PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Seconda puntata (Il grande duello)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO.   Seconda puntata (Il grande duello)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO
NO

 

Seconda
puntata

(Il grande duello)

 (Annuario della Scuola
Secondaria Superiore, n. XXIII, Anno scolastico 1995-96)  

 

 

Gian Benedetto Belluzzi

Abbiamo già conosciuto, su
indicazione del nostro Autore, tre sammarinesi ecclesiastici, pronti a porsi al
servizio della loro patria in ogni evenienza fino – se necessario – ad anteporre
gli impegni ed i doveri verso di essa a quelli del proprio ufficio e,
addirittura, del proprio status di religiosi. In effetti il loro
comportamento non è da considerarsi eccezionale. Nemmeno quello di Mons. Maggio,
che ha tanto scandalizzato il nostro Autore. Comportamenti analoghi si
riscontrano anche fra i sammarinesi laici in servizio presso l’amministrazione
dello Stato Pontificio. E’ significativo e, per certi versi, più eclatante di
quelli citati dall’Autore, il caso di Gian Benedetto Belluzzi.

Il Belluzzi è un tipico
rappresentante di quei ‘funzionari itineranti del diritto’ che caratterizzano
per secoli lo scenario politico del microcosmo sammarinese. Uomini che
peregrinano da un ufficio all’altro, dentro e fuori dallo Stato Pontificio, ed
al contempo svolgono – magari saltuariamente – un qualche ruolo di
responsabilità nel loro paese.

Ancor prima che esplodesse la
vicenda alberoniana, il Belluzzi era uno dei massimi protagonisti della politica
sammarinese. E già da diversi anni si trovava proprio al servizio dell’Alberoni,
come suo “Luogotenente Civile” nella Legazione di Romagna. L’Alberoni, appena
gli prospettano da Roma la ‘questione San Marino’, si vanta col Firrao di avere
pronta in casa la pedina giusta: il Belluzzi appunto. E lo spedisce subito in
missione sul Titano per farsi assegnare il ruolo di mediatore fra il Titano e
Roma. Ma i sammarinesi respingono la proposta, benché presentata da un
concittadino così autorevole. Non solo. A detta dell’Alberoni, essi – fratello
Ludovico compreso – cominciano a rimproverare a Gian Benedetto di essere “poco
amante della di lui Patria, vile, e codardo”, per non essere ancora riuscito,
lui con la sua posizione e con la sua professionalità, ad attirare l’Alberoni
dalla parte di San Marino nello scontro con Roma.

Il Belluzzi sa che è Roma ed in
particolare il Firrao a spingere l’Alberoni contro San Marino. Cerca di
spiegarlo ai suoi concittadini. Ma invano. Invano, ad esempio, scrive ai suoi
concittadini che la “rapresaglia” che colpì i Bonelli “di Roma stessa fu
ordinata” e che l’Alberoni non poteva non eseguirla. E che anzi, appena poté,
egli lasciò liberi i due sammarinesi e li favorì per quanto possibile: “S. E.
fece chiuder l’occhio circa la sigurtà … S.E. (si dica e si esclami quanto si
vuole) non ha mai straniato né la Repubblica, né i Rappresagliati, anzi a questi
ha mostrato gli effetti dell’animo suo generoso, e benefico”!

Gian Benedetto Belluzzi, pur
ragionando in questi termini coi suoi concittadini, rimane tuttavia
prudentemente guardingo verso l’Alberoni. Lavorando con lui gomito a gomito per
anni, ha avuto modo di conoscerne i metodi di governo ed i risvolti della
personalità. L’Alberoni invece sembra riporre sempre piena fiducia nel Belluzzi:
in una lettera del 28 marzo 1739 scrive al Firrao che il Belluzzi, “uno de’
Principali di San Marino”, a proposito dei governanti del suo paese va dicendo:
“Iddio non può più tollerare il governo iniquo e tiranno di quella combricola”.
E’ una affermazione che lascia perplessi: appena tre giorni dopo – e l’Alberoni
lo sa – il Belluzzi sarà a San Marino per assumere, in coppia con Biagio Antonio
Martelli, la carica di Capitano, cioè di capo di quella “combricola”. Quello fra
l’Alberoni ed il Belluzzi è un rapporto che si mantiene, giorno dopo giorno,
pericolosamente in equilibrio sulla lama di un rasoio. Dice in una lettera
l’Alberoni al Firrao: “Sotto il primo del passato Aprile [Lei] si degnò
scrivermi, che i Sammarinesi (forse per ispaventar Roma) avevano fatto correre
una ciarla, che volevano darsi al Gran Duca. Io risposi, che tal nuova, l’avevo
detta al Belluzzi che allora era primo Capitano di S. Marino e nell’istesso
tempo mio Luogotenente Civile, e che se ne mostrò confuso, e sorpreso, senza
però dirmi né sì, né no”.

Tuttavia l’Alberoni fino
all’ultimo è convinto che il Belluzzi possa (e voglia) essergli di aiuto. Quando
il Belluzzi va da lui ad accomiatarsi per finita Luogotenenza, egli coglie
l’occasione per affidargli un nuovo pacchetto di proposte da portare sul Titano.
Il Belluzzi, rientrato a San Marino, puntualmente riferisce al Consiglio ed
illustra lui stesso – da Capitano – le proposte dell’Alberoni. Ebbene, il
Consiglio, dopo lunga discussione, “fu d’unanime [si noti unanime]
sentimento risoluto … di non acettare”, perché i “proietti che da Sua Eminenza
erano stati suggeriti … furono creduti svantaggiosissimi”.

Insomma anche il Belluzzi antepone
i doveri del buon cittadino a quelli del proprio ufficio, benché questo ufficio
sia a fianco, anzi alle dipendenze di cotanto personaggio. E farà di tutto per
“assicurare la Repubblica nel modo migliore, che sia possibile”. E non avrà
remore ad affermare, quando si inizierà a giocare a carte scoperte, che occorre
difendersi con ogni mezzo dal “capriccio di chi, deviando dal sentiero del
giusto e dell’onesto, cerca di opprimere la libertà di chi non ha forze proprie
per sostenerla”.

Lasciato l’incarico di
Luogotenente Civile a Ravenna, nel maggio del 1739 il Belluzzi si trasferisce a
Bologna, dove è stato nominato giudice presso la rota (tribunale) di quella
città. Raramente è a San Marino, benché Capitano. Guida la politica sammarinese
da Bologna. All’occorrenza partono da Bologna raccomandazioni del tipo: “Che il
Signor Canonico [Leonardelli] ed il Signor Abate Zampini … stiano vigilanti e
in parata per qualche sottomano che potessero ordire”. Il Canonico e l’Abate
indirizzano direttamente a lui, da Roma, missive anche dal contenuto
‘pericoloso’, dimostrando così di avere in lui, entrambi – pur cane e gatto fra
loro – piena fiducia. E piena fiducia ha in lui pure il suo collega Capitano,
Martelli, costretto spesso a prendere le decisioni da solo in condizioni via via
più difficili. Il Martelli gli scrive in continuazione, attestandogli la sua
buona volontà, la sua fedeltà alla causa della Repubblica. Eppure, dai suoi
concittadini, è “tacciato di voler fare le cose senza dipendere” dal collega.
Per difendersi da quell’accusa, supplichevole, chiede aiuto allo stesso
Belluzzi: “V. S. Ill.ma … può farmi giustizia del continuo carteggio avuto con
Lei in ossequio della stima dovutale, e in adempimento del debito che me ne
corre”. Conscio delle difficoltà in cui si sta cacciando il paese, vorrebbe il
Belluzzi più presente a San Marino e non tralascia occasione per rinnovare “le
suppliche pel suo ritorno, per il maggior vantaggio di questo Governo”. Senza
successo. Belluzzi rimarrà a Bologna anche durante “le vacanze” estive. Starà a
Bologna anche nel cruciale mese di ottobre. Di lì, pur non essendo più Capitano,
continuerà a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende sammarinesi.
Costituisce, per così dire, il terzo polo della resistenza sammarinese, dopo
quello di Roma e del Titano. A lui, infatti, fanno capo da Roma l’Agente
Zampini, l’Inviato Leonardelli e Mons. Maggio, ma anche quelli che si trovano in
prima linea sul Titano, ad esempio Girolamo Gozi, e, soprattutto, la sorella,
suor Lucrezia, ed il fratello Ludovico.

 

 

Viva la libertà

Il ruolo svolto da suor Lucrezia
nella lotta contro l’Alberoni, dall’interno del Monastero di Santa Chiara, è
meno conosciuto di quello di Ludovico, il braccio operativo più noto della
resistenza sammarinese. Ludovico Belluzzi non ha avuto bisogno, per fare la sua
scelta di campo, che giungesse a San Marino copia della lettera della Segreteria
di Stato annessa al Breve. Già domenica 18 ottobre era corso giù a Serravalle a
rimproverare quegli “80 uomini” che il giorno prima avevano applaudito
l’Alberoni.

L’Alberoni, per toglierlo di
mezzo, in vista della cerimonia del solenne giuramento prevista per domenica 25,
constatata l’inefficacia di altri mezzi, venerdì 23 mandò ad arrestarlo.
Ludovico non si intimorì di fronte agli sbirri: “nel mentre … veniva condotto
alle Carceri gridò ‘Viva la libertà, Viva S. Marino’. Il Bargello gli gettò
adosso parte del suo ferraiolo e gli pose un fazzoletto alla bocca”. E’ lo
stesso Alberoni a riferire l’episodio al Firrao in una lettera scritta il 24,
all’interno di un contesto argomentativo sul modo più economico e funzionale per
mantenere il controllo del luogo, adesso che è stato acquisito alla Santa Sede.
Non lega l’episodio alla cerimonia di domenica. E non fa il nome del temerario,
non dice che è il fratello di colui che egli ha avuto a Ravenna per anni come
suo Luogotenente Civile e che ora è giudice a Bologna.

 

L’episodio di Ludovico Belluzzi fa
molto scalpore, anche oltre il territorio sammarinese. L’Alberoni non può non
parlarne al Firrao, che prima o poi ne sarebbe comunque venuto a conoscenza.
Meglio anticipare.

Giovanni Bianchi, un intellettuale
riminese dell’entourage alberoniano, racconta così il fatto al Muratori:
“Venerdì …. Lodovico Bellucci, andava pubblicamente … per la Terra gridando:
Viva San Marino, Viva la Libertà …, anche nelle mani de’ Sergenti della
Giustizia, seguitava a gridare viva la Libertà, e così va gridando nelle
Carceri Medesime”. Quasi continui ancora a gridare e il Bianchi lo senta perfino
da Rimini. In effetti durò a lungo quel grido ed arrivò lontano. Non solo per
merito dei sammarinesi, ma anche dei tanti ‘Bianchi’ che l’hanno rilanciato per
l’Italia e per il mondo. Verso la metà del Settecento, sparsi qua e là, c’erano
già tanti ‘Muratori’ ansiosi di ricevere il “ragguaglio di codesto avvenimento”
che si andava consumando sul Titano. Personaggi singolari che assillano il
Bianchi con pressanti richieste di notizie e che al contempo sembrano mettere in
dubbio quanto il Bianchi va loro scrivendo, come si rileva dalla insistenza con
cui essi gli pongono e ripropongono la domanda: veramente “quella povera Rep.ca
ha spirato l’ultimo fiato”?

I ‘Muratori’ sanno che “Popolo
avvezzo a Repubblica se non dopo lungo si quieta, e si accomoda al
giogo”.

L’Alberoni, che evidentemente ha
avuto una formazione diversa da quella del Muratori, non riesce a capacitarsi
dei continui sussulti che si trova a fronteggiare e che lo costringono a “star
all’erta” in permanenza. Non sapendo o non volendo interpretarli secondo i
canoni del Muratori, elude il problema rifugiandosi, irrazionalmente,
nell’invettiva: quello sammarinese è “un Popolaccio, che si volta ad ogni
vento”, sentenzia nella lettera al Firrao del 24 ottobre.

 

L’Alberoni, pur scrivendo al
Firrao alla vigilia della solenne e pubblica dedizione della comunità
sammarinese alla Santa Sede, accenna appena ed in modo indiretto
all’avvenimento. Eppure è un appuntamento importante. O almeno tale era stato
considerato otto giorni prima, il 18, quando il cardinale lo aveva fissato –
dice lui – dopo aver parlato coi parroci e su consiglio degli stessi parroci.
Appena lo ebbe fissato subito si era premurato di informarne il Firrao.
Addirittura gliene aveva parlato in entrambe le lettere speditegli il 18,
anticipandogli già molti particolari: la cerimonia, detta del “solenne
giuramento”, si sarebbe svolta in pieve ed in giorno di festa per consentire la
massima partecipazione anche della gente comune, e sarebbe terminata con un
doveroso Te Deum di ringraziamento, dato che “un affare che poteasi
rendere difficile, e spinoso” era stato risolto e “terminato con tanta felicità,
e con tanta gloria di Nostro Signore Clemente XII”.

Aveva spedito, nella prima parte
della settimana, inviti a destra ed a manca per quella cerimonia, che doveva
costituire il coronamento di tutta l’operazione: voleva avere al suo fianco, in
quel momento, le più prestigiose autorità religiose e politiche della Romagna.
Ed aveva ingaggiato ben quattro notai per stendere il verbale della cerimonia,
affinché nessuno, a Roma o altrove, avesse a ridire sulla spontaneità della
dedizione. A Roma, dopo un successo simile, nessuno più si sarebbe opposto alla
sua permanenza nella Legazione e finalmente avrebbe potuto portare a termine
quei lavori attorno a Ravenna che gli stavano tanto a cuore. E, forse, andare
oltre nel mandato.

Ma ora, alla vigilia di
quell’appuntamento, si sente molto meno sicuro di otto giorni prima, quando lo
aveva fissato. Ripercorriamo quegli otto giorni.

 

La fase del collaborazionismo

Per l’Alberoni la settimana
successiva al suo arrivo era cominciata secondo i migliori auspici. Già domenica
18, in segno di ‘spontanea’ e pubblica dedizione, gli erano state consegnate,
con tanto di rogito, dai due Capitani in persona, Gian Giacomo Angeli e Alfonso
Giangi, accompagnati dal Segretario Biagio Antonio Martelli, “le Chiavi delle
Porte della Terra, della Rocca, e degli altri luoghi pubblici”. Ed era
proseguita fin dai primi giorni della settimana la raccolta degli atti di
sottomissione delle altre parrocchie, dopo quelli di Serravalle, Borgo e
Fiorentino ricevuti il giorno stesso dell’arrivo: lunedì si era presentato il
parroco di Faetano, martedì quello di Acquaviva. Qualche ritardo per
Montegiardino e Chiesanuova ma non per cattiva volontà. Già mercoledì l’Alberoni
può scrivere al Firrao: “tutto è caminato tal qual poteasi desiderare”. Ed
esclama soddisfatto: “ci è riuscito il farne acquisto con tanta facilità e sì
buon successo ch’era difficile l’imaginarselo, non che crederlo”!

Appena ricevute le chiavi dei
luoghi pubblici egli aveva preso anche materialmente possesso del paese,
‘tirando’ “a sè … la Bandiera e Ruolo de’ Soldati, i Sigilli”, visitando la
Rocca, poi il Palazzo ed infine l’Archivio. Ma si era guardato bene
dall’acutizzare la situazione, magari umiliando i vecchi governanti o, peggio,
lasciandoli in balia della fazione vincente, quella dei Lolli. Tira fuori dalle
carceri Pietro Lolli, assegna a lui ed a suo fratello qualche posto di
responsabilità, distribuisce qualche prebenda ai Ceccoli (seguaci del Lolli), ma
non permette che si consumino vendette. Ne è una riprova l’atteggiamento che
assume verso Marino Belzoppi, il braccio operativo della fazione del Lolli. Il
Belzoppi verrà tenuto dentro col pretesto di pendenze per reati comuni e, appena
possibile, sarà trasferito in una prigione della Legazione, lontano dal Titano.
Insomma l’Alberoni non lo vuole in circolazione a San Marino, perché, dato il
carattere iroso e vendicativo, avrebbe potuto creare problemi di ordine
pubblico, magari mettendo in atto qualche gesto sconsiderato verso qualche
personaggio del vecchio apparato governativo. Al contrario l’Alberoni non esita
a liberare dallo stesso carcere Gian Battista Zampini, fratello dell’Abate,
benché anche lui, come il Belzoppi, sia accusato di reati comuni.

In effetti l’Alberoni cerca subito
il dialogo coi vecchi governanti, con l’obiettivo di coinvolgerli nella
normalizzazione ed eliminare così ogni prevedibile resistenza alla
formalizzazione della dedizione della Repubblica alla Santa Sede prevista per
domenica 25. Comincia col contattare da subito il Dottor Giuseppe Onofri: “il
giorno dopo il suo arivo … fu da lui stesso fatto chiamare come uno de’ più
giusti e più clementi”. Dopo l’Onofri, personaggio autorevolissimo per nobiltà,
scienza ed ‘enorme’ proprietà terriera, segnalatogli probabilmente
dall’Almerighi, continua con gli altri. Con sua grande meraviglia non incontra
resistenza alcuna nel portare avanti il suo proposito. L’intera classe dei
vecchi governanti asseconda i suoi intendimenti, quasi lo precede nei suoi
desideri, gli si accosta, va a lui scusandosi addirittura per il ritardo: “sono
venuti ad pedes col pregarmi voler perdonare la loro tardanza usata nel
venir’a fare il loro dovere di dichiararsi sudditi della Santa Sede”. Il vecchio
cardinale è sorpreso. Rimane per un attimo perplesso. E’ sfiorato dal dubbio:
“non sò se possa credersi che in un Istante abbino a mutar massime, genio e
costume”. Sembra paventare una macchinazione. Ma, poi, l’ombra si dissolve:
lusingato da quello svolgersi dei fatti, è portato a ritenere che quel che
succede sia frutto della sua abilità e della sua destrezza. Si tranquillizza. Si
rilassa. Si lascia andare fino a profondersi in affermazioni insolite nei
confronti dei sammarinesi, “gente … acerrima, tenace e, può dirsi,
superstiziosa di questa loro libertà, nella quale consisteva il vivere a modo
loro”. Arriva addirittura a riconoscere una qualche fondatezza alla “distinzione
che [essi] godevano ne’ paesi circonvicini”: una “distinzione” tale “ché sino i
Cavaglieri Bolognesi domandavano d’esser cittadini della Repubblica”. Dice,
compiaciuto, al Firrao: “mostrano tutti di avere in me una somma fede, di
credere quello che gli ho detto, che tra tutti i sudditi della Santa Sede
saranno i più felici e i più fortunati, senza mai avere a ricordarsi del loro
antico Governo; che d’esser più che sicuri che in questa mutazione io gli
procurarò tutti i vantaggi possibili; e questa è stata sempre la gran fiducia
che hanno avuto ed hanno in me”.

Egli comincia a guardare la
situazione come la vedono loro, i sammarinesi. Si mette nei loro panni. Passa a
condividere le loro preoccupazioni di neosudditi della Santa Sede. Se ne fa
carico. Si impegna, e vuole che anche il Firrao si impegni, perché a loro
“venghi stabilito un Governo sotto il quale abbino a vivere con leggi piene di
Giustizia, e d’equità, adattate per quanto sarà possibile al loro genio ed
antico costume, e non abbiano mai a pentirsi della fiducia avuta in quelli che
han cooperato alla loro dedizione”. Se i sammarinesi dovessero trovarsi male
sotto la Santa Sede, se dovessero pentirsi della dedizione spontanea, “confesso
Em.mo Padrone che se ciò mai succedesse troppo grande sarebbe il mio dolore, e
nel poco tempo che mi resta a vivere, dovrei forse augurarmi di non aver avuta
parte in quest’affare”.

 

L’atteggiamento di rassegnata e,
al contempo, attiva collaborazione da parte dei vecchi governanti induce
l’Alberoni ad allentare la pressione del controllo poliziesco sul paese, così
che essi hanno maggiori possibilità di manovra nell’organizzare la resistenza.
Abbiamo già visto, che proprio in quegli stessi giorni, è pervenuta per ‘vie
miracolose’ sul Titano una copia della lettera della Segreteria di Stato
contenente le istruzioni cui avrebbe dovuto attenersi l’Alberoni. I vecchi
governanti hanno esaminato attentamente quelle istruzioni, individuato i punti
che l’Alberoni aveva disatteso, preparato una versione dei fatti che mettesse in
risalto proprio quelle trasgressioni, ed inviato in tutta fretta, martedì 20,
quella loro versione (lettera dell’Anonimo) a Mons. Maggio a Roma, il quale la
leggerà al papa. Lettere e dispacci analoghi partono alla volta di Urbino, di
Bologna e per altre destinazioni.

Ovviamente tutto questo avviene in
gran segreto, senza destare alcun sospetto nel fronte alberoniano, che – con
addetti al seguito a vario titolo, soldati e sbirri – ha inondato la minuscola,
lillipuziana capitale i cui abitanti “vix trecentesimum numerum
excedebant
”. “La sera del [Lunedì] 19 partirono li Soldati di Verucchio e
poco dopo giunse da Ravenna il Bargello di Colluna con 20 Sbirri a Cavallo”. Né
l’Alberoni, né l’Almerighi, né il Bargello, né tutti gli altri al suo servizio,
compresi i numerosissimi informatori segreti, nessuno ebbe sentore del lavorio
sotterraneo dei sammarinesi, in particolare della messa a punto e della
spedizione della lettera dell’Anonimo. Di quel periodo l’Alberoni avrà questo
ricordo: “per otto giorni continui li già Oppressori conferiscono meco, e
lavorano per mezzo del Dottore Onofrj, uno di essi, … con … alacrità, e buon
genio”.

 

Un nuovo
Consiglio

Ed è un lavorare concreto. Scrive
ancora l’Alberoni al Firrao mercoledì 21: “sono alcune sere che col Signor
Avocato Bonzetti di Rimini e due di questi soggetti creduti i più savi e i più
assennati, si travaglia a formare un piano provvisionale del nuovo Governo”. Il
nuovo governo prende rapidamente forma. Si tratta, ovviamente, di un governo
‘locale’ che, come avviene per ogni Terra immediate subiecta, ha solo
compiti amministrativi. La responsabilità politica è affidata ad un governatore
nominato dalle autorità pontificie. Per il resto l’Alberoni compie ogni sforzo
per salvaguardare le peculiarità della comunità sammarinese, per rispettarne le
tradizioni e per pacificarvi gli animi dopo tanti anni di contrasto interno.
Ricostruisce un “Consiglio di sessanta Persone”, così come era previsto negli
antichi statuti (al momento del suo arrivo il numero dei consiglieri viventi si
aggirava attorno a 25). Egli riconferma i vecchi e procede alla nomina dei
nuovi, tenendo conto, nello scegliere i nuovi, della norma statutaria secondo
cui, dei 60 consiglieri, 40 devono essere “abitanti della Città, e Borghi” e 20
“abitanti del Contado”. E rispetta pure la norma consuetudinaria di “un
Consiglio generale composto di tre Ordini [o ranghi] di persone”, cioè “di
Nobili, di cittadini tra i quali gli artisti, e di Paesani”. Al vertice invece
dei Capitani (un nobile e un non nobile) che stavano in carica sei mesi, d’ora
in avanti, per una durata di due mesi, ci sarà un Gonfaloniere (consigliere del
primo rango) affiancato da due Conservatori (due consiglieri, uno del secondo ed
uno del terzo rango). I due ex Capitani Gian Giacomo Angeli e Alfonso Giangi, in
carica dall’1 ottobre, vengono nominati rispettivamente Gonfaloniere e
Conservatore per il secondo rango. A Conservatore per il terzo rango è nominato
Giuliano Malpeli, anch’egli già consigliere.

In pratica l’Alberoni lascia ai
vertici dell’amministrazione pubblica tutti quelli che già vi erano e, al
contempo, allarga il ventaglio dei posti per far salire altri.

 

Il numero effettivo dei componenti
del consiglio era questione controversa, tormentata e complessa, che teneva
banco da oltre un decennio nella piccola Repubblica, motivo di aspro contrasto,
anzi, almeno all’apparenza, il principale motivo di scontro fra il Lolli ed i
suoi da una parte ed i vecchi governanti dall’altra. Invano il Lolli ed altri
per anni avevano chiesto ai vecchi governanti di riempire tutti i seggi fino a
60.

Impossibile per l’Alberoni mancare
di dare quella soddisfazione alla parte politica che aveva favorito la sua
venuta. D’altra parte egli sapeva che, così facendo, avrebbe resa manifesta,
quindi cocente, la sconfitta dei vecchi governanti. Questi, umiliati, non gliela
avrebbero perdonata. Si sarebbero di nuovo messi di traverso e, per non rendere
definitiva la loro sconfitta, avrebbero cercato di ostacolare in ogni modo la
formalizzazione della dedizione.

 

L’Alberoni supera –
brillantemente ? – l’impasse portando sì a 60 il numero dei consiglieri,
come vuole il Lolli, ma facendosi ‘assistere’ nell’operazione proprio dai vecchi
governanti, cioè procedendo con il loro consenso: chiama “a consulta quelli
stessi che erano reputati i Capi delle passate oppressioni, e che da questi a
sua Em.za quelle notizie si suggerì, che erano più necessarie per le
disposizioni del Governo”. Così che l’accrescimento del numero dei consiglieri
fino a 60, che avrebbe potuto costituire un motivo di insanabile contrasto fra
l’Alberoni e vecchi governanti, viene trasformato in una occasione di
collaborazione: i nuovi consiglieri – oltre una trentina – li sceglie e nomina
il cardinale, ma a seguito di un accordo che ha il consenso di tutte le parti.

Tutte le parti, sia pure ciascuna
per ragioni diverse, hanno motivo per ritenersi soddisfatte. In primo luogo è
soddisfatto l’Alberoni che, sia pure indirettamente e tacitamente, si vede
riconosciuto il diritto di nominare i consiglieri – e formare un nuovo governo –
come se il conglobamento del territorio sammarinese nello Stato Pontificio fosse
già perfezionato e la sua autorità, a nome della Santa Sede, fosse già affermata
ed accettata.

Il Lolli ottiene ciò che ha sempre
rivendicato: un Consiglio di 60 membri. Quanto al resto, poco importa: se la sua
fazione non ha in mano tutto il nuovo governo e non può contare che su una mezza
dozzina di consiglieri, la protezione riconoscente del cardinale (e quindi della
Santa Sede) è, per lui e per i suoi, garanzia più che sufficiente tanto nella
fase del trapasso dei poteri che per il futuro.

I vecchi governanti controllano la
quasi totalità dei seggi in consiglio, come prima. Come prima occupano i primi
posti nell’organigramma del governo. Rimanendo, anche visivamente, al centro
della scena politica, possono riprendere da subito il loro consueto ruolo di
punto di riferimento per il paese e per la stessa gente comune, dopo il breve
periodo di sbandamento creato dall’ambiguo comportamento dei parroci, nelle
prime ore dall’arrivo dell’Alberoni.

 

Visto dalla parte dell’Alberoni il
Consiglio conta poco. Ecco perché concede tanto. La composizione del Consiglio
non è importante. O almeno non è importante in sé. Appena formalizzata la
dedizione della Repubblica alla Santa Sede, quel Consiglio, come negli altri
luoghi dello Stato Pontificio, diventerà un semplice organo amministrativo, al
più con competenza nella ripartizione dei carichi fiscali all’interno della
comunità. Il potere politico passerà automaticamente nelle mani del governatore
la cui nomina, come per gli altri luoghi, spetta alle autorità pontificie.
Insomma l’unico atto politico che il nuovo Consiglio è chiamato a promulgare è
anche l’ultimo, quello di domenica 25: la dedizione della Repubblica alla Santa
Sede. Tutto passa in secondo piano in vista di tale obiettivo. Fra l’altro, dopo
l’acquisizione, San Marino diverrà una comune Terra immediata subiecta,
quindi le autorità pontificie non troveranno, all’occorrenza, alcun ostacolo a
intervenire anche sulla composizione del Consiglio, come succede ordinariamente,
qua e là, coi pretesti più vari di ordine religioso o civile.

 

L’Alberoni ha, dunque, il pensiero
fisso sulla cerimonia di domenica. Fa tutto in funzione di quell’appuntamento.
Contatta e nomina i consiglieri ad uno ad uno, perché ad uno ad uno domenica
essi giureranno sul sacro libro del Vangelo aperto sulle sue ginocchia. Per
ciascuno cerca di creare un motivo di riconoscenza nei suoi confronti. Non
possono non essergli grati, ad esempio, i consiglieri di nuova nomina (F.
Baroncini, S. Franzoni, L. Canini, G. Casali, G. Vita, M. Biondi, D. Bertoni, L.
Valentini), o quelli che sono stati elevati di rango (M. Giangi, B.A. Martelli)
o che rimanendo nello stesso rango hanno guadagnato una carica nuova (G.
Malpeli). Ascolta tutti. Riceve tutti. Nella sua anticamera è un susseguirsi
ininterrotto di persone: ci si va senza paura di destare sospetto. La “gran
tavola” che egli si era preoccupato di allestire fin dal primo giorno, la tiene
sempre imbandita. Non manca di sfoderare, all’occorrenza, la lusinga del
“rinfresco delle Cioccolate”.

.

Entro la mattinata di giovedì 22
ottobre, l’organigramma del nuovo governo è pronto. Sono stati scelti il
Gonfaloniere (l’ex capitano Angeli, nobile), il Conservatore ‘cittadino’ (l’ex
capitano Giangi, commerciante) ed il Conservatore ‘campagnolo’ (Malpeli,
agricoltore). L’Alberoni è visibilmente compiaciuto: “non vi potrà essere più né
prepotenza né Tirannia, poiché ogn’uno potrà dire il fatto suo”.

Ora non gli resta che trasmettere
le lettere di nomina ai designati ed invitarli alla cerimonia del solenne
giuramento di domenica 25.

 

I privilegi

In parallelo col nuovo assetto
governativo l’Alberoni porta avanti – in accordo con i vecchi governanti – la
definizione di un’altra delicata materia, oggetto della massima attenzione da
tutte le parti fin dall’inizio della vicenda: quella dei cosiddetti ‘privilegi’.
San Marino nel momento che perde la libertà politica, cessando di essere una
entità separata dallo Stato Pontificio, corre il rischio di essere uniformato
automaticamente agli altri luoghi dello Stato, anche per gli aspetti giuridici,
amministrativi, e, in particolare, fiscali. Trattandosi di una dedizione
spontanea è logico attendersi che i sammarinesi come minimo chiedano il
mantenimento delle condizioni precedenti, che ora, una volta inseriti nello
Stato Pontificio, si configurano, rispetto agli altri sudditi, come
‘privilegi’.

All’Alberoni è stata conferita
attraverso il Breve e la lettera della Segreteria di Stato unita allo stesso
Breve, una delega specifica con ampi margini di discrezionalità, in materia di
privilegi. Appena arrivato a San Marino, già il 18, l’Alberoni aveva capito che
occorreva attingere abbondantemente a tale delega. Mette subito le mani avanti
scrivendo al Firrao: “converrà chiudere gli occhi sopra qualche cosa [cioè in
materia di privilegi economici ecc.], e contentarsi di avere assicurato quello
che importava di più”, cioè la soppressione della autonomia politica.

In effetti l’Alberoni si comporta
con molta liberalità nei confronti dei sammarinesi, in materia di privilegi.
Concede molto. Moltissimo. Si va dal “Privilegio della provvista del Sale al
solito prezzo senza la menoma alterazione, e dall’esenzione di qualunque
Colletta Camerale imposta, e da imporsi in avvenire nello Stato Pontificio”, al
“Privilegio di poter portare per tutto lo Stato Ecclesiastico lo Schioppo ad uso
di Caccia”, a quello dell’esenzione “dalle Confiscazioni de’ … Beni per
qualunque Delitto”, a quello “di non essere in qualunque modo soggetti, né per
cause Civili, né Criminali, né per qualunque Interesse, anche Economico, ò
Comunitativo” ai tribunali romani, “ma unicamente alla Legazione di Romagna, ed
al Legato prò tempore”. Seguono altri privilegi che esonerano i sammarinesi
dalle tante vessazioni cui sono soggetti i normali sudditi della Santa Sede.

Quelli concessi dall’Alberoni sono
“provvedimenti tanto nel Politico, economico che giuridico … adattati a un
Governo avvezzo da lungo tempo a vivere in libertà”. E vengono concessi in
circostanze particolari, per un fine strumentale: in vista della cerimonia di
domenica 25. Appena la lista dei privilegi è pronta, si stende il relativo
decreto ed il tutto viene inviato per via celere a Ravenna per farlo stampare
sotto forma di manifesto. I manifesti dovranno essere affissi in tutta la
Repubblica entro sabato 24 in modo che tutta la popolazione ne possa prendere
visione. Tutta la popolazione della Repubblica è invitata a partecipare alla
cerimonia del giorno dopo.

 

Il cardinal Alberoni si è
preparato al meglio alla cerimonia curandone in prima persona tutti gli aspetti,
anche quelli decisamente secondari. Ad esempio, ha fatto richiesta, per tempo, a
Ravenna “d’un Piviale, d’una Pianeta, e di due Tonicelle”. Poi ha aggiunto: “Se
avete una cappa magna me la manderete”. Infine ha deciso per “l’abito lungo di
scarlato”. Ordine tassativo: il tutto “che si trovi Sabbato qui in S. Marino”.

Le cose procedono decisamente bene
per l’Alberoni. Anche il cuoco è finalmente arrivato. Aveva chiesto che glielo
mandassero da Ravenna già sabato 17, appena si era reso conto che a risolvere la
questione sammarinese non bastava lo spazio di un week-end. Ne aveva sollecitato
nuovamente l’invio, come pure del “Credenziere”, domenica 18. Ma lunedì 19 scrive: “Sin’ora
non si è veduto il cuoco e ve n’è un gran bisogno”. Poi, finalmente, era
arrivato anche il cuoco. Solo il tempo rimane decisamente brutto, inclemente:
“qui diluvia”. Ed il pensiero corre a Ravenna, ai lavori che forse non vanno
avanti a causa, appunto, del maltempo o della sua assenza. Aveva scritto ai suoi
di Ravenna, visibilmente accorato, appena arrivato sul Titano, nel pomeriggio di
sabato 17: “voi dovete prendere le vostre misure per cotesti Lavori che non
abbino a tardare a causa della mia assenza”.

 

La svolta di metà settimana

L’Alberoni stava preparando il
grande appuntamento di domenica 25 e tutto stava procedendo, per lui, secondo i
migliori auspici, quando, improvvisamente, la situazione cambiò: “La notte del
Giovedì venendo il Venerdì [i ‘Tirannetti’] mandarono al Castello di Serravalle
uomini armati a minacciare quell’Arciprete ed alcuni altri di detto luogo, che
se fossero andati domenica a prestar il solenne giuramento, un giorno, e più
presto di quello che pensavano, avrebbero reso conto alla Repubblica, e che
adesso per all’ora li avrebbe riguardati come Ribelli; che dovevano credere
essere quella una scena ridicola, che era imminente un Conclave, e che sotto
un’altro Papa la Repubblica sarebbe risorta gloriosa e trionfante”. Insomma voci
certamente messe in giro da uomini “in malafede”, che mirano, pericolosamente, a
riaccendere la contestazione come il primo giorno del suo arrivo. L’obiettivo
della macchinazione: “fare tutto il possibile perché non segua Domenica il
solenne giuramento”. L’Alberoni ne scrive al Firrao sabato 24, ne parla come di
una prova, appunto, della “malafede” dei “tirannetti”. Lo informa inoltre che
quella “malafede” gli ha provocato delle noie: le voci hanno riscosso credito,
la contestazione si è effettivamente riaccesa. Insomma questo è un “popolaccio
vario ed incostante [su cui] non si può far fondamento”! Egli si è trovato
costretto nuovamente a “mutar sistemma” e “dalla piacevolezza passare al
rigore”.

Effettivamente l’Alberoni, appena
gli sono giunte all’orecchio quelle voci, è corso ai ripari adoperando,
all’occorrenza, anche la forza. Già venerdì mattina prontamente i soldati
mettono a tacere coloro che pubblicamente incitavano al boicottaggio della
cerimonia, arrestandoli (Valerio Maccioni e Ludovico Belluzzi) o costringendoli
alla fuga nel territorio della Legazione di Urbino (Pier Antonio Leonardelli e
Filippo Manenti). Chi ha manifestato anche una semplice riluttanza è stato
ammonito e – a detta dei sammarinesi – minacciato fin nella famiglia (Gozi,
Onofri, Begni, Martelli).

Tuttavia l’Alberoni non si ferma:
la preparazione della cerimonia va avanti. In particolare si provvede, secondo
programma, all’invio delle nomine dei consiglieri. Eccone una: “D’ordine
dell’Ecc.mo, e Rev.mo Sig.e Cardinale Giulio Alberoni Legato a Latere della
Romagna, e della Santità di Nostro Signore specialmente delegato, si fa sapere à
Giuliano Malpeli essere dall’Eminenza Sua stato annoverato tra li Consiglieri di
Terzo Rango col carattere di Conservatore di questa Città di San Marino, e
facendosi dall’Eminenza Sua Domenica Prossima 25 del corrente la funzione
d’assistere in Abito alla gran Messa in musica della Chiesa matrice della Città,
dovrà pertanto il medesimo Malpeli venire a servire l’eminenza Sua colli Sig.ri
Confaloniere, et altro Conservatore suoi Compagni. Dato da Palazzo della
Residenza dell’Eminentissimo e Reverendissimo S.r Cardinale Legato questo dì 23
Ott. 1739. [Firmato] Sig. Baldassar Bellardi, Segretario”.

 

Nel testo della lettera di nomina,
che al contempo è anche un ordine-invito a partecipare alla cerimonia, non si fa
cenno al giuramento. Pare proprio che sia intervenuta una variazione di
programma nello svolgimento della cerimonia o almeno una variazione del suo
significato. L’Alberoni, lo stesso sabato 24, quasi volesse indirettamente far
sapere che la vicenda sammarinese in effetti è già conclusa, trasmette a Roma
questa notizia: “Per il glorioso e memorabile riacquisto fatto alla Santa Sede
sotto l’Augusto Pontificato di Nostro Signore” affinché “se ne perpetui la
memoria appresso i Posteri … avendo saputo che in Rimini vi è un Busto
rappresentante l’immagine di N.S. senza che abbia quel Pubblico potuto
servirsene”, egli lo ha fatto portare sul Titano “per collocarlo sulla facciata
“ del Palazzo con una adeguata iscrizione. Ed allega alla lettera, a mo’ di
ciliegina, “un bozzetto” dell’opera affinché quei di Roma e soprattutto “l’Em.mo
Corsini n’abbino sotto l’occhio in qualche modo l’idea”.

 

Tensione nella “sera
fatale”

Al Firrao, sabato 24, l’Alberoni
non dice esplicitamente che il giro di vite è finalizzato ad assicurare un
regolare svolgimento alla cerimonia dell’indomani. Gli racconta di Ludovico
Belluzzi (e di Filippo Manenti salvatosi dalla galera con la fuga) a mo’ di
premessa ad un lungo, stucchevole, quasi delirante ragionamento sui
provvedimenti che dovranno essere presi per mantenere il “luogo”, dando per
scontato che il luogo sia stato già definitivamente acquisito, quasi che la
cerimonia dell’indomani sia un ‘pro forma’. Premesso che sarà necessario un
presidio militare fisso, il vecchio cardinale si mette a disquisire sulla
consistenza di tale presidio (“cinquanta Uomini”), sulla composizione (“un
Tenente col titolo di Comandante, Alfiere, Sergente e suoi Caporali”), sul dove
sistemarli “con pochissima spesa” (“il sito delle Porte, e della Rocca”), sui
precedenti che giustificherebbero la dislocazione di tale presidio (“Torre de
Bonarelli [anche quello, come S. Marino] un nido di quattro disgraziati
contrabandieri”), sul come mettere assieme quei soldati “senza aggravare la
Camera” (facendolo venire “da Ferrara” dove c’è stabile un “presidio di mille
uomini”, di cui spesso ” si mandavano cento soldati alla Mesola”). Il succo:
“questo luogo non può stare solamente con cinque o sei Birri, ma bisogna pensare
di porre in questa Rocca, e alle Porte almeno cinquanta soldati”.

Le grida di Ludovico Belluzzi, che
non si tacque nemmeno ammanettato, nemmeno quando “veniva condotto alle
Carceri”, nemmeno quando “il Bargello gli gettò adosso parte del suo ferraiolo e
gli pose un fazzoletto alla bocca” (e ancora “così va gridando dalle Carceri
medesime”, come apprendiamo dal Bianchi), devono aver turbato non poco il
vecchio cardinale e forse continuano a risuonargli ancora nelle orecchie mentre
scrive al Firrao, influenzandone lo stile e anche la consueta chiarezza
espositiva. Tanto più che Ludovico Belluzzi, nei giorni precedenti, “aveva
affettato particolare devozione alla Santa Sede”.

 

A lettera terminata, gli arrivano
altre segnalazioni che egli riporta nel Post Scriptum: “i cinque tiranni
… continuano a far correre voce, e s’ingegnano a farla credere, che
all’imminente Conclave ed anche prima, quando il Papa abbia vita, che la
Repubblica ritornarà ad essere quella che era…. Una diabolica invenzione che
ha messo in timore più d’uno”. Fra quelli ‘messi in timore’ c’è lo stesso
Alberoni? Quelle voci, oltre che insistenti, sono divenute precise: “Oggi hanno
sparso che il Conte Zambeccari di Bologna [rappresentante della Spagna] siasi
portato a Roma per le poste per assisterli e proteggerli, e che impegnarà il
Card. Acquaviva”.

 

Dopo aver messo in condizioni di
non nuocere le teste calde, cioè gli irriducibili, l’Alberoni riallaccia il
dialogo con tutti gli altri, adoperando probabilmente come esca la questione dei
privilegi: i privilegi già concessi si possono ulteriormente accrescere. Fra i
maggiorenti che contatta nuovamente c’è sicuramente l’Onofri. E sembra che abbia
avuto luogo, nel tardo pomeriggio, in vista della cerimonia dell’indomani,
addirittura una riunione, per così dire, preparatoria, presenti tutti i
consiglieri del primo rango, compreso il Lolli. E sembra che nel corso della
riunione nessuno abbia fatto presagire un atteggiamento contrastivo riguardo al
giuramento.

 

Alla cerimonia il cardinale farà
partecipare anche delegati di Serravalle, Faetano e Montegiardino, cioè dei
castelli ex malatestiani, che non avevano voce in Consiglio. Tale decisione è
stata presa all’ultimo momento. A Serravalle la riunione per l’elezione dei due
delegati ha luogo sabato 24, presenti 36 abitanti. Gli abitanti di Faetano e di
Montegiardino procedono alla designazione addirittura nella prima mattinata di
domenica 25, riunendosi in San Marino-Città rispettivamente in numero di 26 e di
20.

Il fatto rivela un certo
nervosismo nel fronte alberoniano, quasi un affanno, certamente un appannamento
nella esecuzione del progetto messo a punto con tanta lucida determinazione
all’inizio della settimana.

Analogo nervosismo si riscontra
dalla parte dei sammarinesi. Il loro tentativo di boicottare la partecipazione
alla cerimonia è stato neutralizzato dal pronto e capillare intervento
poliziesco del cardinale. La preparazione della cerimonia non si è interrotta.
Già sta dilagando per il paese una folla di forestieri. “Oggi 24 sabato – scrive
un anonimo del fronte alberoniano – sono giunti molti Musici, e Sonatori, così
pure il Sig. Marchese Spreti, Mons. [leggasi Conte] Rasponi, molti Cavallieri di
Rimino, e d’altre Città circonvicine per vedere la funzione pubblica che sarà
fatta domattina nella Chiesa Principale di S. Marino da S. E. di prendere dà
questi popoli il giuramento di fedeltà alla S. Sede”.

I sammarinesi tuttavia non si
arrendono. Tentano un’altra, un’ultima strada: premere sul vescovo del
Montefeltro, che deve arrivare da un momento all’altro, perché convinca il
cardinale a sospendere la cerimonia. Si imbarcano in questo ennesimo tentativo
pur consapevoli della scarsa probabilità di una riuscita: le cose ormai sono
andate troppo avanti e, soprattutto, quel vescovo, Mons. Calvi, non è detto che
dia loro ascolto dato che in passato non è stato tenero verso i vecchi
governanti, avendo dimostrato, piuttosto, una certa condiscendenza verso la
famiglia Belzoppi, notoriamente schierata con la fazione del Lolli.

“Nella sera de’ 24 il Dottore
Giuseppe Onofrj” come apprende
dell’arrivo sul Titano del nipote del vescovo mandato in anteprima “a
complimentar sua Eminenza”, si precipita da lui, facendosi accompagnare e
presentare addirittura da Pietro Lolli (!), per scongiurarlo “con le lacrime
agli occhi perché volesse gittarsi a piedi del Sig. Cardinale, e piagnere, e
pregare per loro”. Ma “l’Archidiacono Calvi Nepote di quel Prelato”, si defila
per “l’età sua giovanile da tal impegno”. Allora “l’Onofrj impaziente dimandò, e
ridimandò mille volte in quella sera fatale, se nulla sapeasi di certo circa la
venuta del Vescovo”. Ma il vescovo quella sera non arrivò. E forse non solo per
colpa della pioggia che da giorni cadeva incessante sulla zona e rendeva
difficile la viabilità.

Invece “giungeva ad un’ora di
notte [cioè verso le 19] da Ravenna tutta la Guardia Svizzera di S.E”, registra
puntualmente l’anonimo del fronte alberoniano.

 

Uno strano verbale

Il vescovo arriva sul Titano
domenica verso le 10, 30. L’Onofri, che lo aspettava con apprensione, “si fé
subito vedere in Casa dell’Arciprete Angeli per intender dall’Archidiacono
quanto fosse per operare Monsig.” vescovo, riguardo alla richiesta della sera
prima. Gli fu risposto che ormai mancava troppo poco all’ora in cui “il Sig.
Cardinale intim’avea la funzione, onde stata sarebbe temerità il voler muovere
bocca in un affare tanto avanzato”.

In effetti la cerimonia ha inizio
poco dopo, verso le 11, 30, come da programma.

Per la ricostruzione degli
avvenimenti di quel giorno ci si potrebbe basare sull’atto specifico “rogato
in solidum da quattro pubblici notai estranei a San Marino”. Vi dovremmo
poter trovare una miniera di informazioni. In effetti le informazioni ci sono ed
anche tante. Ma di che tipo? Apprendiamo che il cardinale quella mattina è
partito presto “dalla Casa de’ Signori Valloni situata in detta Città di San
Marino, ove risiede l’Eminenza Sua, scortato da due Corpi di Soldati di
Cavalleria, e Fanteria (dodici uomini a cavallo[PU1]  e
cinquanta fanti in maggior decoro di quella Sacra Funzione), preceduto dal Clero
della stessa Città, da molta Nobiltà forestiera de’ luoghi circonvicini … da
Cittadini e da grandissimo numero di Popolo d’ogni Rango tra le pubbliche
continuate voci di Evviva di tutta la Gente che acclamava la Santa Sede,
si trasferì alla Chiesa Matrice di S. Marino”. Sappiamo che però prima di
entrare era passato per la chiesetta di San Pietro ad adorare “l’Augustissimo
Sacramento dell’Altare, avanti del quale, sopra uno Sgabello preparato, fece
breve, e devota Orazione…”, che poi si vestì (“in disparte”) con “Cappa
Magna”, che entrò in pieve dove è accolto “dal Signor D. Francesco Angeli
Arciprete di detta Chiesa vestito con Piviale” e dove “genuflettendosi Sua
Eminenza sopra un cussino ivi preparato, li fu presentata la Croce”. Sappiamo
poi che il Cardinale “si alzò, e successivamente presentatoli l’Aspersorio
dell’Acqua Santa, dopo aver asperso se stesso, asperse il Clero, e Popolo tutto;
di poi postasi in capo la Beretta, mise nel Turibolo l’Incenso, col quale dal
detto Signor Arciprete Angeli fu tre volte incensato” e, finalmente, a suon di
musica, “giunse al Faldisterio ivi preparato”, e dopo altri canti, “dal detto
Signor Arciprete Angeli così vestito col Piviale, stando in Cornu Epistolae [fu
recitata] l’orazione prescritta in detto Pontificale”. E così via. Non si manca
di sottolineare che attraverso il solito Arciprete – si chiama Angeli, per chi
non l’avesse inteso! – “fu pubblicata l’indulgenza di Cento giorni da Sua
Eminenza concessa al Popolo”. Poi il Cardinale “dall’Altare si trasferì al suo
Trono eretto in Cornu Evangelij” ed invece “l’Ill.mo e Rev.mo Monsignore
Giovanni Grisostomo Calvi Vescovo di Monte Feltro vestito Pontificalmente …
poscia a Sua Eminenza … si trasferì al Faldistorio preparato a Cornu Epistolae
col suo Postergale.” Si va avanti con egual tono e pedanteria fino al “Vangelo,
cantato il quale fu dato a baciare a Sua Eminenza, il quale poi incensata,
sedé”.

E’ arrivato il momento del
giuramento.

Proprio ora però, stranamente, il
verbale diventa stringato, contorto, avaro di particolari. Sorvola su
indicazioni che, a rigore, dovrebbero ritenersi essenziali. Ad esempio, mentre
il nome dell’arciprete ricorre già tre volte, coloro che devono giurare – questa
doveva essere la cerimonia del solenne giuramento! – all’infuori del
Gonfaloniere, Giacomo Angeli, non hanno nome: viene indicata genericamente la
presenza di “moltissimi altri Signori Consiglieri d’ogni Rango”. Non solo.
Sembra che essi, per il solo fatto che sono lì, cioè senza compiere alcun atto
formale, abbiano ratificato “la spontanea Dedizione fatta da Signori Pubblici
Rappresentanti in nome pubblico all’Eminenza Sua sotto li 18 corrente Ottobre”,
cioè al momento della consegna delle chiavi delle porte e dei luoghi pubblici.
Altra sorpresa: i delegati (due per castello) di Serravalle, Montegiardino e
Faetano, indicati questi sì con nome e cognome, ratificano nell’occasione gli
atti di dedizione firmati dai loro parroci rispettivamente il 17, il 19 ed il
23.

 

Insomma l’Alberoni – almeno così
sembra dalla struttura del verbale – ha modificato il programma della cerimonia
inizialmente incentrato sul giuramento solenne della comunità, cioè dei
rappresentanti della comunità, vale a dire dei consiglieri. Pare che abbia messo
in primo piano la convalida degli atti di dedizione già avvenuti, quasi che il
giuramento dei consiglieri fosse un punto del programma, sul quale,
all’occorrenza, si sarebbe potuto sorvolare.

 

In effetti non si sorvola. Si
passa, a un certo punto, al giuramento dei consiglieri. Il verbale ne tratta in
questi termini: “Datosi di mano però dal prefato Em.mo Signor Cardinale al Libro
de’ Sagrosanti Vangeli presentatoli aperto dal Signor D. Ignazio Carpigiani
Mansionario della Chiesa Metropolitana di Ravenna e Maestro di cerimonie,
tenendolo così aperto l’Eminenza Sua l’esibì a tutti li sudetti, sopra del quale
uno dopo l’altro toccando il Sagrosanto Vangelo, in mano all’Eminenza Sua
defferente in forma, alla presenza degli infrascritti Testimoni, di Noi Notari,
e del Popolo tutto pubblicamente e solennemente giurarono nella seguente forma
…”. Segue la formula del giuramento. Poi il verbale conclude: “Et ita omnes
supradicti iurarunt tactis Sacris Evangelijs ad delationem Em.mi et Rev.mi
Domini Cardinali legati et Delegati ut supra deferentis in forma, et ad
praesentiam nostram, totiusque Populi adstantis”.

 

Insomma non si riesce a capire
chi, dei consiglieri, effettivamente abbia giurato: l’omnes supradicti
rimanda a “tutti li sudetti”, che a sua volta sembra riferirsi ai, non
meglio precisati, “moltissimi … Signori Consiglieri d’ogni Rango” presenti.

Dopo il ‘latinorum’ si legge:
“Improvvisamente s’affacciò al Trono dell’Eminenza Sua il Signor Dottor Giuseppe
Onofri, che seguito dalli Signori Girolamo Gozi, Biagio Martelli, Giovanni
Marino Giangi, Alfonso Giangi, Lodovico Amatucci e Marino Tini, sedotti ed
ingannati dal detto Dottor Onofri, sfacciatamente protestarono in favore della
libertà e Repubblica, et insolentemente procurarono di suscitare il Tumulto del
Popolo. Ma indarno, perché l’Eminenza Sua, colla coragg

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