PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Prima puntata (Inquadramento e protagonisti)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Prima puntata  (Inquadramento e  protagonisti)

                                    PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO

 

Prima puntata
(Inquadramento e  protagonisti)
   (Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII, Anno scolastico 1994-95)

 

 

A seguito di una recensione apparsa su un quotidiano di grande diffusione ho avuto occasione di conoscere la stupenda pubblicazione “Arte e storia nel Collegio Alberoni di Piacenza”. Il Superiore del Collegio, padre Alberto Vernaschi, da me contattato, con molta cortesia e generosità ne ha voluto poi fare omaggio alla Biblioteca di Istituto della Scuola Secondaria Superiore. Ed ha mandato, oltre ad alcune edizioni di minore mole, anche l’opera monumentale in quattro volumi “Cento studi sul Cardinale Alberoni” curata da Giovanni Felice Rossi, Professore di Storia Ecclesiastica ed Archivista presso lo stesso Collegio. Sette di tali studi afferiscono all’episodio sammarinese e costituiscono la VI Parte (volume II), intitolata: “L’ANNESSIONE DELLA REPUBBLICA DI S. MARINO ALLA S. SEDE ORDINATA ALL’ALBERONI DAL PAPA CLEMENTE XII (1739). Ognuno dei sette studi è accompagnato da una documentazione ordinata, vasta, e dettagliata fino alla puntigliosità.

 
Giudizi taglienti e singolari
Negli studi di argomento sammarinese sono espresse valutazioni che a me, non addetto ai lavori, appaiono assai diverse da quelle correnti, fondate, nei casi migliori, sul Malagola. Il Malagola, qui, viene giudicato severamente: “il più accanito detrattore dell’Alberoni”. Gli si addebita di essere tutto proteso alla “glorificazione della Repubblica di S. Marino attraverso la condanna dell’opera dell’Alberoni”.
Mi ha colpito ancor più il giudizio netto e cattivo, e ripetuto tante volte, su tre sammarinesi: Melchiorre Maggio, Giambattista Benedetti-Leonardelli e Marino Zampini. Già nella introduzione della parte riguardante S. Marino, l’Autore dice di aver ordinato “tutto il carteggio fra il Card. Firrao, Segretario di Stato, e l’Alberoni e quello fra l’Alberoni ed il Card. Corsini, nipote del Papa” per “sfatare il ‘falso storico’ creato dall’astuzia dei tre sammarinesi senza scrupoli”. Più avanti si ripete: “Nella questione di S. Marino e nella distruzione dell’impresa alberoniana ebbero un gran peso a Roma i tre preti Sanmarinesi senza scrupoli”.
Quei sammarinesi sono tutti e tre ecclesiastici, pur di diversa formazione e con diversi impegni e titoli: Maggio Monsignore, Leonardelli Canonico e Zampini Abate. Essi, continua l’Autore, “sono i veri organizzatori della ‘canizza’ ordita contro l’Alberoni. Essi arrivano a Cardinali, a rappresentanti di Corti estere e anche al Papa, che nel suo stato di salute – non sempre compos sui – diceva e disdiceva con facilità”.
Mons. Maggio è Chierico di Camera presso la curia romana. L’Abate Zampini è l’Agente (cioè il Rappresentante) della Repubblica di San Marino a Roma. Il Canonico Leonardelli affianca a Roma l’Agente Zampini in qualità di Inviato, dopo l’aprile del 1739, quando il clima attorno a San Marino comincia a surriscaldarsi, appunto per le manovre che sfoceranno nell’episodio alberoniano.
Ebbene, sostiene l’Autore, “ingiustamente i Sanmarinesi in modo accanito se la sono presa con l’Alberoni e ne hanno vituperato la memoria. Il suo procedere è stato retto, leale, canonico; non così quello di Mons. Maggio al quale i Sanmarinesi innalzarono un monumento nel Palazzo Pubblico per essere riuscito a piegare il Papa e a far reintegrare la Repubblica. Ci riuscì, ma non onestamente. Egli e i suoi collaboratori riuscirono a creare un ‘falso storico’. Ora spetta agli storici non venduti – tipo Malagola – sostituire la storia a quel ‘falso’. Occorrerà tempo, ma la verità alla fine sarà riconosciuta”. Di qui l’impegno dell’Autore a reperire i documenti “utili per conoscere la realtà dei fatti falsamente presentati nella versione dei Republichisti Sanmarinesi”.
Il giudizio su questi tre sammarinesi (un po’ su tutti?), già così cattivo, diventa cattivissimo su Mons. Maggio: “per la sua losca attività – collaboranti l’Abate Zampini e il Canonico Leonardelli – il Papa aveva annullato la sottomissione dei Sanmarinesi alla S. Sede”. E “fu specialmente per opera di lui che il Pontefice fu indotto a non credere alle relazioni ufficiali dell’Alberoni e a sconfessare il suo operato nell’impresa di S. Marino”.
Di fronte ad affermazioni tanto radicali, è sorta in me la curiosità di rileggere la vicenda alberoniana utilizzando in primo luogo i documenti che l’Autore con tanta competenza ha raccolto, selezionato, ordinato e messo a disposizione di tutti. Così che anch’io, un non specialista, ho potuto dilettarmi in una nuova riflessione e maturare, su quei fatti, un – personale – più meditato giudizio.
 
I fatti
Facciamo il punto al 22 ottobre 1739. Il Card. Giulio Alberoni, Legato di Romagna, è a San Marino. Vi è venuto in qualità di Delegato Apostolico incaricato di accettare la sottomissione di San Marino allo Stato della Chiesa. Il Breve che lo nomina, a firma di papa Clemente XII, e la lettera del Segretario di Stato, Card. Firrao, unita al Breve, avevano fissato le modalità con cui tale accettazione doveva essere raccolta. Aveva scritto il Firrao: “arrivata … che sarà Vostra Eminenza alli Confini di San Marino, attenda Colà quelli, che volontariamente verranno ad implorare la di lei Protezzione, e quando si sarà accertata essere li Ricorrenti la massima, e più sana parte del Popolo di San Marino, faccia fare a medesimi in Iscritto atto autentico della loro Istanza di voler essere sudditi immediati del Sommo Pontefice, e della Sede Apostolica, e doppo di ciò passi pure ad accettarli per tali, in virtù delle facoltà comunicatele per Breve”. Le modalità sono importanti. Si precisa infatti nella lettera del Segretario di Stato, che si vuole assolutamente evitare di “dare a dividere al Mondo, che il Santo Padre non si sia mosso per desiderio di acquistare la suddetta Terra”.
E tali modalità sono state concordate con l’Alberoni, anzi suggerite dallo stesso Alberoni.
L’Alberoni, lasciati i suoi amati lavori pubblici di Ravenna, è arrivato a Rimini venerdì 16 ottobre. “ad un’ora di notte”. Giunto lì (o solo poco prima) è stato informato che, proseguendo verso San Marino, contrariamente a quanto da settimane i suoi accoliti gli andavano ripetendo, ai confini non avrebbe trovato nessuno: i sammarinesi non gli sarebbero andati incontro. Il cardinale ha dovuto prendere una decisione in quattro e quattr’otto: recedere dall’impresa o andare avanti con altre modalità. E decise di andare avanti, di fare lui il primo passo visto che i sammarinesi si mostravano così riluttanti. Nella prima mattinata di sabato 17 è entrato in Repubblica. Ricevuti gli atti di sottomissione di Serravalle e di Borgo, si è portato velocemente in San Marino-paese, dove, invece, ha trovato un clima decisamente ostile, appena mitigato da un gruppetto di parrocchiani di Fiorentino guidati da un prete. E’ arrivato poco dopo mezzogiorno. Ha speso poi tutto il pomeriggio nel tentativo di modificare l’atteggiamento della gente, facendo leva, senza risultati, sull’autorevolezza ed il prestigio della sua personalità e della sua carica, religiosa e politica al contempo.
Ormai, però, non gli era più possibile riprendere un andamento da “villeggiatura”: si era scoperto con quegli “atti” notarili fatti sottoscrivere (precipitosamente?) a Serravalle ed a Borgo. Verso sera gli riferiscono di raduni di milizie sammarinesi, poi di richieste di aiuto ai soldati del Granducato di Toscana, di stanza a due passi dal Titano, a Carpegna, e gli dicono di voci che mettono in dubbio addirittura la sua autorità di Legato di Romagna, propalando falsità circa la nomina di un nuovo Legato. Frastornato da questa ridda di notizie, stanco anche fisicamente per quel viaggio non certo da “villeggiatura”, il settantacinquenne Alberoni – impulsivamente? – decise di usare la forza. Durante la notte fece arrivare dal territorio della Legazione centinaia di soldati. Al che i sammarinesi cedettero. A partire dal pomeriggio del 18 vengono consegnate all’Alberoni le chiavi dei luoghi pubblici e cominceranno a sfilare davanti a lui giorno dopo giorno, uno dopo l’altro, i parroci delle restanti parrocchie, a firmare gli atti di sottomissione, accompagnati da rappresentanze di fedeli.
Insomma l’annessione della Repubblica di San Marino alla Santa Sede, per l’Alberoni, il giorno 22, è praticamente cosa fatta.
 
L’Alberoni, un protagonista della scena mondiale
L’Alberoni è stato, a suo tempo, un uomo importante e temuto. In parte lo è ancora, benché così avanti negli anni. Nato nel 1664 da una famiglia povera e numerosa, in una cittadina, Piacenza, in un microstato, quello dei Farnese (Ducato di Parma), era balzato d’improvviso all’attenzione del mondo col ‘piazzare’ una Farnese, Elisabetta, alla corte di Spagna, sposa di re Filippo V. Seguirono, nel 1717, quasi d’un sol colpo, la nomina a primo ministro di Spagna e quella a cardinale.
L’Alberoni è arrivato così in alto, tappa dopo tappa, attraverso una serie di ruoli subordinati che ha sfruttato abilmente trasformandoli in tante occasioni di crescita. Orfano a dodici anni, un benefattore gli offre l’opportunità di studiare. Diventa prete. Fa il segretario a un vescovo, il Roncovieri. Accompagna il Roncovieri come interprete quando questi è inviato dal Duca Francesco Farnese presso il comandante delle truppe francesi in Italia, il generale Vendôme. Passa al servizio del Vendôme. Accompagna il Vendôme come aiutante, quando questi è inviato con un esercito in Spagna in soccorso di Filippo V. Si ferma alla corte di Filippo V come rappresentante dei Farnese. Nel 1714 muore la regina di Spagna. Nella consueta gara che si scatena quando un re rimane vedovo, l’Alberoni, rappresentante dei Farnese, vince su tutti i concorrenti proponendo alla corte di Spagna un legame di parentela appunto coi Farnese, una famiglia regnante su un minuscolo, traballante ducato della frammentata penisola italiana. Ottiene, dopo quel successo, l’incarico di primo ministro. Riesce poi quasi subito a farsi nominare cardinale, promettendo, fra l’altro, al papa, a nome della Spagna, l’allestimento di una flotta per combattere i Turchi.
Quattro giorni dopo la nomina, quella flotta salperà, sì, ma per invadere Sardegna e Sicilia … a scapito di altri cristiani.
La spregiudicatezza del primo ministro isola la Spagna: le corti europee – quella papale compresa – fanno fronte comune e chiedono la testa dell’Alberoni. Il re, nel 1719, è costretto a disfarsene per uscire dall’isolamento, aggravato dall’ignobile sospetto di una segreta alleanza del cardinale con i Turchi. Per esautorarlo (tanto è diventato potente!) il re deve ricorrere ad una congiura che organizza con la complicità di molte corti europee e della stessa famiglia Farnese, la quale, messa alle strette, non esita ad abbandonare l’Alberoni per salvare la regina. L’Alberoni riuscì a stento ad abbandonare la Spagna e con un viaggio avventuroso a guadagnare il suolo italiano. Qui, per salvarsi, dovette restare nascosto per più di un anno in un rifugio segretissimo: la famiglia Farnese era decisissima a metterlo a tacere per sempre, ma anche l’Inghilterra, anche la Curia Romana che imbastì un processo contro di lui. Riabilitato in occasione di un conclave, rimase per oltre un decennio a Roma, intento soprattutto a curare le sue proprietà. Poi dal 1730 comincia a dedicare gran parte del suo interesse alla trasformazione, a Piacenza, di un antico e fatiscente ospedale, il San Lazzaro, in un grandissimo collegio. Questo collegio diventerà per l’Alberoni lo scopo della sua vita.
 
L’Alberoni, Legato di Romagna
Nel 1735 papa Clemente XII gli affidò la Legazione di Romagna. Qui si distinse per il modo di governare duro ed efficace: oltre a riformare l’amministrazione con particolare riguardo alla giustizia ed all’ordine pubblico, profuse il suo impegno in importanti opere pubbliche a Ravenna, quali la Chiusa, il grande Ponte di pietra, il Porto col Canale Naviglio. Al termine del suo mandato, nel 1738, egli era ancora impegnato in opere di sistemazione dei corsi d’acqua che periodicamente alluvionavano la città: costruzione di un alveo nuovo per il fiume Ronco nel quale poi avrebbe fatto confluire anche il Montone. E’ un lavoro importante: “In tempo di Pio IV [papa dal 1559 al 1565] fu cominciata questa diversione …, per la quale furono spesi da 20 mila scudi. Sopravenne la morte del Sommo Pontefice, e subbito cessò il lavoro, con la perdita della detta somma che non è picciola … Le vestigia dello scavo che fu fatto si vedono ancora al giorno d’oggi”.
L’Alberoni, desideroso di portare a termine quegli ultimi lavori, chiese a Roma un prolungamento del mandato benché fosse già stato nominato il successore, il Card. Marini. Il Marini si oppose. Si aprì, di conseguenza, fra i due cardinali, una accesa controversia con la presentazione da entrambe le parti di ricorsi e di contro ricorsi, scritti, da entrambe le parti, col veleno.
L’Alberoni, allo scadere del mandato, ha già “inalveato un fiume”, il Ronco. Chiede che non “abbia a venire Persona nuova ad inalveare l’altro” fiume, il Montone. Teme che questa “Persona nuova”, cioè il Marini, sia “un uomo inesperto ed incapace di condurla a fine”, quell’opera. In effetti, il vero motivo è un altro, e lo stesso Alberoni finisce per confessarlo: non voglio che qualcun altro “senz’alcun merito abbia a raccogliere il frutto delle mie fatiche e de’ miei sudori”. A lui basta un altro anno, cioè arrivare al dicembre del 1739: così, dice, posso “rendere ultimata questa grand’opera (per la quale sudai et arsi) per salvezza della mia estimazione e del mio onore al quale non posso mancare”.
 
L’Alberoni sul Titano, per un ricatto?
Nei primi tre anni di Legazione l’Alberoni non si era, praticamente, occupato di San Marino, almeno non in modo particolare. Anche se, certamente, non lo ignora: il suo Luogotenente Civile nella Legazione è un sammarinese, Gian Benedetto Belluzzi, “uno de’ Principali di San Marino”. Comincia ad interessarsene alla fine del 1738 a seguito di una segnalazione indirizzata a lui, in quanto Legato di Romagna, da parte della famiglia sammarinese dei Lolli: il tribunale di San Marino aveva arrestato e si accingeva a processare un loro congiunto, Pietro, benché questi e un suo fratello, in quanto titolari di una Patente della Casa di Loreto, godessero del privilegio di essere giudicati da un tribunale ecclesiastico. L’Alberoni chiese spiegazioni al governo di San Marino, il quale apertis verbis fece presente il proprio diritto di amministrare la giustizia in piena autonomia. Della questione aveva cominciato ad interessarsi, con una certa petulanza, anche Roma: il Segretario di Stato, il Card. Firrao, era anche Prefetto della Congregazione Lauretana. Il Firrao, dopo qualche tentativo di dialogo andato a vuoto, rinuncia a trattare di persona coi sammarinesi “li quali non sono per lo più capaci della raggione, e quelli, che per avventura lo sarebbero, vengono dominati dalla passione”. Passa la palla all’Alberoni: “Non potendo Nostro Signore tollerare il presente disordine, desidera che Vostra Eminenza, armandosi del proprio zelo, prevegga nella forma che stimerà più opportuna, onde gli accennati fratelli [Lolli] non abbiano ad essere danneggiati nelle loro prerogative e privilegi e resti assieme illesa l’autorità della Congregazione Lauretana, che deve per ogni conto interessarsi in sì giusta pendenza”.
L’Alberoni, che ha assolutamente bisogno del Firrao per ottenere il prolungamento dell’incarico nella Legazione, coglie la palla al balzo. Si mette subito all’opera. Ci mette tutto il suo impegno per accontentare il Segretario di Stato, per fargli quel favore. Non esita, per mostrare quanto gli sta a cuore la causa, ricorrere ad espressioni d’effetto contro San Marino “la sentina di tutti li contrabbandi” e contro i sammarinesi, uomini “tristi, li quali altra legge non riconoscono, che quella che essi formano a sé medesimi, nulla riflettendo alla loro origine e pensando di non aver superiore al mondo”. Dapprima si rivolge ai sammarinesi con le buone: servendosi del Belluzzi si offrì come mediatore fra la Repubblica ed il Firrao al fine di trovare un compromesso onorevole per entrambe le parti. Nulla da fare: i sammarinesi respingono la proposta. E più di una volta. Allora, d’accordo col Firrao o, forse, su ordine del Firrao, passò alle maniere forti. Fece arrestare, per rappresaglia, due sammarinesi, i Bonelli, padre e figlio, mentre si trovavano, per ragioni private, nel territorio della Legazione; poi cominciò a colpire i sammarinesi negli interessi, impedendo loro di ‘estrarre’ i prodotti agricoli dai loro possedimenti siti nel territorio della Legazione. Eppure dal Titano non venne alcun segno di cedimento. 
A Roma si comincia a ipotizzare l’annessione della Repubblica. L’Alberoni cercò di resistere alla proposta, sostenendo che non gli “pareva oggetto degno della Santa Sede … quel mucchio di sassi, con que’ quattro miserabili, che lo abitavano”! Ma l’éscamotage non riuscì. Di fronte alla insistenza del Firrao, non gli restò che assecondarlo. Anzi cominciò a precorrerlo dimostrando il suo zelo attraverso affermazioni esagerate e stucchevoli nei confronti di San Marino e dei sammarinesi, nonché nel suggerire il pretesto politico che servisse da copertura per l’effettuazione dell’operazione: la Santa Sede manda dei soldati sul Titano per anticipare una supposta occupazione del luogo da parte del Granducato di Toscana. La proposta ha un fondamento: la Toscana già ha invaso con le sue truppe – e tiene ancora occupate al momento – le contee di Carpegna e Scavolino, in spregio alle proteste del papa, forte della parentela fra la famiglia granducale e quella dell’imperatore. Il Firrao però scarta detto pretesto, proprio perché il contenzioso con la Toscana è ancora aperto a livello internazionale: potremmo “esser noi redarguiti dello stesso difetto”!
Entrambi i cardinali convengono invece sulla ‘dedizione spontanea’, un espediente ampiamente collaudato dalla storia, in presenza, come in questo caso, di divisioni interne. L’Alberoni assicura che la via è praticabile, che curerà lui stesso l’operazione e che anzi l’eseguirà di persona. Pone una sola condizione: che gli si consenta di prepararla in segreto, in modo da sfruttare al meglio, appunto, le divisioni emerse col caso Lolli. E lusinga il Firrao con l’affermazione: “Si potrà dire che la Patente Lauretana ha dato un bel pretesto a fare un gran colpo”! 
Una volta resosi disponibile ad effettuare il “colpo”, concordate le modalità, presosi l’impegno di eseguirlo “col maneggio, e con la destrezza” per non ledere il decoro della Santa Sede, l’Alberoni, prima di cominciare a muoversi, aspetta il compenso, la contropartita. Ma la contropartita tarda ad arrivare. Insomma da Roma nessun segnale concreto circa il prolungamento dell’incarico nella Legazione. Tanto che in giugno rallenta o addirittura blocca i lavori, essendo corsa voce che il Marini stesse per arrivare da un momento all’altro. Ma non succede nulla. Non arriva né il Marini né il prolungamento dell’incarico.
Allora l’Alberoni perde la pazienza. Dopo aver più volte ‘minacciato’ di correre giù a Roma di persona, davvero, in piena estate, sotto il solleone, all’improvviso, affronta il viaggio. Appena sanno della sua partenza, quei di Roma già cominciano ad ammorbidirsi. L’agognato prolungamento dell’incarico arriverà dopo quel viaggio e dopo che l’Alberoni avrà ripreso ad impegnarsi in merito al “colpo”. Arriverà il 9 settembre, attraverso una lettera – un capolavoro di ambiguità! – del Segretario di Stato, il Card. Firrao, mandata a nome del papa. Nel documento si parla, sì, di “Proroga dell’esercizio di Legato fino a tutto dicembre” a favore del Card. Alberoni, ma, al contempo, si precisa che è stato riconosciuto al Card. Marini il diritto “sin d’adesso” di “prender Possesso di codesta Legazione”. Forse la questione può riassumersi così: il Marini diventa da subito titolare di diritto, l’Alberoni rimane titolare di fatto fino a dicembre.
In pratica, si vuole a tutti i costi tenere l’Alberoni sulle spine, costringerlo ad andare avanti nella preparazione del “colpo”, senza dargli la possibilità di recedere con un pretesto. La preparazione va avanti. Il 26 settembre vengono firmati a Roma il Breve e la lettera ufficiale della Segreteria di Stato. L’Alberoni non è uno sprovveduto: non parte (come, forse, pretendeva il Firrao, con la scusa di meglio tutelare il segreto) se prima non ha le spalle coperte, se cioè non ha in mano dei documenti ufficiali che autorizzino l’operazione.
Il 30 settembre l’Alberoni accusa ricevuta dei documenti, ma … non parte lo stesso: “unita al consaputo Breve hò ricevuta lettera di Segreteria di Stato concernente l’affare. Con tutto però che sia fornito delle Facoltà necessarie, hò stimato bene di non presentarmi ai confini anzi di non muovermi di qui”. Rimanda. Promette di farlo più avanti, in seguito, usando “tutta la prudenza e destrezza possibile” perché, precisa, “per una Bicocca non doversi sacrificare il Decoro di Roma, del Sagro Collegio e Mio con uno scredito sonoro presso il Mondo, e presso le Corti estere”.
Ma poi coglie la prima occasione per dire che … non se ne fa più niente. Una settimana dopo, venuto a sapere di un peggioramento dello “stato [di salute] in cui trovasi Nostro Signore”, fa presente al Firrao che potrebbe essere difficile mantenere quel segreto attorno all’operazione, dato il trambusto che normalmente si verifica nella corte romana in tali circostanze. E se non si mantiene il segreto, come si sa, l’operazione non è possibile. Ed annuncia, nella stessa lettera, che egli lascerà, definitivamente, la Legazione “la metà del mese prossimo di novembre”. Insomma gli rimane ben poco tempo. Non potrà quindi effettuare l’operazione-San Marino. Spera invece “dentro questo tempo, quando la stagione continui ad essere buona, di poter incanalare nel nuovo Alveo il Montone”.
L’Alberoni non può andare per i monti: ha bisogno di finire quei lavori a Ravenna “prima dei tempi cattivi”. D’altra parte non può accelerarne l’esecuzione perché, in questa stagione, l’autunno, i romagnoli hanno anche da “fare le loro Vendemie e le loro Sementi”.
Il Firrao taglia corto: “Nostro Signore … [va a] migliorare…” ed a Roma non si aspetta che “l’esito del negozio”. Insomma: il papa sta bene e starà ancor meglio dopo la “esecuzione della impresa consaputa” (cioè l’annessione di San Marino) e “V. E. … finirà di sollevarlo col recargli la sospirata notizia di aver compita la grand’Opera in codesta Provincia” (cioè la ‘diversione’ dei due fiumi).
Come si vede la possibilità, per l’Alberoni, di finire i lavori a Ravenna passa attraverso San Marino. Parte, il cardinale, per il Titano, ma il suo cuore e la sua mente rimangono a Ravenna. 
Il 22 ottobre la “impresa” di San Marino ormai è portata a termine. O almeno così sembra all’Alberoni. Non gli resta, dice al Firrao, che “fermare in ogni miglior modo le cose più essenziali”. Immaginiamo che voglia intendere: chiudere con una cerimonia che dia un tocco di solennità e di mondanità all’avvenimento e mettere una lapide col suo nome (dopo quello del papa ovviamente!) a ricordo dell’impresa. Poi … giù a Ravenna. Confessa infatti al Firrao nella stessa lettera: bramo di tornare “tanto più che trattenermi più lungamente quassù in paese cotanto alpestre, di aria così rigida … con nebbia e pioggia, che mai non cessano, non può riuscirmi se non eccessivamente nocivo: oltre il grave riflesso di dovermi restituire ad assistere alli lavori de’ fiumi in Ravenna”. Lì, a Ravenna, ogni lavoro appena concluso è immortalato con una lapide. Sarà grandissima quella a ricordo della ‘diversione’ del Ronco e del Montone. Gli manca solo il Montone per completarla.
 
L’Alberoni riferisce a Roma
L’Alberoni è convinto che Roma, visto il risultato, non avrebbe dato gran peso al modo con cui era stato ottenuto, un modo non del tutto in linea con l’autorizzazione (il Breve) e le istruzioni (la lettera del Segretario di Stato). Comunque egli, prudenzialmente, aveva riferito a Roma passo passo l’andamento delle operazioni. E non aveva sottaciuto i cambiamenti di programma e di questi non aveva mancato di addurre le ragioni. Il tutto con lettere di suo pugno.
Per Roma è partita una lettera da Rimini il 16 ottobre.
Informato che i sammarinesi non si sarebbero presentati ai confini, ma che lo avrebbero atteso, diciamo così, a casa loro, “fatta … matura riflessione”, per non perdere “una favorevole occasione per la Santa Sede”, comunica di aver deciso di portarsi “in detto luogo” come per “sodisfare a quella curiosità che [in passato] han avuto altri Signori Cardinali Legati”, e di salire sul Titano assieme ad un “Maestro di Camera e due Servitori, comitiva appunto da Villeggiatura”. E preannuncia come si comporterà: giunto “in quel luogo; o que’ Popoli farebbero l’istanza promessa di darsi, e di dichiararsi Sudditi della Santa Sede, o no. Se arriva il primo caso io a nome della medesima li accettarò, e ne farò rogito; se poi non daranno segno di vita, ed io farò lo stesso, e veduto che avrò il luogo ne partirò … fingendo d’essere venuto a fare una villeggiatura”. 
Un’altra lettera è partita da San Marino sabato 17.
Racconta: “arrivato a Serravalle luogo della Repubblica è venuto il Paroco con più di trecento uomini ad incontrarmi oltre il numero delle Donne, e Viva il Papa, e il Cardinale Alberoni….Questo numeroso Popolo m’ha accompagnato al Borgo di S. Marino, ove ho ricevuto le medesime acclamazioni”. E precisa: in entrambi i luoghi “ho fatto fare il dovuto rogito da due notari che avevo meco”. Dice poi di essersi affrettato a salire in San Marino-paese per non dare tempo di preparare qualche “broglio”. Fa intendere che qui il clima è diverso che a Serravalle e Borgo, ma non ha “tempo a dire di più pressato a spedir’ordini”. E’ sicuro comunque di farcela ‘con le buone’: “Io potevo condurre meco soldati e sbiraglia, ma ho creduto fosse di maggiore onore, e decoro della S. Sede, e perché il mondo veda che questa dedizione è stata fatta puramente volontaria, il comparire qui inerme, e senza altra assistenza, che quella del coraggio, e della mia rappresentanza, che in simili casi basta per incutere timore, e rispetto anche ai più arditi”. 
Addirittura partono due lettere da San Marino domenica 18.
Nella prima informa che, durante la notte, ha fatto “venire subito da Verucchio luogo della Legazione … 200 uomini commandati dal loro Capitano Sergenti e Caporali”. Motivo? “Mantenere in fede i buoni, e contenere in dovere i mali intenzionati se vi fossero”. Egli si era allarmato nell’apprendere che il “Capitano della milizia [Manenti] … girando per la terra animava i più idioti a diffendere la libertà della Patria”. Inoltre riferisce che lo stesso Manenti andava dicendo che l’Alberoni agiva in base a “facoltà … d’antica data”, cioè decadute, “per il Possesso preso dal Nuovo Legato”. Con quell’ordine di far venire soldati dal territorio della Legazione, egli mette fine a queste voci che mirano, in modo subdolo, ma pericoloso a delegittimarlo. Nella seconda, spedita certamente nella tarda serata, riferisce di altri “duecento uomini” fatti venire da Rimini agli ordini del Capitano Bertoldi. E precisa (li aspettava con apprensione?) che sono arrivati “alle 16 ore” anziché “di buon hora” come egli aveva ordinato. Perché li ha chiamati? Gli erano giunte voci circa una richiesta di aiuto da parte dei sammarinesi spedita ai soldati toscani di stanza a “Carpegna”. 
Le lettere dell’Alberoni sono state indirizzate, per competenza, al Segretario di Stato, il Card. Firrao. Proprio col Firrao l’Alberoni ha progettato in “religioso segreto” l’operazione. E’ il Firrao che ha voluto questa operazione, che l’ha presentata al papa, che ne ha chiesto al papa ed ha ottenuto dal papa l’autorizzazione. E’ il Firrao che ha fatto sì che detta autorizzazione fosse espressa nel giusto modo e che nel giusto modo, cioè come voleva l’Alberoni, fossero compilate le istruzioni.
L’Alberoni è certo che ora, ad operazione praticamente conclusa, il Firrao troverà ancora una volta il ‘giusto modo’ per presentare le cose al papa, perché questi oltre ad avallare il tutto, si senta in dovere di gratificare l’Alberoni rinnovandogli – con buona pace del Marini – l’incarico nella Legazione.
Difficoltà all’Alberoni non possono derivare nemmeno dai suoi (abituali) detrattori, presenti anche nel Sacro Collegio. Egli non si illude che questi non arrivino a conoscere lo svolgimento vero dei fatti. Ignorando però gli esatti termini delle disposizioni curiali, essi non sono in grado di rilevarne le discrepanze. Il Breve e la lettera d’accompagno sono rimasti segretissimi. Nell’inviare i due documenti all’Alberoni, il Firrao aveva detto di sperare che il segreto venisse “osservato religiosamente da quei, a’ quali, per cagione di Ufficio, è stato necessario di confidare indispensabilmente l’Affare”. E così è stato.
Il ruolo di questo segreto e la necessità di mantenerlo ancora sono stati richiamati e ribaditi dall’Alberoni al Firrao, nuovamente da San Marino: è già un “miracolo” che si sia conservato fino ad ora!
 
Anche i sammarinesi riferiscono a Roma
In effetti, un “miracolo” su quel segreto c’è stato, ma dall’altra parte. “Dio ha fatto giungere nelle nostre mani una copia della lettera di Segreteria di Stato diretta a S. E.”, ha annunciato un Anonimo Sammarinese dal Titano, il giorno 20, ad un suo referente romano, “da cui si scorge esser molto limitate le sue incombenze”. In particolare si è scoperto “che S. E. non dovesse, ne potesse usar la forza, e molto meno possa violentare noi contro il nostro volere a giurare l’ubbidienza alla Santa Sede in temporalibus, siccome appunto la ‘più sana parte del Popolo’ è renitente di fare, e se per forza, e timore lo dovrà fare, lo farà con precedenti ampie proteste”. 
L’Anonimo dà la sua versione dei fatti. A Serravalle il parroco ha “chiamato il suo Popolo con finta, che veniva il Vescovo [di Rimini] in visita” e le grida di Evviva furono “sol proferite da due, o tre Mendichi, a quali ancora fu sparso del danaro”. E continua: “vedendosi sotto il Borgo venir su Calessi, e Cavalli, fu sempre creduto esser il Vescovo di Rimino….e sabato a notte giunsero soldati da tutti i luoghi vicini, e di Rimini ….. circondarono tutto il Paese, e la Rocca, e convenne per forza far la scena della presentazione delle Chiavi. L’Agitazione d’ogn’uno figuratevela voi”.
Il pensiero va al Santo: “Non crediamo che S. Marino ci abbia affatto abbandonati”. Confortati dal segno tangibile di quella protezione, i sammarinesi ricominciano a lottare. L’abbattimento dei giorni precedenti (“più non si pensava alla nostra cara libertà già creduta spenta”!) cede il posto all’impegno nell’elaborazione di una strategia. Eccola: “ricorrere a Roma, le di cui intenzioni sono state malamente, e con tanta violenza eseguite” e, al contempo, far “costare al mondo, quanto sia diverso il fatto da quello [che] è stato rappresentato, e qual principio abbia avuto”.
 
Una corsa decisa sul filo di lana
L’Alberoni adopera la ‘posta ordinaria’ per le sue lettere: tutte e quattro pur spedite in giorni diversi, dal 16 al 18, pur spedite da località diverse, Rimini e San Marino, giungono a Roma tutte in una volta, assieme, il 22 ottobre.
I sammarinesi affidano ad una staffetta la lettera dell’Anonimo, che, pur spedita soltanto il 20, giunge anch’essa a Roma il 22 o comunque nella notte tra il 22 ed il 23. 
Le lettere dell’Alberoni arrivano sul tavolo del Segretario di Stato, Card. Firrao, che le avrà vagliate dapprima da solo e poi, prudentemente, come è suo costume, assieme al Card. Corsini, il nipote del papa che si occupa (o dovrebbe occuparsi) delle questioni politiche. Dopo di che avrà fissato l’appuntamento col papa.
La lettera dei sammarinesi arriva a Mons. Maggio, come dire direttamente al papa, o quasi. 
Il papa, quindi, apprende lo svolgimento dei fatti dai sammarinesi. E lo apprende nella versione dei sammarinesi, i quali, nello stenderla, sapevano su quali punti battere per mettere in difficoltà l’Alberoni di fronte al papa: l’Alberoni non si è fermato ai confini, l’Alberoni ha utilizzato i soldati.
L’Alberoni aveva assicurato che avrebbe condotto l’impresa “col maneggio, e con la destrezza” perché, aveva detto, “far conquiste per armi … sarebbe un pensare da pazzo”. Invece ha agito proprio da “pazzo”, deve aver pensato il papa, venendo a sapere dell’impiego di quei soldati. Il papa non ha autorizzato l’uso di soldati. Non ne è stato informato preventivamente e nemmeno si è avuto riguardo di informarlo subito. Addirittura viene a saperlo da altri. Insomma quasi un raggiro nei suoi confronti.
Il nostro Autore dice che il papa “non sempre compos sui per il suo stato di salute… cominciò a ripetere come abituale ritornello a quanti gli parlavano di S. Marino ‘Protezione sì, dominio no”. Quando il Segretario di Stato si presenta al papa per riferire su San Marino, davvero, forse, viene accolto con quel “ritornello”. Comunque è certo che la versione dell’Alberoni e le giustificazioni da questi addotte, non sono accettate. Il nostro Autore si lascia scappare una insinuazione: “Il Segretario di Stato, Card. Firrao, e il Cardinale Nipote Corsini, invece di aiutare il Pontefice a correggere il suo ritornello arginando così la cosa, lasciarono credere che l’Alberoni avesse ecceduto nelle sue mansioni”. 
I sammarinesi dopo quel primo fondamentale successo, prima che il ferro si raffreddi, nelle giornate successive lo battono e ribattono senza tregua per piegarlo definitivamente secondo il loro intendimento. “Col mio operare a Palazzo ottenni che sino da sabato a sera [24 ottobre] si scrivesse al Card. Alberoni, disapprovando tal sua condotta coll’ordine di partire: non essendo mai stata intenzione del Papa una simile procedura contro quei Popoli”, scrive Mons. Maggio. E continua: “Il medesimo Santo Pontefice, ai piedi del quale son stato … con cuore pieno di clemenze e di paterno affetto verso li medesimi, mi si è espresso in queste precise parole: ‘Protezione quanta ne vogliono e libertà’…”.
 
Nuovi ordini all’Alberoni
Effettivamente sabato 24 Ottobre il Card. Firrao ha dovuto prendere carta e calamaio e scrivere al Card. Alberoni. Gli scrive come Segretario di Stato e come amico.
Nella lettera ufficiale si legge: “Sua Santità nell’aver’inteso, che V. E. non aveva attesi dentro li Confini di codesta Legazione gl’Abitanti di quella Terra… ma primacchè fossero essi comparsi, avesse presa la Risoluzione di portarsi con pochissimi suoi Famigliari personalmente in S. Marino… ha cominciato … à dubitare, che l’atto fatto… possa venire interpretato per forzato e non volontario”. Al fine di eliminare ogni dubbio sulla spontaneità della dedizione, si invita l’Alberoni a convocare “nelle forme solite un Conseglio” e che sia questo organismo a prendere, liberamente, la decisione risolutiva.
Nella lettera confidenziale il Firrao suggerisce all’Alberoni di convocare detto “Consiglio” solo nel caso che si sia certi che non vi prevalga una “Risoluzione contraria alle offerte fatte à V. E. et giuramento di Vassallaggio prestato alla Santa Sede”. Meglio, altrimenti, chiudere da subito la questione ed “in nome di Sua Beatitudine dichiarare à quel Popolo, che Sua Santità non ostante la subordinazione giurata, non intende di ritenere per se detta Terra”.
Insomma, dice il Firrao, visto come si sono messe le cose di San Marino, “prese le precauzioni necessarie” conviene, Signor Cardinale Alberoni, che “lo riponga nella primiera libertà”! Politicamente, continua il Firrao, la soluzione è accettabile perché si fa “vedere manifestamente al Mondo, che il Papa non hà avuto altro fine, che di provvedere come Protettore al bene di quella Terra” e di “assicurare quei poveri Abitanti dalle oppressioni et angarie”. E conclude: “V. E. che è su la faccia del luogo conoscerà meglio se quanto si propone sia pratticabile”. 
Insomma, bisogna chiudere il caso ed al più presto. Così il papa ha deciso e così vuole. Visto come si son messe le cose, non c’è altro da fare.
 
Roma vuole evitare ‘clamori’
Nella lettera dell’Anonimo, probabilmente letta dallo stesso Mons. Maggio al papa, si parla di “ampie proteste” per far “costare al mondo” che cosa è avvenuto sul Titano. I sammarinesi non avrebbero potuto toccare tasto migliore. Il papa si era raccomandato, nel Breve, di procedere “sine strepitu” e “cum singulari prudentia”. Cioè aveva dato il suo consenso all’operazione a condizione che questa fosse condotta ‘senza clamori’. San Marino è un paese piccolo, il che già crea simpatia. Inoltre è una Repubblica, una singolarità, questa, che lo pone all’attenzione ed alla curiosità di tutto il mondo politico, ancora dominato dagli assolutismi, ma già percorso da fremiti di cambiamento. Un qualsiasi passo falso nell’operazione, un rumore di troppo, avrebbe innescato un bailamme fastidiosissimo, sul consueto scenario: da una parte un agnello, dall’altra un lupo camuffato da pecora.
L’Alberoni ed il Firrao si erano impegnati vicendevolmente a preparare tutta l’operazione in “religioso segreto”. Ora il papa scopre che i due cardinali non hanno saputo mantenere la riservatezza nemmeno su quel paio di documenti che si sono palleggiati fra loro. La lettera della Segreteria di Stato, che accompagnava il Breve, è finita addirittura in mano dei sammarinesi, per proteggerlo dai quali erano stati eretti i muri del “religioso segreto”. Ora i sammarinesi, avendola in mano – è nel loro interesse – la metteranno quanto prima in circolazione. All’Alberoni verranno difficoltà dal Sacro Collegio: i Cardinali esclusi dall’operazione (cioè quasi tutti) faranno a gara per rinfacciargli che egli non si è attenuto alle disposizioni ricevute. Ma poi insorgeranno difficoltà anche per il papa che ha firmato il Breve di autorizzazione. L’attenzione ben presto si sposterà sul Breve: si vorranno conoscere i termini esatti in cui è stata espressa l’autorizzazione.
Il papa, allora, gioca d’anticipo: ordina al Segretario di Stato di rendere pubblico il Breve. Lo stesso sabato 24 ottobre il Card. Firrao trasmette ai “Nunzi Pontificii alle Corti Straniere” copia del Breve inviato a suo tempo “al Signor Cardinale Alberoni” come “Istruzione del modo con cui doveva regolarsi”. Così che tutti possano verificare che il papa aveva dato al “Signor Cardinale Alberoni le facoltà necessarie di accettare per immediata Suddita della S. Sede quella Terra colle sue dipendenze qual’ora gli Abitanti della medesima spontaneamente volessero sottomettersi”. Ed ora, dato che, nonostante i rassicuranti rapporti ufficiali inviati dal Card. Alberoni, è nato “qualche dubbio che quei Comunisti possino avere in questo fatto operato non con tutta la libertà”, il papa “ha determinato d’informarsi esattamente della vera libera volontà di quei Comunisti, e di regolare gl’ulteriori suoi passi coerentemente a quello che conoscerà essere di maggior profitto spirituale e temporale di quegl’Abitanti e di lor pieno consenso”. 
Insomma, si intravede uno spiraglio. Se lo sono creato i sammarinesi stessi, quello spiraglio, e già dopo pochi giorni dalla “sorpresa”. Sono usi da secoli, nei momenti di pericolo, “ricorrer .. alla Intercessione del … Gran Protettore” cioè del loro Santo, ma anche a darsi da fare loro, ciascuno per quel che può, per “assicurar la Repubblica nel modo migliore, che sia possibile”, come scriveva il Belluzzi quando la tempesta era ancora all’orizzonte. Sono fermamente decisi ad opporsi “al capriccio di chi, deviando dal sentiero del giusto e dell’onesto, cerca di opprimere la libertà di chi non ha forze proprie per sostenerla”.
I tre sammarinesi indicati dall’Autore, Maggio, Leonardelli e Zampini, sono certamente fra quelli che più hanno concorso a rimettere in gioco la partita, a cominciare proprio da Mons. Maggio, il più inviso all’Autore.
 
Monsignore Melchiorre Maggio
Mons. Maggio, Chierico di Camera, è, per ragioni professionali, vicino al papa, anzi alla persona del papa. La vicinanza porta alla confidenza e – perché no? – allo “scherzo”. Certamente “per scherzo” il papa l’aveva già messo in qualche modo in guardia fin da luglio, chiedendogli ex abrupto: “che direte ora che la vostra Repubblica sarà totalmente a noi soggetta?”
Strano che il Firrao e l’Alberoni abbiano sottovalutato Mons. Maggio.
Mons. Maggio aveva ottenuto dal papa il privilegio di non sottostare al divieto che, per ordine dell’Alberoni e del Firrao, aveva colpito tutti i sammarinesi, di prelevare e portare sul Titano i prodotti agricoli dei loro possedimenti in Romagna. L’aveva comunicato proprio il Firrao all’Alberoni: “Monsignore Maggio Chierico di Camera ha supplicato Sua Beatitudine per la permissione di poter asportare a S. Marino le Grascie a lui appartenenti che ha in codesta Provincia… Nostro Signore mi ha comandato di scriverle tutto ciò come eseguisco”. L’Alberoni, che aveva cercato di resistere, fingendo di non capire, aveva risposto: “Monsignore Maggi è fiorentino; quando gli venghi concesso di trasportare le sue grassie, che ha in questa Legazione nel suo Paese, ove si vendono assai bene, pare sia tutto quello che possa desiderare: parendo che nella presente congiontura non convenga portarLe nell’altro luogo”. Ma Firrao, sempre rispettoso della volontà del papa, aveva tolto al collega ogni possibilità di scampo: “Monsignore Maggio quantunque sii nato a Fiorenza, è ad ogni modo originario di S. Marino, laonde non deve V. E. maravigliarsi se abbia li suoi beni colà”.
Questo scambio di lettere è avvenuto a cavallo fra agosto e settembre dello stesso 1739. Evidentemente poi i due cardinali si sono scordati di Mons. Maggio: al servizio della persona del papa, fiorentino come il papa e … sammarinese. 
Il Firrao però dopo l’umiliazione subita per aver il papa, sullo svolgimento dei fatti di San Marino, dato più credito a Mons. Maggio che a lui, Segretario di Stato, da quel giorno non lo perde di vista, e, appena quegli riprende a ‘muoversi’, lo blocca facendogli balenare la galera: “a Mons. Maggio fu minacciato Castello dal Segretario di Stato”, scriverà l’Abate Zampini qualche giorno dopo. Cosa è successo di nuovo? “Il Santo vecchio del Papa ha di nuovo apertamente disapprovato tutto il fatto del Legato”. Ed il Firrao un’altra volta ha dovuto chinare il capo e mettersi a scrivere nuovamente all’Alberoni in termini ancor più umilianti della volta precedente: “di tutto quel che và accadendo in S. Marino, è pervenuta à Nostro Signore Relazione molto diversa della più vera, che ne abbiamo da lei ricevuta, e quantunque la S. S. si persuada, che quella sia stesa con passione, e perciò sia alterata, mi ha comandato ad ogni modo di rimetterla a V. E. per sua notizia”. Insomma il Firrao manda all’Alberoni, perché ne prenda nota, la lettera dell’Anonimo, consegnata al papa da Mons. Maggio. E per ordine del papa stesso. Come dire: Signor Cardinale Alberoni, questa è la verità vera, la riconosca anche Lei.
A ben pensarci, anche se il nostro Autore non concorda, a me sembra che la scelta di dedicare a Mons. Maggio una lapide nel Palazzo Pubblico sia stata ponderata e giusta. Nel Palazzo Pubblico c’è pure il busto di Clemente XII, voluto lì dall’Alberoni. Sia pure per volontà di parti contrapposte i due personaggi si ritrovano vicini, sul Titano, ed ancora lo sono.
 
Il Canonico Giambattista Benedetti-Leonardelli
L’Abate Zampini per aver mostrato, in una occasione, una certa condiscendenza verso il Firrao o comunque per non essersi opposto con sufficiente determinazione ad una richiesta (estradizione del Lolli, in carcere a San Marino) ritenuta lesiva per San Marino, rischiò di essere esautorato dal suo incarico. Poi, sul Titano, si ripiegò su un’altra soluzione: affiancargli, a Roma, nel suo lavoro di Agente della Repubblica, il Canonico Leonardelli in qualità di Inviato.
Il Canonico risponde così, in una udienza, al Segretario di Stato, Card. Firrao, che protestava perché la Repubblica non aveva rilasciato il Lolli: “se Nostro Signore non havesse volsuto più quel Luogo libero, poteva distruggerlo, perché doveva trattare con gente che non ha forze per contrastare, ma che per altro sarebbe stata gloria di San Marino di poter dire di haver perduta la libertà per voler fare giustizia”. Che il Canonico sia un tipo molto determinato lo si vede, come già ha messo in rilievo l’Autore, proprio da una proposta dello stesso Canonico che l’Autore cita più volte nei suoi Studi e che avrebbe portato ad una rapida soluzione del caso Lolli. Il Canonico dice che la proposta non è frutto del suo sacco, ma non fa molto per dimostrare che non la condivide. In effetti è … sbrigativa: “si cerchi … con acquetta, sacchettate, o altro modo, di far morire il Loli… e così finire questo contrasto; che quando sia morto, vadino a conoscere, con del tempo, da che sia provenuto, se da innedia, o da sacchettate”.
Dalla stessa lettera, indirizzata al Belluzzi ne apprendiamo un’altra: il Canonico parla di un “manifesto” che farà “stampare nella stamparia secreta d’Arac, col nome d’Olanda”. Ne parla come se la pubblicazione di libelli anonimi nella guerriglia politico-diplomatica con Roma, non fosse un fatto eccezionale. In effetti è così. Durante e dopo l’episodio alberoniano ne spunteranno dai posti più disparati ed in numero incredibilmente alto.
In materia di stampe anonime, secondo l’Autore, chi supera tutti è l’Abate Zampini: uno specialista. In effetti lo Zampini vi ricorre, come lui stesso riferisce in una lettera (anche questa indirizzata al Belluzzi): “Le accludo una stampa ad uso di Manifesto, che ho fatto stampare alla Macchia…Non dicesse mai d’averlo avuto da Roma; ma dica da Rimini piuttosto. Dovrà fare il suo effetto anco fuori; mentre lo mando in diversi Paesi e Corti. Appena letta la presente l’Abbruggj per carità”. Dalla stessa (che evidentemente il Belluzzi non bruciò) apprendiamo che Mons. Maggio, nonostante la minaccia del Firrao, “fa … la parte sua”, mentre Leonardelli crea qualche problema: “vuol far l’Uomo di testa, ed è un sollenne Coglione”. Cosa ha combinato? E’ andato a cercare “protezione” per San Marino presso i rappresentanti di altri Stati. Evidentemente, secondo lo Zampini, non conoscendo l’ambiente, sottovaluta quei della S. Sede (“Si pensa che i Preti sieno coglioni, e non lo sono”). Addirittura, lo sprovveduto, ha lasciato in mano di quei diplomatici, carte scritte di suo pugno: non sa che “i Ministri medesimi delle Corone talora son quelli che svelano i segreti”. Zampini è venuto a saperlo subito e proprio da uno di quei “Ministri”, che si era impegnato col Leonardelli, alla massima riservatezza: “Questa mattina appunto Monsignor d’Harrach, Ministro dell’Imperatore, mi ha mostrato un Memoriale…, scritto di carattere del Canonico … in cui si domandava la Protezione dell’Imperatore medesimo” per le antiche “pretese ragioni…. sopra il Monte Feltro”. Aggiunge, secco: “l’ho pregato a stracciarlo”!
 
L’Abate Marino Zampini
L’Abate Marino Zampini è arrabbiato con Leonardelli e con tutti quelli che a San Marino sostengono l’opportunità di cercare la protezione di qualche potenza, Francia, Spagna o impero. Chiedendo la protezione di una qualche potenza si fornirebbe alla Santa Sede la giustificazione dell’occupazione alberoniana: l’Alberoni ha evitato l’ingerenza di un altro Stato, agendo d’anticipo. Sarebbe una giustificazione credibile, accettabile a livello internazionale, e che il papa potrebbe far propria e difendere. Insomma si finirebbe per togliere ogni possibilità di successo alla strategia impostata con la lettera dell’Anonimo, portata avanti da Mons. Maggio e dallo stesso Zampini: far sconfessare l’operato dell’Alberoni dal papa stesso ed indurre il papa stesso a ristabilire a San Marino la situazione precedente. Questa sì, secondo lo Zampini, è la strategia vincente: “con questo metodo io camino”. A breve i frutti: “la Republica sarà Republica….; tutto sarà rimesso in pristinum, e dato di bianco a quel che s’è fatto fin qui dal Legato”. Insomma, secondo lo Zampini, “non ci vogliono Protezioni di Principi, ma solo della Santa Sede. Con questa siamo vivuti sempre, e con questa si tirerà avanti”.
Proverà a rimediare, lo Zampini, al disastro combinato dal Leonardelli, pur protestando: “gli altri fanno il male, ed a me tocca raddrizzare le gambe ai cani. Sia per l’amore di San Marino”! Certo non sarà facile “far vedere e capacitare questa Corte che mai da noi s’è pensato di cercar alcun’altro appoggio”. Ma ci riuscirà: “io lo conosco questo Paese un po’ più di qualcun altro di San Marino”. E si sbilancia in un sogno: “si spedirà un Comissario aposta da Sua Santità a S. Marino per cassare ed anullare tutto quello che s’è fatto … dal Legato. Di più sarà cura mia, che la scelta del Commissario cada in persona degna, di petto, ed affezionata alla Republica. Facilmente sarà Monsignor Lantes od un altro egualmente amico nostro. Vittoria, vittoria, viva S. Marino e la libertà”.
Queste – esagerate – attestazioni di fedeltà alla patria, hanno lo scopo di rassicurare il Belluzzi che lui, Zampini, nonostante il torto fattogli di affiancargli come Inviato il Canonico, rimane fedele alla causa. E rimane fedele nonostante che a San Marino il Card. Alberoni gli abbia scarcerato il fratello, in galera, forse, per reati comuni. Insomma, lui è capace di anteporre gli interessi della patria a quelli familiari e lo dice in termini che a noi, lontani da quel tempo e da quelle circostanze, appaiono eccessivi: “se vedessi appiccati, e strozzati tutti i miei per questo capo, non ostante non mancarei d’aiutar la Patria in questo necessario frangente; e crederei di esser Traditore della Patria, se no’l facessi”.
L’Abate Zampini (al di là degli eccessi verbali) descrive una strategia politica ben precisa, che è poi la stessa già abbozzata nella lettera dell’Anonimo una decina di giorni prima: indurre la Santa Sede a sconfessare l’operato dell’Alberoni, pungolandola, se necessario, con una campagna di informazione che tenga vivo il caso, di modo che la stessa Santa Sede avverta la convenienza di por fine al più presto alla occupazione.
   

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