PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Terza puntata (La vicenda volge a favore dei sammarinesi)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Terza puntata (La vicenda volge a favore dei sammarinesi)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO
NO

 

Terza
puntata

 (La vicenda volge a favore dei
sammarinesi)

 (Annuario della Scuola Secondaria
Superiore, n. XXIV, Anno scolastico 1996-97)

 

 La resa totale

Lunedì 26 Filippo Manenti ritorna
dall’esilio e Valerio Maccioni e Ludovico Belluzzi escono dal carcere: tutti e
tre, assieme, “verso sera, … come gli altri, prestarono … in mano di S. E.
il giuramento solenne di fedeltà al S. Pontefice Romano”. Non sappiamo se
anch’essi hanno dovuto fare ore ed ore di anticamera prima di essere ricevuti,
come era capitato ai “Protestanti” la sera di domenica, quando usciti dalla
Pieve con una specie di salvacondotto ottenuto attraverso la mediazione di
alcuni ecclesiastici, scesero a Palazzo Valloni per chiedere ‘scusa’. E’ certo
che pure da questi tre l’Alberoni non si accontenta di una ritrattazione
verbale. Chiama i soliti notai e, come testimoni, i soliti personaggi del suo
seguito. Tutti e tre gli ex contestatori con lo stesso documento che riporta il
giuramento, sono prontamente nominati “Consiglieri del primo Rango … in
qualità di Confalonieri”. Per Filippo Manenti e Valerio Maccioni si tratta di
una riconferma in quanto erano in Consiglio già prima dell’arrivo dell’Alberoni.
Ludovico Belluzzi invece vi entra per la prima volta.

Non sappiamo se i tre
ex-contestatori vengano immessi nel Consiglio in sostituzione di altrettanti
consiglieri nominati la settimana precedente, e poi esautorati, oppure vadano ad
occupare dei seggi ancora liberi oppure siano aggregati al Consiglio in esubero,
cioè elevando, di fatto, il numero globale da 60 a 63. La lista dei consiglieri
messa a punto dall’Alberoni non figura – stranamente – negli atti ufficiali.

Gli unici consiglieri nominati
negli atti ufficiali sono quelli che in qualche occasione si sono espressi
pubblicamente contro la proposta di dedizione alla Santa Sede: i tre
‘irriducibili’ arresisi lunedì e i “Protestanti” della domenica. Infatti anche
fra i consiglieri presenti in Pieve domenica mattina – benchè, a quanto pare,
sia stato fatto un appello – solo quelli che hanno contestato figurano con nome
e cognome nel verbale della cerimonia, per poi ricomparire nuovamente, ciascuno
con nome e cognome, negli atti che riportano le loro ritrattazioni ed i loro
giuramenti di fedeltà alla Santa Sede.

In conclusione, dagli atti
ufficiali veniamo a conoscere soltanto i nominativi dei consiglieri
ex-contestatori: Biagio Antonio Martelli, Girolamo Gozi, Giovanni Marino Giangi,
Giuseppe Onofri, Alfonso Giangi, Lodovico Amatucci, Marino Tini e, ultimi,
Valerio Maccioni, Filippo Manenti, Ludovico Belluzzi. Sono 10. Gli altri 50 (o
53) non vengono affatto nominati, nemmeno quelli notoriamente favorevoli alla
Santa Sede e che sappiamo, da altre fonti, essersi pronunciati pubblicamente in
tal senso, come ad esempio, Gian Giacomo Angeli e Pietro Lolli.

Nominando negli atti ufficiali
soltanto i consiglieri che hanno fatto gesti pubblici di contestazione,
l’Alberoni fa intendere che tutti gli altri siano favorevoli alla Santa Sede.
Probabilmente egli stesso ne è convinto. O comunque è convinto che chi nei
giorni passati non ha osato schierarsi contro di lui, ragionevolmente non lo
farà più, dato che ormai anche i ‘grandi’, i capi stessi della contestazione si
sono arresi.

L’Alberoni dunque è ormai certo
che i consiglieri non gli creeranno più problemi. E si muove sulla base di
questo convincimento. Tanto da non aver remore a sfidarne nuovamente gli umori,
chiamandoli nuovamente a pronunciarsi sulla dedizione. E non uno ad uno. Non va
avanti continuando a raccogliere giuramenti personali di sudditanza e fedeltà
alla Santa Sede dopo aver incassato i primi 10, quelli degli ex-contestatori. Li
chiama di nuovo tutti, e tutti assieme, ad esprimersi collegialmente sulla
dedizione. In conclusione, riunisce il Consiglio. Vuole che sia il Consiglio, un
Consiglio regolarmente ed appositamente convocato, ad approvare la dedizione in
forma ufficiale.

 

L’Alberoni ha bisogno del Consiglio

Il Consiglio a S. Marino – come in
ogni luogo – rappresenta la comunità. Impensabile poterlo escludere, privarlo
della facoltà di pronunciarsi quando, come in questo caso, è in gioco la
fisionomia politica del luogo. Ma c’era anche un altro motivo, particolare,
personale che induceva l’Alberoni a cercare con ogni mezzo l’ottenimento di
quell’atto da parte del Consiglio. Quell’atto avrebbe sanato anche la
trasgressione al breve papale da lui commessa al momento dell’ingresso in
Repubblica: aveva valicato i confini benché la popolazione non fosse andata ad
accoglierlo.

L’Alberoni aveva messo in conto
tale trasgressione al breve papale già a Rimini, quando aveva saputo, la sera
prima di entrare in Repubblica, appunto a Rimini, che l’indomani sui confini non
avrebbe trovato nessuno. E’ probabile che già da allora avesse previsto anche
come rimediarvi: facendo, appunto, certificare, dopo poche ore, appena giunto
sul Titano, la spontaneità della dedizione direttamente dal Consiglio. Non era
un progetto velleitario, il suo. La gente, a detta dell’Almerighi, appena
l’avesse visto sul confine, sarebbe corsa da lui, gli si sarebbe stretta
attorno, l’avrebbe ‘costretto’ ad entrare, l’avrebbe acclamato come un
liberatore e, fra gli osanna, l’avrebbe accompagnato, spinto su fin sulla cima
del Titano, dove, a mo’ di conclusione naturale, si sarebbe riunito il Consiglio
per ratificare la dedizione, già, di fatto, avvenuta per decisione popolare.

Le cose non andarono come
previsto. La gente non divenne mai folla nemmeno a Serravalle o fra Serravalle e
Borgo. Dopo Borgo il cardinale fu lasciato addirittura solo. Solo col suo
seguito. Anche i pochi di Serravalle che lo avevano accompagnato fin lì,
ritornarono sui loro passi. E dovette proseguire, per giunta, in fretta. Tanto
in fretta da lasciare indietro – lui che andava a dorso di mulo – quella parte
del suo seguito che viaggiava su calesse, pur di arrivare in città prima che i
vecchi governanti chiudessero le porte. Arrivò per tempo. Trovò la porta di San
Francesco ancora aperta. Entrò alla chetichella, quasi come un viandante
qualsiasi, con un paio di persone al fianco o poco più. Dentro non trovò nessuno
ad accoglierlo. Non tentò, quindi, nemmeno di salire verso il Palazzo, sede del
governo e del Consiglio, tana dei vecchi governanti, per farsi approvare la
dedizione. Si rinchiuse in casa Valloni. E quando arrivarono un po’ di contadini
di Fiorentino con qualche arma in mano, li fece sistemare in anticamera a
protezione della sua persona, in attesa che arrivassero i soldati da Verucchio e
da Rimini.

Con la forza dei soldati il giorno
dopo l’Alberoni costrinse i vecchi governanti a muoversi loro da Palazzo, a
scendere a casa Valloni, a portargli lì le chiavi dei luoghi pubblici. Palazzo
compreso. E, per completare il trapasso, dopo averli estromessi dal Palazzo,
luogo-simbolo del potere, si accinse a snidarli dal Consiglio, il depositario
del potere.

 

Il rifacimento del Consiglio

Per espugnare il Consiglio, tutto
in mano ai vecchi governanti – il fortino della loro sicurezza -, l’Alberoni non
adoprò la forza, ma un ‘pertugio’ legale. I consiglieri viventi erano appena una
trentina quand’egli arrivò sul Titano, contro i 60 che prevedevano gli statuti.
Impose di riportare il numero statutario, come da anni, invano, era andato
chiedendo il Lolli. La nomina di nuovi consiglieri, però, in base agli statuti,
spettava, nell’ordinario, ai consiglieri già in carica. Siccome i consiglieri in
carica erano quasi tutti favorevoli ai vecchi governanti, scegliendo la via
ordinaria per completare il Consiglio, ne sarebbe scaturito sì un Consiglio di
60 membri, come volevano Alberoni e Lolli, ma ancora tutto in mano ai vecchi
governanti. Il che non andava bene all’Alberoni e al Lolli.

L’Alberoni aveva a disposizione
un’altra strada per modificare legittimamente il Consiglio e, addirittura, farsi
approvare direttamente la dedizione: convocare l’Arengo cioè l’assemblea dei
capi famiglia (o per capita Domorum come si legge nei testi di Ius
Civile
dell’epoca). L’Arengo, in un luogo, “rappresenta tutto il Corpo
dell’Università … Appresso il medesimo … risiedendo tutta la possibilità di
disporre, ne viene in conseguenza, che nelle cose ardue, e di gran rilievo si
deve precedere la risoluzione” di tale organismo. Riunirlo per una circostanza
eccezionale come questa, sarebbe stato più che legittimo agli occhi di qualsiasi
giurista e, fra l’altro, coerente con la rivendicazione del Lolli che appunto
aveva fatto dell’Arengo la propria bandiera nella pluriennale contestazione
verso i vecchi governanti.

A tale Arengo, secondo quanto il
Lolli ed i suoi avevano sempre sostenuto, avrebbero partecipato anche i
capifamiglia dei castra subdita, Montegiardino, Faetano e Serravalle.
Nell’occasione si sarebbe proceduto all’approvazione della dedizione ed anche al
rifacimento dell’intero Consiglio, cioè non solo alla ricopertura dei posti
vacanti. Per i vecchi governanti sarebbe stata la fine. La loro rappresentanza
in Consiglio sarebbe rimasta falcidiata. Così essi, nel passaggio della
Repubblica alla Santa Sede, avrebbero perso ogni forma di controllo sul paese, a
vantaggio, ovviamente del Lolli e dei suoi.

La convocazione dell’Arengo
avrebbe sancito la sconfitta totale dei vecchi governanti. Logico aspettarsi che
in tale riunione – dalla quale né l’Alberoni né alcun altro avrebbe potuto
escluderli – essi avrebbero venduto cara la loro pelle. Logico aspettarsi che
avrebbero tentato il tutto per tutto per farla fallire, per provocare disordini
magari aizzando i capi famiglia del distretto vecchio contro quelli dei
castra subdita. I disordini avrebbero attirato l’attenzione del
circondario, creato ulteriori problemi al cardinale già in ambascia per aver
trasgredito il breve papale al momento dell’ingresso in Repubblica e soprattutto
per aver fatto uso dei soldati senza una preventiva autorizzazione da Roma. Fra
l’altro le norme correnti del Ius Civile vietavano esplicitamente, nello
Stato della Chiesa, la convocazione dell’Arengo se non si fosse preventivamente
certi che la riunione non avrebbe ingenerato disordini.

In conclusione, la convocazione
dell’Arengo avrebbe – forse – prodotto, alla fine, l’approvazione della
dedizione (l’unica cosa che stava veramente a cuore all’Alberoni), ma la strada
che si prospettava non era scevra di rischio. Più comodo, per l’Alberoni,
arrivare alla dedizione portando dalla sua parte, cioè facendosi amici, gli
unici che si opponevano a tale dedizione, cioè i vecchi governanti, offrendo a
loro quello che più di ogni altra cosa in quel momento essi auspicavano e
desideravano: la non convocazione dell’Arengo.

La convocazione dell’Arengo, per i
vecchi governanti avrebbe comportato tout court la perdita della libertà
del paese ma anche la perdita del loro potere personale nel paese. L’Alberoni
diede a loro la garanzia che, qualunque minaccia il Lolli avesse millantato in
passato o continuasse ancora a millantare, egli non solo non avrebbe intaccato
la loro predominanza all’interno del paese, ma addirittura l’avrebbe, per quanto
possibile, rafforzata. Non solo. Sfruttando l’occasione, essi avrebbero potuto
conseguire dei vantaggi anche verso l’esterno, cioè oltre i brevi confini della
vecchia Repubblica. Il processo di acquisizione della Repubblica da parte della
Santa Sede, ormai avviato, doveva ritenersi irreversibile. Nessuno sarebbe stato
più in grado di fermalo, nemmeno lui, lo stesso Alberoni, essendo derivato da
una decisione presa al massimo livello, cioè dal papa stesso. Tanto valeva
rassegnarsi, prender realisticamente atto della situazione e fare tutti, tutti
assieme, buon viso alla sorte. Insomma approfittarne. Assumendo un atteggiamento
collaborativo, i vecchi governanti avrebbero guadagnato grandi meriti presso la
Santa Sede, di cui lui stesso, questo sì, fin da subito si sarebbe fatto
mallevadore.

 

Un Consiglio rifatto a tavolino

Per non convocare l’Arengo, un
passo necessario, indispensabile per rifare il Consiglio, l’Alberoni arrivò ad
assumersi, direttamente sulle sue spalle, senza alcuna copertura giuridica o
delega di una autorità superiore, la responsabilità di rifare il Consiglio, di
rifarlo a tavolino, come se fosse un principe del luogo e, per giunta, un
principe di piena sovranità. Ed a dimostrazione della sua buona fede, a maggior
garanzia dei vecchi governanti, chiamò ad aiutarlo nel lavoro il dottor Giuseppe
Onofri nel triplice ruolo di suo consulente personale, di rappresentante-garante
degli interessi dei vecchi governanti ed anche di amico, o non nemico, del
Lolli.

Giuseppe Onofri sfruttò quella sua
singolare posizione accanto all’Alberoni a favore del paese – ma anche della sua
parte politica – con grande abilità.

Talvolta l’Onofri, per non
scoprirsi, è costretto a mostrarsi così arrendevole da sembrare un
doppiogiochista. Ad esempio quando accetta che venga estromesso dal Consiglio
Gian Benedetto Belluzzi, già luogotenente dello stesso Alberoni per le cause
civili nella legazione di Romagna, ma ora a lui terribilmente inviso.

Altre volte una proposta
dell’Alberoni, avanzata per mettere in difficoltà i vecchi governanti, fu
piegata dall’Onofri fino a trasformagliela in un boomerang. Eccone un esempio.
L’Alberoni volle modificare la rappresentanza in Consiglio di alcune famiglie
nobili: al posto del capo famiglia fece subentrare il primogenito. Riteneva,
probabilmente, che un individuo più giovane fosse meno attaccato alle tradizioni
e quindi più disposto ad accettare il nuovo contesto politico, magari come
occasione per nuove possibilità di carriera. La innovazione, invece, giocò a
favore dei vecchi governanti almeno nel caso Gozi: al vecchio e malandato
Federico subentrò il figlio, Girolamo, che proprio con l’Onofri guiderà la
contestazione in Pieve domenica 25 ottobre ed assurgerà a simbolo della
resistenza sammarinese agli occhi del mondo.

Dove ancor di più si evidenzia
l’abilità dell’Onofri è nella ricopertura dei seggi vacanti. Probabilmente
l’Alberoni ha preteso che questi venissero assegnati a famiglie nuove, famiglie
emergenti che da decenni aspiravano invano ad entrare in Consiglio. Si parla di
famiglie che potevano vantare qualche rampollo fra gli ecclesiastici o fra i
professionisti del diritto, che disponevano di discrete – a volte rilevanti –
possidenze in Repubblica o fuori, e traevano molta parte del loro reddito da
attività commerciali. Fra queste famiglie si distingueva, per successo ed
intraprendenza, quella di Vincenzo Belzoppi, nettamente schierata coi
Lolli.

 

Un Consiglio tutto ‘urbano’

 L’Onofri riesce a piegare le cose
in modo che i seggi vuoti vengano sì assegnati alle famiglie ‘nuove’, ma solo di
una parte della Repubblica, non di tutta. Ad un eventuale Arengo avrebbero
partecipato, molto probabilmente, vista l’attesa che la fazione del Lolli aveva
creato in quelle zone, anche i capifamiglia delle zone marginali comprese quelle
dei castra subdita. E questi, ovviamente, avrebbero, nell’occasione,
rivendicato una loro rappresentanza in Consiglio. L’Onofri, invece, riesce a far
in modo che nel rifare il Consiglio, ci si attenesse strettamente alla norma
statutaria circa la residenza. I Consiglieri non potevano provenire che da
famiglie del ‘distretto vecchio’. Più precisamente: 40 da Città, Piagge e Borgo,
e 20 dalle “Ville”, cioè dalla ‘campagna’ del distretto vecchio. Insomma vennero
escluse a priori le famiglie residenti nei castra subdita.

In conclusione, il numero dei
consiglieri venne più che raddoppiato, ma non entrarono ugualmente in Consiglio
i rappresentanti dei castra subdita e, in pratica, di tutte le zone
marginali. E ciò nonostante che la fazione del Lolli da anni fosse andata
solleticando proprio gli abitanti di quelle zone a rivendicare una qualche forma
di partecipazione al potere e nonostante che l’Alberoni, appena arrivato in
Repubblica, avesse ricevuto proprio da quelle zone, attraverso i parroci, i
primi atti di dedizione.

I consiglieri nuovi, erano quasi
tutti ‘artigiano-mercadanti’, quindi più vicini, per ‘ceto’, al lolliano e
ricchissimo Vincenzo Belzoppi, che ai vecchi governanti, cioè ai nobili. Verso i
nobili certamente covavano del risentimento per essere stati impediti di entrare
in Consiglio, benché ci fossero tanti posti liberi.

Secondo l’Alberoni i consiglieri
nuovi avrebbero votato senza dubbio per la dedizione, non solo per riconoscenza
verso di lui, ma soprattutto perché il passaggio della Repubblica alla Santa
Sede si traduceva per essi in un vantaggio diretto ed immediato. Non solo. Si
sarebbero certamente scagliati contro i vecchi governanti nel caso che questi
avessero ripreso ad opporsi alla dedizione. E ciò per le ben note ragioni
locali, ma anche per la contrapposizione, ormai generalizzata e crescente nella
società del Settecento, fra famiglie emergenti e nobiltà.

L’Onofri invece era certo che
anche i consiglieri nuovi non avrebbero votato la dedizione. Essendo stati
scelti, pressoché tutti, in famiglie che risiedevano nell’abitato antico (Città,
Piagge e Borgo), appartenevano a quella parte della popolazione della Repubblica
in cui era più forte l’attaccamento alle tradizioni libertarie. E questo
attaccamento avrebbe finito per prevalere sul risentimento verso i vecchi
governanti sino a far fronte comune con loro pur di bloccare l’approvazione
della dedizione.

Che la stragrande maggioranza dei
consiglieri – quelli nuovi compresi – si sarebbe espressa contro la dedizione,
l’Alberoni lo apprese soltanto sabato 24, cioè alla vigilia della cerimonia del
giuramento, quando, in pratica fu lo stesso Onofri a rivelarglielo. Nello stesso
istante l’Onofri gli chiese di non andare avanti nella preparazione della
cerimonia, di non forzare le cose, di evitare la conta dei favorevoli e dei
contrari. Temeva che una sconfitta troppo umiliante avrebbe potuto innescare una
reazione pericolosa.

L’Alberoni reagì duramente
all’Onofri. Ma non si arrese. Cercò invece di porvi rimedio, quando apprese
dallo stesso Onofri il tranello in cui era precipitato per opera proprio di
quell’infame. Tuttavia ci provò. In tutta fretta, sabato sera e domenica mattina
(prima della cerimonia), fece eleggere i rappresentanti dei castra
subdita
e li fece partecipare alla cerimonia. Tuttavia ciò non bastò
a raddrizzare l’andamento della cerimonia. Seguì il saccheggio. Poi ci furono,
domenica sera, le ritrattazioni e quindi i giuramenti di sottomissione alla
Santa Sede dei “Protestanti” e, infine, lunedì, degli ‘irriducibili’.

 

Il Consiglio convocato per mercoledì

Le ritrattazioni ed i giuramenti
di domenica sera e di lunedì rassicurano l’Alberoni. Tanto che non esita a
riunire il Consiglio. E’ certo che ora il Consiglio voterà la dedizione. Quanto
avvenuto domenica in Pieve non potrà ripetersi. I contestatori ad uno ad uno con
un giuramento formale si sono fatti sudditi del papa. Come tali, adesso, sono
soggetti all’autorità del papa e quindi dello stesso Alberoni, Delegato
Apostolico, cioè alter ego del papa. Se osassero ripetere la chiassata di
domenica potrebbero essere accusati di ribellione e tradotti in carcere. Per i
ribelli c’è la forca. Non occorre forzare il diritto per farli salire sul
patibolo.

L’Alberoni dunque, incassato il
giuramento dei 10 consiglieri ex contestatori e notato che dai restanti non
stavano emergendo segnali negativi, non ha remore a convocare il Consiglio per
far deliberare l’agognata dedizione. Nell’occasione insedierà pure il
governatore, il primo governatore dell’ex libera terra del Titano, il dottore in
legge Gaspare Antonio Fogli, proveniente da Santarcangelo.

Il Consiglio è convocato però non
subito, non per martedì, ma per mercoledì. Anzi per mercoledì pomeriggio.
Nonostante che il cardinale abbia fretta di partire. Tanta fretta.

L’Alberoni ha avuto sempre fretta
in quella decina di giorni di permanenza sul Titano. Tutta la vicenda
sammarinese, per lui, ha costituito una enorme perdita di tempo: ha causato un
rallentamento nei lavori di Ravenna. Rallentamento che, a causa della
eccezionale piovosità di quell’autunno, avrebbe potuto finire per compromettere
l’intero progetto di deviazione del Ronco e del Montone, cui intendeva legare il
suo buon nome, riscattandolo dalla infelice conclusione dell’esperienza
spagnola.

Gli avevano fatto credere che
sarebbe bastato lo spazio di un week end a sistemare i sammarinesi. Invece le
cose si sono subito complicate. Fin dall’inizio. Addirittura prima dell’inizio,
per il mancato concorso della gente sui confini. Insomma l’Alberoni, il vecchio
Alberoni – settantacinque anni suonati! – ha dovuto fare tutto da solo. Fin dal
primo momento. Ed ha dovuto, fin dal primo momento, esporsi e rischiare in prima
persona. Nonostante tutto, ce l’ha fatta. Ha vinto. Ha vinto grazie all’abilità
e alla tenacia che sono proprie dell’uomo politico navigato, ma anche grazie
all’ardimento ed al gusto per la sfida che sono propri dei giovani, come ci
tiene a far sapere: “nell’affari grandi bisogna dare qualche cosa all’azzardo, e
tal volta molte cose non riescono al Uomo, poiché non ha il coraggio
d’intraprenderle”.

 

In attesa del Consiglio

L’Alberoni, fatto convocare il
Consiglio per mercoledì, adopera la giornata di martedì per sbrigare alcuni
impegni che perfezionano la acquisizione. Come avviene ogni volta che un luogo
passa sotto l’amministrazione diretta della Santa Sede, cioè diventa terra
immediate subiecta
, l’archivio pubblico viene ‘depredato’ a favore
dell’Archivio Segreto Vaticano. Però l’Alberoni non manderà da subito tutto
quanto a Roma. Con l’aiuto del Bianchi, nella settimana precedente, ha eseguito
una prima scrematura al fine di selezionare le prove storico-giuridiche
dell’alta sovranità della Santa Sede sul Titano e quindi della legittimità della
sua operazione, come atto interno allo Stato della Chiesa. Erano già stati
accantonati una ventina di pezzi fra “documenti, Pergamene e Libri”. Questi li
fa partire martedì con gran parte del suo bagaglio, alla volta di Rimini,
scortato da una trentina di soldati. Quanto al resto dell’archivio si saprà che
“tutte le scritture … furono riposte e sigillate in due casse”, pronte per
essere spedite a Roma successivamente.

Altra prassi consuetudinaria
nell’acquisizione di un luogo da parte della Santa Sede era la pronta
disseminazione di stemmi pontifici, in pietra, sulle porte e sugli edifici
pubblici. L’Alberoni non perde tempo – e danaro – negli stemmi. Si limita a
farne dipingere qualcuno qua e là sui muri. Per far sapere a tutti chi è, d’ora
in avanti, il padrone del luogo, ha trovato un modo più efficace: collocarne
l’effigie nelle sede del governo: il Palazzo Pubblico. Martedì sale
appositamente “coi … Tiranni” a Palazzo e assieme a loro decide dove mettervi
un busto del papa: sotto la “Loggia”. Successivamente una lapide, illustrando i
fatti, celebrerà pure i meriti del papa e dello stesso Alberoni nei confronti
del luogo, per averne assecondato la richiesta di dedizione alla Santa
Sede.

Ormai non resta che accingersi
all’ultimo atto: appunto quello della formalizzazione della dedizione spontanea.

 

A ridosso del Consiglio

Mercoledì 28, giorno stabilito per
la riunione del Consiglio, racconta un anonimo cronista filo-alberoniano, “verso
le 16. [cioè le 9,30 circa] sopra un carro tirato da quattro paia di Boi
giunsero due grandi Casse con dentro una bellissima statua di Nostro Signore
felicemente regnante fatta di marmo bianco da eccellente Scalpello, colla quale
non poteva più al vivo, et al naturale scolpirsi dal Professore il Sommo
Pontefice suddetto come si espresse S. E. che si portò a vederla”.

Sua Eccellenza Alberoni non è
ovviamente l’unico a recarsi a vedere “la statua”. In un paese senza prìncipi e
senza casati di grande ricchezza, quell’ingresso calamita l’attenzione della
gente. Se non altro per il traino. Il numero dei buoi è sproporzionato al
carico. Ne sarebbe bastato un paio. Evidentemente il traino è stato rapportato
non al peso della statua, ma a quello dell’autorità che rappresenta, il papa. In
tanti si saranno accodati e saranno saliti, per vedere il papa, sino a Palazzo e
avranno paragonato le sue delicate fattezze di marmo, opera di un artista
romano, a quelle del Santo, in Pieve, abbozzate nel “sasso” dalle mani di uno
“scarpellino”.

Certamente, quel mercoledì, sono
passati – forzatamente – davanti al papa i consiglieri quando “dopo pranso” si
portarono a Palazzo per la seduta consiliare. Fra questi l’Onofri. L’Alberoni
aveva informato Roma di aver deciso di far venire su da Rimini quella statua
sabato 24, cioè lo stesso giorno in cui l’Onofri uscì allo scoperto e cominciò
ad insinuare pubblicamente che non era intenzione e volontà del papa annettere
la Repubblica allo Stato della Chiesa, se i sammarinesi stessi non l’avessero
chiesto.

Lo sconcerto dell’Alberoni quel
giorno fu veramente grande. Sentì il bisogno di sfogarsi. Lo fece col Firrao,
raccontandogli, in una lunga lettera confidenziale, dei suoi rapporti con
l’Onofri: “siccome questi sin dal primo giorno del mio arrivo quassù, mi fu
descritto per uomo assai destro, quale avea sempre saputo navigar in due acque,
mi parve perciò di poter credere, ch’egli potesse aspirare a farsi merito presso
la Santa Sede: onde l’ho distinto sempre con molta onestà, e l’ho ricercato
d’alcune notizie, e me ne sono servito per esaminare i Privilegi del Luogo”. Ma
l’Onofri non ricambiò: “quando mi lusingavo di trovare in lui quei sentimenti di
saviezza, che dimostrava, l’ho … scoperto più perfido degl’altri Tiranni di
lui Compagni”.

Sabato 24, insomma, l’Alberoni, a
una settimana dal suo arrivo, si accorse della vera tempra dell’Onofri. E’
“giunta tant’oltre la sua cecità – raccontò l’Alberoni al Firrao – da farmi
proporre di assumere io stesso l’impegno di restituire al Paese l’antica
libertà, con promessa di soggettarsi a quelle Leggi che da me gli si
imponessero”. L’impudente arrivò al punto di dirgli in faccia “con espressa
dichiarazione che rispetto a Roma [i sammarinesi] anno qui tanto in mano da non
temere” alcunché. E che invece lui, l’Alberoni, avrebbe dovuto preoccuparsi.
Insomma – raccontò l’Alberoni quasi incredulo alle proprie orecchie – avrei
dovuto io piuttosto guardarmi da Roma, dal papa, avrei dovuto temere io il papa:
per “l’incorrere della mia disgrazia: espressione questa, che per verità mi
sorprende”.

 Tuttavia, l’Alberoni, pur
sorpreso da quanto l’Onofri gli andava propalando, non dette spazio dentro di sé
al sospetto che Roma lo avesse tradito per preferirgli quei quattro montanari.
Egli si era mosso da Ravenna per salire sul Titano non certo di testa sua, ma a
seguito di un ordine papale scritto, ufficiale e solenne, un breve, e nella
veste della autorità massima, quella del Delegato Apostolico. Avvertì il Firrao
che, nonostante lo sconcerto provocato dall’Onofri, il programma per l’indomani
non sarebbe stato modificato: “non di meno farò domattina la funzione di
assistere alla solenne messa nella Chiesa matrice, e ricevere il pubblico
solenne giuramento”. E per dimostrare ai sammarinesi che quanto andava
cianciando l’Onofri, circa un contrasto fra lui e il papa, era completamente
privo di fondamento, nulla di meglio che affrettarsi a far venire il papa
stesso, sia pure in effigie, sul Titano. Un busto, riminese, di Clemente XII
faceva alla bisogna.

L’Alberoni chiese l’autorizzazione
a Roma per portare su quella statua da Rimini. Ma non aspettò la risposta. Non
poteva aspettare. Aveva fretta. La fretta crebbe ulteriormente domenica quando
egli vide l’Onofri ribadire con sfrontata improntitudine, pubblicamente, la
fandonia del contrasto fra lui e il papa. Condotta una veloce trattativa con le
autorità di Rimini, che vollero essere assicurate circa il rimborso del costo
della statua, ne ordinò il trasporto. Mercoledì, quando ancora faceva buio, il
corteo mosse alla volta del Titano.

 

‘Arriva’ il papa. Arriva il governatore

Il Consiglio dunque ha luogo
mercoledì 28 ottobre lo stesso giorno dell’’arrivo’ del papa. Il papa era
entrato nel territorio della Repubblica prima delle 7, col sorgere del sole. Un
ingresso maestoso.

Ora nessuno potrà dire che il papa
non è d’accordo: è venuto lui stesso sul Titano a prenderne possesso, sia pure
in effigie. Ed, in carne ed ossa, a rappresentare l’autorità del papa, come è
usuale nelle terrae immediate subiectae, c’è il governatore, il dr. Fogli
di Santarcangelo.

Già perché l’Alberoni, ancor prima
che il Consiglio si pronunci sulla dedizione, non solo fa portare la statua del
papa a Palazzo, ma nomina anche il governatore. Anzi lo fa entrare subito in
carica. Subito, cioè ancor prima che si riunisca il Consiglio. Il diritto – ed
il buon senso – vorrebbe che solo dopo che il Consiglio si fosse riunito, e solo
dopo che avesse votato la dedizione, il governatore entrasse in carica. Invece
l’Alberoni manda subito il governatore in Consiglio, prima che il Consiglio voti
la dedizione: lo manda a presiedere il Consiglio che deve votare la dedizione.

E’ dunque il dr. Fogli, quel
mercoledì 28 ottobre, a regolare i lavori del Consiglio che deve esprimersi
sulla dedizione della Repubblica alla Santa Sede. A dar man forte al neo
governatore c’è il papa, sia pure al piano di sotto, sia pure bloccato nelle sue
fattezze di marmo.

Ma, soprattutto, a dar man forte
al dr. Fogli c’è lui. Lui in carne ed ossa. Lui, il grande, temibile Alberoni. E
lui si è sistemato lì accanto, in una stanzetta adiacente alla stessa sala del
Consiglio. E fuori, nel paese, ci sono ancora i suoi soldati. E gli ospiti se ne
sono andati. Nel caso che egli debba alzare la voce, mostrare i muscoli, dare a
qualcuno una sberla se alza la testa, questa volta non ci sarebbero tra i piedi,
come è avvenuto domenica, ingombranti testimoni esterni. E se ad alzare la testa
fosse uno di quelli che si sono già dichiarati con formale giuramento di
sottomissione sudditi della Santa Sede, potrebbe procedere, a termini di
diritto, con la forza della giustizia.

E’ noto in tutta la Romagna il
rigore con cui l’Alberoni amministra la giustizia. Egli è molto amico della
Serenissima Repubblica di Venezia. Di quando in quando ravviva tale sua
personale amicizia con qualche spedizione di rematori, non proprio volontari,
per le navi di pattuglia contro i Turchi.

 

Lo svolgimento della seduta del Consiglio

 Della riunione del Consiglio
l’Alberoni, quello stesso giorno, fornisce questo resoconto: “… il Consiglio
Generale … oggi ha installato il Governatore da me eletto, ed in nome di tutta
la Città di San Marino e suoi annessi, ha riconosciuto per Signore e Sovrano il
Papa, e me lo ha partecipato con Lettera sottoscritta dal Confaloniere e
Conservatori, scritta e parimenti sottoscritta dal Segretario del Pubblico”.

Il Consiglio dunque non approva
una mozione ma scrive una lettera. O meglio, rilascia una delega a scrivere una
lettera.

Anche la lettera non ha avuto un
cammino facile. Di fronte alla richiesta di “rassegnare nuovamente l’ubidienza e
vassallaggio al Sommo Pontefice ed implorare la conferma degli antichi privilegi
e la concessione di qualche nuovo … [presentata dal] Signor Angeli,
Confaloniere, … sentiti sopra di ciò li sentimenti, e aringhi de’ Consiglieri
secondo il costume, eccettuatine li Signori Loli, Belzoppi, e Giuliano Ceccoli,
gli altri furono di sentimento si soprasedesse dallo scrivere al Papa detta
lettera … Stante la qual contrarietà dei pareri della maggior parte de’
Consiglieri, il Signor Governatore stimò espediente di non far ballottare la
proposta”.

Insomma no su tutta la linea: no a
una mozione, no a una lettera indirizzata al papa firmata dai consiglieri. Ed i
no sono così netti e largamente condivisi, che al buon Fogli non resta che
ritirare una dopo l’altra le due proposte, tanto era evidente che sarebbero
state respinte.

Diversamente da domenica, però,
questa volta le due parti non si irrigidiscono, non rompono. Entrambe hanno
interesse a non rompere, a trovare un punto d’accordo, che sia, per ciascuno,
non troppo umiliante e non troppo vincolante. L’Alberoni non può lasciare il
Titano senza avere qualcosa in mano che parli di dedizione a livello di
Consiglio. Ed i sammarinesi, che non desiderano certo trattenerlo, si
arrabattano alla ricerca di un ”ripiego per non fare quest’atto di …
sommissione di tutto il Corpo del consiglio, ed esimersi con una aperta negativa
da ulteriori violenze”.

La trattativa riprende sulla forma
del documento. Torna in ballo la proposta della lettera. Si finisce per trovare
l’accordo proprio sulla lettera. Ma su basi nuove. Cambia il destinatario: non
più il papa, ma lo stesso Alberoni, nella qualità di Delegato Apostolico (e non
di Legato di Romagna). Cambiano i firmatari: non i singoli consiglieri, ma il
Gonfaloniere ed i due Conservatori, cioè le autorità di governo (governo
nominato dallo stesso Alberoni, come dire un governo imposto, quindi
illegittimo, un governo fantoccio).

Terminata la trattativa sulla
forma del documento, si passa al contenuto. Già perché la delega a firmare
rilasciata ai rappresentanti del nuovo governo, non è in bianco. Il contenuto
pure, come già la forma, del documento, deve scaturire da una trattativa.

Sul contenuto del documento
l’Alberoni è ancor meno disposto che sulla forma a scendere a compromessi. Più
volte gli intermediari devono fare la spola fra la sala del Consiglio e la sua
stanza. A più riprese interviene egli stesso sul testo apportandovi correzioni
anche di proprio pugno. Alla fine viene fuori uno scritto che non è certo un
capolavoro. Soprattutto riguardo alla chiarezza. Si ha motivo di ritenere che,
da un certo momento in poi, gli estensori materiali del tormentato documento,
stanchi dell’andirivieni, abbiano finito per accantonare ogni preoccupazione
circa la leggibilità e la coerenza dello scritto, pur di fornire ad entrambe le
parti l’appiglio per cavarsela in modo dignitoso e porre così fine ad una
impasse che, oltre
ad ingenerare imbarazzo, avrebbe potuto innescare una situazione di pericolo. Il
riconoscimento, da parte dei sammarinesi, della sovranità della Santa Sede, che
doveva costituire il punto nodale del documento, è tutt’altro che evidente ed
esplicito. Quasi non c’è. Si parla sì della richiesta da parte del “Magistrato”
di esaminare un atto di “Vassallaggio”, ma poi sembra prevalere la
rivendicazione da parte dei sammarinesi di un rapporto diretto col papa, col
quale, fra l’altro, discutere di privilegi.

 

Ancora i privilegi

L’argomento dei privilegi attorno
a cui ruota gran parte della lettera era stato introdotto all’inizio della
seduta dal governatore e doveva costituire, come già in occasione della
cerimonia di domenica, il punto di forza dell’Alberoni per far passare la
dedizione.

A ridosso della riunione del
Consiglio, quello stesso mercoledì, l’Alberoni aveva promulgato un altisonante
decreto contenente la lista dei privilegi pubblicizzata già sabato 24 con
l’affissione di manifesti in tutto il territorio della Repubblica. I privilegi
in questione sono oggettivamente eccezionali. Tanto da andare oltre al limite
fissato da Roma. Roma aveva stabilito: che i nuovi privilegi “non ridondino in
danno, e pregiudizio degli altri sudditi dello Stato Ecclesiastico”. Insomma non
si voleva che attorno a San Marino emergessero reclami, proteste.

I ‘normali’ sudditi che abitano al
di là dei brevi confini della Repubblica, di fronte a tanta manna non stanno
zitti. Il Bianchi, da Rimini, noterà che “San Marino per l’innanzi [è] non più
Terra ma Città”. A Talamello invece si faranno ben altre considerazioni. A
Talamello, recentemente, forse proprio su intervento del card. Alberoni, era
stata tolta “la libertà di … battere la polvere” da sparo, che era per loro
una importante fonte di reddito, ma non erano stati ridotti, in parallelo, i
gravami fiscali. La “povera Comunità [non] potrà resistere al pagamento di tante
contribuzioni”. Quei poveri abitanti “non s’anno a che partito appendersi
vedendosi per così dire abbandonati”. Eppure loro – ecco il punto – sono sempre
stati buoni e fedeli sudditi, non hanno mancato mai di rispetto nè verso il papa
nè verso il card. Alberoni. Ben altro il comportamento dei sammarinesi. I
sammarinesi nei confronti dell’Alberoni “già s’erano esibiti pronti alla di lui
venuta di prestare il giuramento e poi li mancarono”. Ebbene non solo non
vengono puniti, ma “con tutto ciò si è veduta la confirmazione dei loro
privilegi col accrescimento”. Addirittura, dallo stesso Alberoni, sono stati a
loro “confermati tutti li … Privilegi di far polvere e tabacco, ed altri
contrabandi di merci come godevano per il passato” sino, addirittura, a “levarli
il Fisco.” E tutto questo “abbenché esso Porporato fosse per così dire stato
riscontrato da questi Signori”. Insomma, secondo gli abitanti di Talamello,
nello Stato della Chiesa, peggio ci si comporta e meglio si è trattati.

I sammarinesi, contrariamente alle
aspettative dell’Alberoni, alle certezze del Bianchi ed alle convinzioni di quei
di Talamello, non accettano di scambiare i privilegi con la libertà. Ancora una
volta i consiglieri, nella stragrande maggioranza, si pronunciano contro la
dedizione della Repubblica alla Santa Sede. Benché ciascuno di essi debba la
carica proprio all’Alberoni: o per conferma o per nomina ex novo.

 

Il Consiglio bestia nera per l’Alberoni

 Il Consiglio, pur essendo una
creatura dell’Alberoni, si rivela tutt’altro che docile ai suoi voleri. Messo
alla prova gli si rivolta contro. E proprio quando è chiamato a pronunciarsi
sulla questione fondamentale, quella per la quale è stato appositamente
‘costruito’: la dedizione della Repubblica alla Santa Sede.

Un atto di dedizione della
Repubblica alla Santa Sede votato dal Consiglio, avrebbe messo fine ad ogni
eventuale dubbio circa la spontaneità, avrebbe ridotto la gravità dell’impiego
dei soldati ed annullato l’azione dei sammarinesi di Roma presso il papa e
presso i rappresentanti delle corti estere.

L’abate Zampini da Roma sprona i
concittadini del Titano a resistere: che “stieno forti e non si pregiudichino”.
Teme proprio che ceda il Consiglio, come si evince da una lettera all’uditore
Gian Benedetto Belluzzi, a Bologna. La lettera è spedita il 28 ottobre e si
conclude con un invito allo stesso Belluzzi: se anche lei “colà si portasse in
tempo di Consiglio, non sarebbe che bene”.

Ovviamente lo Zampini non sa che
proprio in quello stesso giorno il Consiglio è riunito sul Titano. Come,
evidentemente, non sa che il Belluzzi ha perso il suo seggio dentro il
Consiglio, per cui quel viaggio sarebbe stato inutile.

I sammarinesi del Titano trovano
comunque la forza di respingere la proposta della dedizione, anche senza la
presenza fisica accanto a loro del Belluzzi, e nonostante gli allettamenti
dell’Alberoni e nonostante che l’Alberoni sia ancora lì, lì coi suoi soldati.

 

 La partenza
dell’Alberoni

Giovedì mattina 29 ottobre
l’Alberoni lascia prestissimo, sul far del giorno, il Titano per rientrare a
Ravenna, salutato dalla Rocca con spari, a salve, di mortaretto. In tasca ha
“gli Instrumenti del Possesso, altri che contengono il nuovo giuramento dato da
Protestanti, e la lettera scritta d’ordine del consiglio”, ma non ha un vero
atto di dedizione attestante la volontà della Repubblica di San Marino di
sottomettersi spontaneamente alla Santa Sede. Oltre ai colpi di mortaretto – di
significato equivoco – l’Alberoni non riceve altre forme di commiato. Non c’è
nessuno davanti Palazzo Valloni o per il paese. I vertici governativi erano
andati la sera prima ad “augurarli il buon viaggio”, dato che avevano saputo che
sarebbe partito all’indomani molto presto.

L’Alberoni se ne andò praticamente
solo: “calò appiedi in Borgo, dove trattenutosi per circa mezz’ora, salito indi
nel suo Carozzino col seguito di tutta la sua famiglia, e di alcuni Sig.i
Sammarinesi si pose in viaggio per la volta di Rimino”. Fece sosta a Serravalle.
“Nell’avvicinarsi l’E.S. al Castello di Seravalle, si cominciò a sentire il
suono delle Campane, e giunto nel Castello medesimo si vidde ivi radunato tutto
il Popolo di detto luogo, e suo Territorio, che gli fece ala nell’ingresso, per
il che S.E. fece alquanto fermare il Carozzino, dimostrandone gradimento, e nel
rimettersi in Viaggio, si sentirono alte voci si d’Uomini, che di Donne e
Ragazzi, che più e replicate volte gridarono: Eviva il Papa e Viva l’Emo
Alberoni.!”

I soldati partono con l’Alberoni.
Non rimangono sul Titano che 6 sbirri, una inezia rispetto ai 50 uomini che,
secondo quanto il cardinale aveva scritto nella lettera al Firrao di sabato 24,
avrebbero dovuto costituire, di qui in avanti, un presidio militare fisso per
tenere sotto controllo il paese. Il paese sembra pacificato. L’Alberoni crede o
vuol far credere a Roma che i sammarinesi siano ormai rassegnati: “Per ridurli a
questo segno mi sono trovato in più di una agitazione, e fra quante ho provato
nel corso della mia vita, che non sono state poche, e grandi, questa non è stata
inferiore d’ogn’altra”.

 

Uno scontro a tutto campo

In effetti l’Alberoni si è dovuto
impegnare non poco per vincere la partita. Ha dovuto far uso anche di mezzi poco
nobili. I sammarinesi non sono stati da meno.

Correrà a lungo sul Titano la voce
che, assieme agli sbirri, l’Alberoni, per rabbonire i sammarinesi, abbia fatto
venir su da Ravenna anche il boia di cui colà si serviva per amministrare la
giustizia. D’altra parte i sammarinesi pare che gli abbiano fatto sapere, appena
arrivato – a mo’ di benvenuto – di stare attento a quel che beveva e mangiava.
Così che egli, prima di occuparsi di altro, appena arrivato a Palazzo Valloni,
ha dovuto ordinare a Ravenna un prosciutto e dei salumi, cioè cibi a lunga
conservazione, e pregare che glieli mandassero quanto prima, assieme al cuoco.

 Poi c’è l’uso disinvolto del
danaro. Un sammarinese ha scritto che “le voci d’Eviva” a Serravalle, al suo
arrivo in Repubblica, erano state “sol proferite da due, o tre Mendichi, a quali
… fu sparso del danaro”. L’Alberoni ribatterà, parlando di se stesso in terza
persona: “lo avrà costui forse sognato cotesto danaro, perché ogni maluomo
immagina facilmente anche sognando ciò, a che lo porta l’ingordo suo appetito,
ma il Cardinal Alberoni ispirato da Dio ebbe per tentazione il pensiere, che gli
era venuto di farlo, e se ne astenne affatto, e ne meno un quattrino fe’ dare
per limosina ad un mendico”. Insomma: “Il Sig. Cardinal Alberoni eseguite, e
condotte le incombenze da Nostro Signore a lui appoggiate, e ben consapevole
della Sovrana intenzione Pontificia, ch’era non solo di non usar violenza, ma ne
meno arte per guadagnare il Popolo minuto, ha saputo schivarne qualunque
occasione, fino a guardarsi di spargere ne pure denaro alla Plebe, come pur si
suole, ed è proprio farsi in simil circostanze, avendo voluto che gli evviva de’
Popoli tutti sieno Figli di quella libera spontanea dedizione, con cui si sono
nella maniera descritta renduti liberamente alla S. Sede Soggetti”.

In effetti il cardinale “per
guadagnare il Popolo minuto” non ha
esitato a “spargere … danaro”, come del resto aveva messo in programma ancor
prima di partire. Di danaro, danaro spicciolo, ne è certamente corso anche in
vista della cerimonia di domenica. O almeno ne è stato fatto arrivare da
Ravenna, alla vigilia, un bel “rottolino sigillato con i mezzi paoli”.

E non è corso solo danaro
spicciolo quando l’Alberoni si trovava sul Titano. Fra i personaggi che sempre
sono rimasti al suo fianco dal primo momento all’ultimo, come un maggiordomo (un
“Maestro di Casa”), c’è “Il Sig. Bonamici Banchiere di Rimini”. Dirà l’Alberoni
al Firrao: Bonamici “m’ha assistito in questo grandissimo imbroglio [sic] con la
sua persona e borsa”.

Al termine della vicenda
l’Alberoni chiederà al Firrao di “far sapere a Mons. Bolognetti Tesoriere
Generale che dia gli ordini necessari alla Tesoreria di Ravenna di pagar questa
soma di spese fatte che dal detto Bonamici mi verrà presentata”. Insomma
l’Alberoni vuole che Roma autorizzi a pagare il Bonamici sulla base di una lista
di spese che … lui, solo lui, Alberoni, vedrà!

Un trattamento particolare
l’Alberoni lo ha riservato ai parroci. Ha distribuito ad essi certamente del
danaro. Almeno alla partenza. Quanto a quello di Serravalle c’è di più. Oltre a
nominarlo arciprete come promesso, lo fece suo “Familiare”. L’essere “Familiare
di un Cardinale” comporta automaticamente, all’interno della Stato della Chiesa,
in base alle “Costituzioni Apostoliche”, una serie di “grazie, privilegi ed
esenzioni”.

 

A Ravenna la sorpresa: una
“sassata”.

Come l’Alberoni arriva a Ravenna,
trova la sorpresa: apprende dalle lettere del Firrao, partite da Roma il 24, che
il papa non è disposto ad accettare la dedizione della Repubblica di San Marino
alla Santa Sede: ci sono dubbi sulla spontaneità.

Per il vecchio cardinale è “una
sassata”.

L’Alberoni rimane sconcertato e
“afflittissimo”. Egli non ha mai avuto alcun motivo particolare, personale per
scontrarsi coi sammarinesi. Sale controvoglia sul Titano. Costretto. Ricattato.
Ci “và – dirà lui stesso – per ubbidire alla volontà Pontificia dal solo suo
coraggio assistito in un’età di 76 anni, dopo d’aver molto temporeggiato, e
contro anche l’ondeggiamento della propria inclinazione: non gli fan breccia
fatiche, strapazzi, e pericoli: tutto sprezza, tutto pospone a quel debito, che
alla S. Sede egli professa”. Ebbene “al suo ritorno in vece di raccogliere dalle
Lettere di Segreteria di Stato il clementissimo gradimento del Papa, si vede
apprestato alle labbra un’amarissimo Calice, come si è quello di sentirsi
favellari di una cosa, che tende allo scioglimento di tutto l’operato con
disdoro della medesima S. Sede, del Ministero, e col sagrificio del proprio
onore”.

Ancora non ha finito di spedire a
Roma tutti i documenti attestanti la spontaneità della sottomissione, ancora non
ha avuto modo di stendere la relazione finale con cui dimostrerà, sul piano
storico-giuridico, la legittimità della riacquisizione, che già a Roma è stato
deciso di ‘sciogliere tutto’ senza nemmeno ascoltare il suo parere, senza
nemmeno informarlo preventivamente. La prima reazione è di sconforto: “con sommo
mio dolore di cui confesso di non aver provato giammai nelle vicende di questo
mondo…. rilevo che la mia condotta tenuta nell’affare di S. Marino…
vien’appresa tutta differentemente”.

Meraviglia che l’Alberoni non
rimproveri al Firrao di non averlo informato subito, per via celere, del
cambiamento di linea politica appena questo cambiamento era stato deciso nella
Curia Romana. Se gliene fosse arrivata notizia – come sarebbe stato possibile
per staffetta – direttamente sul Titano, probabilmente avrebbe potuto trovare il
modo di adeguare alla nuova situazione la sua strategia, e precorrere, forse, la
contestazione pubblica in Pieve o comunque almeno conoscere il fondamento di
cotanta protervia. Avrebbe meglio fronteggiato la sicumera di cui,
nell’occasione, i “Tirannetti” fecero sfoggio. Avrebbe, forse, addirittura
compiuto il beau geste di restituire lui ai sammarinesi la libertà,
magari chiamando l’Onofri, fingendo di accogliere il suo consiglio.

In effetti le comunicazioni fra il
Delegato Apostolico e il Segretario di Stato, nel periodo 17-29 ottobre, cioè
per tutto il tempo in cui l’Al

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