanno le bizze. Non vogliono pagare. Mettono in discussione addirittura la modalità seguita per arrivare al breve. Pinti, vorrebbe sì, anche lui, spendere il meno possibile, ma si rende pure conto che non si può tirare troppo la corda. Qualcuno potrebbe davvero controllare il contenuto del documento e allarmare l’ambiente. Bisogna, al contrario, farlo scivolare via quel documento come un atto di normale, ordinarissima amministrazione, come una delle tante pratiche normalmente trattate nel Tribunale della Segnatura. Di modo “che questo Datario che è francese non si inombra et stimi la cosa di più importanza di quello che è et la facci montare più su, o vero vi aggionga qualche clausula restrittiva che imbratti tutta la suplica”. Spiega Pinti: “Qualcheduno pratico mi dice che essendo questa materia perpetua et che pare d’importantia e di comunità, che non me la voranno expedire per breve, ma voranno che si expedisca per bolla piombata in cancelleria, dove andaria molta maggior spesa assai che nel breve”. In effetti la materia trattata è ‘perpetua’. Cioè da bolla. Ed è politica. Cioè da cancelleria. Insomma, a rigore, ci vorrebbe una bolla ‘expedita’ dalla cancelleria.  Ma bisogna risparmiare. Scrivi Pinti il 22 ottobre: “Mando … il Breve nostro expedito per mio giudizio perfettamente secondo l’intento nostro della quale expeditione io ho ringratiato molto Iddio, perché ultra l’havere havuto quello che desideramo mi ha dato poi la gratia di negotiare tanto destramente ch’io ho schiffato la spesa de Cinquanta o sesanta scudi di piu che ci sariano andati se bisognava expedire per cancelleria in bolla piombata”. La spedizione in bolla piombata “veramente havria havuto piu del perpetuo” rispetto al breve, annota melanconicamente Pinti.  Però poi si riprende. “Havemo la suplicatione in mano“. Avendola in mano, “signata” dal papa, “potremo sempre expedire anchor se ne venirà voglia et parerà bene in bolla piombata”. Insomma ci si può ripensare.  Non ci si ripenserà più. Quel documento, ritirato come breve, tale rimarrà. Quanto alla valenza politica, basta ricordare l’espressione “neminem superiorem in temporalibus recognoscendi”: parole che, a detta di Zenone Riquerio (Enrico Enriquez), da “solo secondo rigore, escluderebbero la Sovranità Pontificia”.

 

 

 

 

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