(TRIM, ANNO VI, nn. 19-21, dicembre 1992)
Si è
parlato di questi argomenti presso il Circolo della SUMS nel marzo scorso, in
una delle serate dedicate alla storia sammarinese. Sono stati proposti come
esempio di temi che, rispetto alla storiografia corrente, possono acquistare
nuovo rilievo in una rilettura della storia meno tradizionale.
E’ d’obbligo
una premessa sul punto di vista dal quale si è scelto di guardare la storia.
Nella vita
di un popolo, anche di una piccola comunità, ci sono tanti episodi, fatti,
avvenimenti. Per ragionarci su, cioè per fare storia, occorre organizzarli,
attribuire a ciascuno di essi un peso, valutarli secondo dei criteri. In
sostanza occorre scegliere una chiave di lettura, per sistemarli razionalmente
in uno schema.
Per secoli a
San Marino si è fatto storia così: privilegiando gli avvenimenti che potevano
indurre a pensare che San Marino è da sempre indipendente, da sempre libero, da
sempre sovrano.
Agli inizi
di questo secolo, qualcuno comincia a mettere in discussione quel modo di
fare storia. E si comincia ad affermare piuttosto che San Marino è, sì, ora,
indipendente, libero e sovrano, ma che questa condizione è il risultato di una
conquista, il frutto di uno sforzo plurisecolare.
Il dibattito
si fa acceso, diventa polemica, poi, come spesso accade, sterile battibecco.
Vi pone fine
(o dovrebbe avervi posto fine) l’Aebischer, il quale sposta i termini della
questione. Dice: partiamo dal risultato. Il risultato è che San Marino oggi
esiste come “realtà politica accettata e rispettata” (e noi aggiungeremo,
“riconosciuta”). Smettiamo di accapigliarci sul “da quando”, fissiamo
l’attenzione sul “come”.
La questione
potrebbe essere impostata così.
San Marino, ora,
alle soglie del Duemila, è certamente uno stato libero, sovrano ed
indipendente: questa condizione è il frutto di un ideale di libertà – nemini
teneri, letteralmente “non dipendere da nessuno” -, concepito da un pugno di
uomini, qui, su questo monte, nei primi secoli del Medioevo cristiano. Fare
storia, allora, consiste nella individuazione dei fatti che uno dopo l’altro
hanno portato alla realizzazione di quell’ideale, alla concretizzazione
dell’utopia.
Scelto il
punto di vista, la storia va rivisitata di conseguenza. Rivisitando la storia,
può avvenire che temi considerati, in precedenza, cruciali sfumino in una
funzione meno essenziale, mentre altri, elencati nell’ordinarietà della
cronologia, siano utilizzati come testate d’angolo.
Vediamo assieme,
a mo’ di esempio, alcuni di questi temi che acquistano un rilievo nuovo,
cambiando il punto di vista.
***
Cominciamo col
MITO DI SAN MARINO. Per mito di San Marino si intende (non la leggenda del
Santo) l’immagine che di questo paese ha cominciato a circolare in Italia, in
Europa, nel mondo a partire, grosso modo, dal Seicento.
Spostiamoci
proprio nel Seicento. Diciamo, per fissare le idee, verso il 1630. I papi ce
l’hanno fatta a consolidare il loro stato. Sono sparite le grandi famiglie dei
signori, che hanno dominato a lungo su estese fette di territorio dello Stato
Pontificio, sino a costituire, talvolta, staterelli semiindipendenti quando il
potere papale era più debole. Spariti anche Malatesta e Montefeltro. Svuotati
quei loro bei palazzi, ristagnerà per secoli, qui attorno e un po’ in tutti i
domini della Chiesa, un’atmosfera di stanca sopravvivenza.
San Marino
è, dentro lo Stato della Chiesa, una municipalità o poco più; è, praticamente,
una piccola autonomia amministrativa; è un paesino come tanti abbarbicati ancora
ai monti come nel Medioevo: nella miseria di una economia ormai in sfacelo,
adesso che il mondo non ha più nel Mediterraneo il suo centro.
San Marino
non ha difese, non ne ha più: a che servono, ora, i muretti larghi meno di un
metro o le balestre di fronte agli schioppi, alle bombarde?
San Marino è
senza protettori: non c’è più il Ducato d’Urbino (Urbino ha protetto San Marino
per più di quattrocento anni).
Ostinatamente, però, San Marino continua a chiamarsi respubblica, come quando
qui attorno, era un pullulare di staterelli semiindipendenti, e su ogni angolo
di muro o architrave di porta c’era scritto libertas.
Ormai quelle
scritte, attorno a San Marino, sono finite sotto i rovi o la polvere degli
archivi. Qui no. Qui, invece, vengono mantenute lucide, assurdamente,
testardamente lucide ed in vista.
Anche se,
ormai, appaiono decisamente patetiche.
San Marino,
infatti, è in balia di Roma, in completa balia di Roma. Se Roma cambia idea,
cioè decide di farla finita, chi si accorge? Al massimo le grida dei sammarinesi
arriverebbero a Rimini, a Cesena comunque non supererebbero i confini dello
Stato Pontificio. Ed anche se li superassero, chi interverrebbe in loro aiuto?
Spostiamoci
più avanti di un secolo. Saltiamo al 1730. E’ cambiato qualcosa? All’apparenza
niente. I rapporti con Roma non sono né migliorati né peggiorati: sono rimasti
congelati. Di contatti con l’esterno dello Stato della Chiesa, nemmeno
parlarne. Roma non l’avrebbe permesso.
Se si
esamina dunque la storia coi soliti criteri, con la logica delle battaglie, dei
trattati, delle sopraffazioni… si conclude che non è cambiato nulla. Se si
adoperano strumenti più fini che tengono conto anche di ciò che avviene nel
mondo delle idee, ci si accorge che un cambiamento c’è stato, enorme,
importantissimo per la nostra comunità. San Marino, ora, ha la più solida
delle difese, può contare, ora, sulla più sicura delle protezioni.
Cosa è
successo?
Ritorniamo al
Seicento. Il Seicento è il secolo della controriforma, dello spagnolismo, degli
assolutismi. In Italia, in Europa, nel mondo, ovunque, duchi e granduchi,
principi e marchesi, baroni, re ed imperatori; dappertutto la cappa
dell’oppressione e dell’assolutismo: un po’ di chiarore in Olanda, appena un
barlume verso Venezia. Per il resto buio fondo.
A Venezia è
arrivata la notizia, portata dal Bembo, a metà del Cinquecento (il Bembo è uno
scrittore importante nella letteratura italiana), che: su un cucuzzolo
dell’Appennino, dentro lo Stato della Chiesa, c’è “una comunanza d’huomini
montani, che la repubblica amministrano, né servono ad alcuno”.
Quel ‘repubblica’
è parola magica.
Agli inizi del
Seicento un paio di scrittori (Boccalini, Zuccolo) – gli scrittori sono i
giornalisti dell’epoca – riprendono la notizia, in polemica contro lo
spagnolismo. La colorano di libertà e democrazia. La gonfiano fino al mito
della “città felice”. Matteo Valli, un sammarinese, dà il tocco finale: con
sapiente astuzia, la riveste di realismo.
La notizia ha gli
ingredienti giusti del successo: esplode, in quel mondo dominato dagli
assolutismi. Supera le Alpi, si diffonde in Francia, in Europa. Dall’Olanda è
rilanciata assieme ad una veduta, la stampa del Blaeu che ne rafforza
l’interesse e la credibilità.
Qualcuno,
incuriosito, verrà a vedere. Più tardi, ai primi del Settecento, quando è di
moda discendere la penisola per visitare i resti delle antiche civiltà e
descrivere poi quei viaggi. L’Addison, scrittore inglese, devia dai percorsi più
battuti (ed anche più descritti), sale fin quassù alla ricerca non delle solite
cose: monumenti, documenti, testimonianze relative a un uomo importante della
civiltà o a un episodio importante della storia. Punta a qualcosa di diverso,
di eccezionale, di mai visto, insomma a uno scoop: cerca addirittura una
scintilla dell’antica libertà.
E la trova.
La trova davvero, quassù, una scintilla della antica libertà: non in un
museo, ovviamente, perchè la libertà non è un cimelio; non in un archivio,
perchè la libertà non è una pergamena. La trova – la libertà è una idea – dove
stanno le idee: incarnita nei cuori e nelle menti della gente, fusa coi
sentimenti della fede. Il Santo, egli nota, è al centro dell’Altare Maggiore:
chi offende il Santo è punito alla pari di chi bestemmia Dio.
Ne parla e ne
scrive. Il mito di San Marino si consolida. Dai circoli radical-chic della
cultura, si diffonde fra la gente. Penetra nelle cancellerie dei governi.
E’ fatta.
Quella accorta operazione di immagine – per dirla in linguaggio moderno – ha
raggiunto l’obiettivo: d’ora in avanti c’è l’Europa, il mondo a vigilare su San
Marino.
Prima
verifica, nel 1739: quando, veramente, lo Stato della Chiesa dice basta ed
affida l’operazione all’Alberoni. Le grida dei Sammarinesi si sentono fino a
Roma: di lì le ambasciate le rilanciano ai governi di tutto il mondo. I governi
intervengono. San Marino riacquista la sua autonomia.
Non solo.
L’insuccesso dell’Alberoni si traduce in un colpo di fortuna per San Marino.
Infatti, quel chiasso rafforza il mito, centuplica la simpatia per San Marino:
il pesce grosso ha tentato di mangiare il piccolo, ma, soprattutto,
l’oscurantismo clericale ha tentato di soffocare una democrazia. Così che il
mito di San Marino acquista adesso una precisa colorazione politica, da
avanguardia. Il mondo si prepara alle rivoluzioni: un San Marino già repubblica,
sembra aver anticipato quelle rivoluzioni.
Napoleone ne
è la riprova. Napoleone rispetta questa libertà, una libertà medioevale, e la
addita, addirittura, a modello per le libertà moderne.
Conclusione. Il
mito, visto nello sviluppo storico della comunità, è tema cruciale. Non è,
certamente, tema nuovo. E’ stato trattato come tema culturale ed analizzato
per l’aspetto letterario o della filosofia politica.
Ma assai meno o
affatto per la valenza politica sulla storia sammarinese, in riferimento, ad
esempio, alla formazione della personalità internazionale o dei primi
riconoscimenti di sovranità.
***
Altro tema,
a mio avviso, meritevole di particolare attenzione, è l’apporto di NAPOLEONE
III, imperatore di Francia, durante il Risorgimento italiano, cioè nel
delicato momento della unificazione della penisola in uno stato unitario e
nazionale.
Napoleone III è
un grandissimo protettore di San Marino. Protegge San Marino da subito, appena
al potere, e lo proteggerà in ogni circostanza. Lo fa per due ragioni
concomitanti: una tradizione nazionale (dal Seicento la Francia ha un debole per
San Marino) ed una tradizione, diciamo così, familiare (non vuol essere da meno
di suo zio, anche in questo).
Ebbene. Di
Napoleone III si cita spesso l’episodio del 1854, quando egli bloccò, sul
nascere, il progetto del Granduca di Toscana di invadere San Marino, “un covo di
sovversivi”. O si ricordano l’amicizia e le attestazioni di stima verso
Bartolomeo Borghesi, come studioso di cose antiche. Ma si ignora o quasi il
resto o lo si riduce a ben poco, rispetto, ad esempio, allo spazio soverchiante
dedicato a Garibaldi.
Andiamo ai fatti.
Siamo nel
1859. La penisola italiana è un Arlecchino: staterello più staterello, ciascuno
con le sue tradizioni, la sua storia, le sue fanfaluche, il suo re, il suo duca
o granduca.
San Marino è
dentro uno di questi, quello Pontificio. La sua sovranità e la sua personalità
internazionale sono di dubbio riconoscimento. Insomma San Marino è in una
posizione molto debole, di gran lunga più debole di quella di altri, ad
esempio, il Granducato di Toscana.
A promuovere
l’unificazione sono i liberali. Mazzini, il loro leader, cincischia per decine
d’anni, coi suoi moti rivoluzionari, collezionando, un insuccesso dietro
l’altro. Perché non riesce? Perché su quegli staterelli vigilano due
supergendarmi dell’ordine europeo, Francia ed Austria: le loro truppe sono
pronte ad accorrere in ogni angolo della penisola, al primo accenno di
disordine.
E’ Cavour
che dà una strategia operativa ai liberali, trasferendo parte del gioco in
ambito internazionale: attira dalla sua parte la Francia e la lancia contro
l’Austria.
Cavour ce la
fa in tre tempi ad unificare la penisola, in tre fasi. In ognuna di queste
fasi gli è necessario l’assenso di Napoleone III. Non sempre è un assenso
convinto. A volte è strappato, strappato anche col ricatto. Comunque
quell’assenso, a Cavour occorre ogni volta. Insomma Cavour non può muoversi
senza l’OK preventivo di Napoleone III, cioè del grande protettore di San
Marino. Può, Napoleone III, nel rilasciare quegli OK, può dimenticarsi di San
Marino?
Seguiamo in
dettaglio il processo di unificazione.
Prima
fase. Napoleone III scende in campo a fianco dei Piemontesi contro
l’Austria, col programma di sottrarle Lombardia e Veneto. In cambio avrebbe
Nizza e la Savoia. Come è noto ci si ferma a metà, alla sola Lombardia ed il
passaggio di Nizza e Savoia rimane in sospeso.
La guerra dura
pochi mesi. Sono sufficienti per provocare il finimondo in altre parti d’Italia.
I liberali, appena vedono che i due supergendarmi hanno le mani impegnate a
darsele fra loro, escono allo scoperto, stendono le loro bandiere, inneggiano
all’unità nazionale: basta questo perché in Toscana, in Emilia e in
Romagna arciduchi, duchi e legati pontifici se la diano a gambe. Da notare
che nelle Marche e in Umbria le milizie pontificie invece fecero fuoco e
ripresero in mano la situazione.
San Marino è di
nuovo, dopo tanto tempo, a confine fra due realtà diverse.
Seconda
fase. Napoleone III ha qualche difficoltà in casa per tutti quei
soldati morti, morti senza contropartita. Allora Cavour, intenzionato a
mantenerselo comunque dalla sua parte, lo aiuta: gli cede ugualmente Nizza e la
Savoia. Contropartita? Ottiene il consenso ad annettersi Toscana, Emilia e
Romagna. E così andò. L’annessione di quelle regioni ci fu: attraverso
plebisciti indetti nel marzo del 1860. Si vota ovunque, in tutta la Romagna. Si
vota anche a Rimini, anche a Corpolò, a Verucchio.
A San Marino
non si vota. Da qualche parte dovrà essere stato deciso che a San Marino non si
voti. Terza fase. Nel maggio del 1860, Garibaldi con i suoi Mille sbarca
in Sicilia, libera l’isola e poi su su per la penisola, successo dopo successo,
decisissimo ad andare fino in fondo. Il fondo vuol dire Roma. Roma no, dice
Napoleone III. Sarebbe il colmo. Napoleone lancia fulmini e saette. Si è
assunto l’onere e l’onore di difendere il papa di fronte ai cattolici del suo
paese e di tutto il mondo.
Ecco Cavour
che si offre di fermare Garibaldi. Napoleone non ha alternative. E’ costretto a
dire di sì. Deve pure acconsentire che Cavour, nel correre giù a fermare
Garibaldi, si prenda, strada facendo, le Marche e l’Umbria. San Marino? San
Marino lo lascia indietro.
E’ vero che
i Piemontesi hanno fretta: passano giù di corsa. E’ vero che non possono
permettersi di irritare Garibaldi, in vista di Teano. Ma non basta a spiegare
perchè Cavour lascia indietro San Marino. Se Cavour avesse buttato San Marino
nel calderone di quegli sconvolgimenti, nemmeno Garibaldi avrebbe più potuto
farci niente.
Il fatto è
che Cavour passa di qui proprio quando si accinge a dare inizio ad una
operazione delicatissima. Di fronte alla prospettiva di una mezza penisola,
San Marino è una inezia. E Cavour non mette a repentaglio i rapporti con
Napoleone III per quell’inezia. Ci sarà tempo per risolverla, quell’inezia.
La
protezione di Napoleone III non termina con la creazione del Regno d’Italia e
la morte del Cavour. Prosegue. Fino a favorire, sia pure indirettamente, la
stipula della prima convenzione Italo-Sammarinese. Infatti la firma avviene
quando al governo c’è Rattazzi, il quale, d’accordo col Re, vuol riprendere il
discorso dell’unità nazionale (mancano Roma e Veneto). Cioè quando, ancora una
volta, si ha bisogno di Napoleone III.
Conclusione.
L’apporto di Napoleone durante il Risorgimento italiano è notevole in ogni fase.
San Marino, sotto sua protezione, sopravvive alla unificazione della penisola
italiana ed ottiene il primo vero timbro sulla sua sovranità con la Convenzione
del 1862.
***
Passiamo ad altro
argomento, l’ultimo. E’ un argomento poco trattato, anzi quasi evitato, quasi
snobbato. Parlo del rapporto fra religione ed istituzioni pubbliche, in breve,
FEDE E LIBERTA’.
Comincerò
col dire di una suggestione (ai non addetti ai lavori è concesso!), la
suggestione del suono della campana che dalla Guaita, in occasione del primo
aprile e del primo ottobre, ci chiama all’impegno di celebrare puntualmente il
rito semestrale della democrazia.
Quella della
campana, è una forma antica di richiamo, la stessa delle chiese: la nostra
democrazia è antica e viene da una chiesa.
Le democrazie
moderne di ben altri mezzi di comunicazione posson disporre quando sorgono. E
sorgono come frutto di rivoluzioni o di dotte correnti di pensiero.
Sorgono, appena un paio di secoli fa, quando già religione e vivere civile
sono separati.
La nostra
vien prima. E’ concepita nel silenzio umile di una piccola comunità di
credenti, isolata sul ciglio di un monte, in pieno Medioevo cristiano; viene
alla luce attorno al Mille; si sviluppa nel periodo dei comuni; supera i secoli
degli assolutismi e delle oppressioni della metà del secondo millennio per
presentarsi poi alla storia accanto alle moderne democrazie nate dalle
rivoluzioni.
Ai
rintocchi della campana, la gente, attorno al sacello, lasciava le ordinarie
occupazioni per ritrovarsi assieme, in un incontro civile e religioso al
contempo.
Ed ancor oggi è
la campana, col quel significato emblematico, a sottolineare i momenti più
importanti della vita della comunità sammarinese.
C’è da
meravigliarsi? Carducci: “In Repubblica buona è ancor lecito non vergognarsi di
Dio”. E non si preoccupò dello scandalo fra il suo stesso seguito di sacerdoti
del positivismo.
Già
l’Addison, ai primi del Settecento, aveva individuato proprio nella saldatura
con la venerazione per il Santo, il fondamento ed il punto di forza di questa
libertà. E ne scrisse con rispetto ed ammirazione.
Ammirazione
e rispetto vengono pure da Napoleone, che passa di qui quando va a demolire a
cannonate il vecchio mondo a nome di una rivoluzione, che ha nella Ragione il
suo dio. Propose di ingrandirlo, San Marino. La comunità non accettò. A me
piace pensare che la comunità rifiutò perché non volle spingersi oltre il
cerchio di suono della propria campana.
San Marino
rimane raccolto attorno alla sua campana, commisurato alla voce di una campana.
Non per questo lo sdegnano i primi costituzionalisti, Adams, De La Croix, gli
studiosi del Settecento, che creano le basi e le forme degli stati moderni.
Non lo
sdegna, fra i moderni costituzionalisti, Piero Calamandrei, uomo della nuova
Italia nata dalla Resistenza: “le pagine più luminose della [nostra] storia” ,
egli dice, sono frutto di una politica che “ha gli stessi accenti semplici ed
umani della fede”.
A qualcuno,
questa commistione fra fede e politica può sembrare un retaggio ingombrante
della storia, una causa di fragilità. Non è così. Ne viene anzi una forza
che, all’Addison, fa ricordare Roma quando ancora non occupava che uno dei sette
colli.
Il paragone
fa sorridere?
In effetti – a
pensarci bene – all’Addison dà ragione il senso generale della storia. Quel
pugno di montanari affronta realmente la storia, anche la grande storia, anche
i grandi personaggi usi a fare e disfare i destini dei popoli. Ed arriva dove
vuole arrivare: nemini teneri, “non dipendere da nessuno”. Un risultato
eccezionale. “Un fenomeno unico” dice l’Aebischer, “una vicenda umana che desta
rispetto e ammirazione”. Per quel viaggio eccezionale c’è stato il supporto di
un viatico eccezionale.
All’Addison danno
ragione anche fatti specifici. Esempio: l’episodio alberoniano. L’Alberoni
si presenta ai sammarinesi nei panni ambigui di una autorità che è al contempo
politica e religiosa. Chiede un atto di fedeltà al papa attraverso un giuramento
che ha il valore di una sottomissione politica. Il giuramento, con cinica
doppiezza, è proposto come momento di una cerimonia religiosa, durante la
celebrazione della messa, nella pieve del Santo. Ebbene? La folla non ci casca.
Urla. Urla a quel cardinale in pompa magna, con il sacro libro del vangelo sulle
ginocchia, circondato dai suoi sbirri, urla fedeltà alla Repubblica ed al Santo,
il suo Santo che è un tutt’uno con la Repubblica.
Il cardinale
è sconcertato. L’Alberoni non è uno sprovveduto, non è un uomo qualunque. E’ un
politico navigato, abile, già ministro di Spagna (la Spagna è ancora una
superpotenza). Sconcertato perché?
Intanto
perchè non si aspettava quella reazione. Lui era qui da qualche giorno. Non
aveva incontrato una forte resistenza. Era bastato mandare qualche testa calda
nella rocca. Poi tutto calmo. Tanto che aveva chiamato ad assistere al
giuramento le più alte autorità del circondario e ben due notai erano presenti
per stendere il verbale. Insomma tutto preparato, tutto a puntino. Si stava
approntando a dare una lezione di stile, quando cominciò quel baccano.
Ma lo
sconcerto ha anche altre ragioni, ben diverse. Non ha di fronte, come gli è
capitato altre volte, una forza militare, e nemmeno, come pure gli è capitato
tante volte, un ostacolo giuridico. Non ha davanti nemmeno un fermento di
quelle idee che, oltralpe, stanno preparando gli animi al fuoco delle
rivoluzioni.
Lo si
contesta proprio sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della religiosità:
è il comune senso religioso della gente comune, che gli si rivolta contro,
inalberando un’idea di religione coniugata con quella di libertà. Un connubio
assurdo secondo le teorie politiche, che lui conosce così bene, assurdo secondo
i dettami correnti della religione che, ovviamente, conosce altrettanto bene.
L’Alberoni,
allora, il dotto Alberoni, si erge a professore. Si mette a spiegare a quei
montanari quanto è assurda quella loro credenza. Insomma tenta di scindere
quel rozzo, antistorico binomio nelle teste di quei montanari. Ma quelli da più
di un millennio ragionano a quel modo, di generazione in generazione: è il Santo
l’auctor libertatis, sulla teca del Santo c’è una corona da re, perché quel
Santo è il loro re.
Le grida che
l’Alberoni non riesce a smorzare determinano la sua sconfitta. Il papa si era
raccomandato: “sine strepitu” e “cum singulari prudentia”. E invece…
“Gente acerrima,
tenace”, dirà più tardi l’Alberoni, nel tentativo di giustificare lo smacco,
gente “superstiziosa, di questa loro libertà”: per lui è superstizione una
religione saldata alla libertà. In effetti non è superstizione. E’ l’espressione
della cultura di un’altra epoca, quella medioevale, che l’Alberoni, come tanti
uomini del suo tempo, non sanno più leggere.
Quel
binomio, il binomio fede e libertà, effettivamente risale al Medioevo. Non
occorre pensare al Medioevo del carroccio, cioè al Medioevo delle città. Ce lo
dice un documento, un nostro documento, conservato nel nostro archivio: il
verbale del processo di Valle Sant’Anastasio del 1296.
Interroga
l’Abate. Interrogati i sammarinesi, una quindicina, nella duplice veste di
imputati e di testimoni: il comune si ostina a non pagare certi tributi ad
un’autorità del Montefeltro. Perché non pagano? Per privilegio concesso da
imperatore? No. Per privilegio concesso da papa? No. Per antica, consolidata
consuetudine? Sì. Quei tributi non li pagano, perché non li hanno mai pagati e
sono convinti, certi di non doverli pagare. Perché? Perché non li hanno mai
pagati. E dicono – chi potrebbe farli dubitare? – che è stato il loro Santo a
farli liberi, liberi da chiunque: nemini teneri, non dipendere da nessuno.
Essi non
elemosinano l’esenzione come un privilegio, la rivendicano piuttosto come un
diritto, con la fermezza, la determinazione con cui ci batte per un diritto, con
la sicurezza di chi si crede nel giusto. E non portano a testimoniare un
signore, un personaggio importante, insomma un titolato della gerarchia o laica
o ecclesiastica: il più alto in grado (si fa per dire) è un prete, il prete di
una cappella di campagna, San Giovanni sotto le Penne. E non fanno risalire quel
diritto a un papa o a un imperatore (un altro papa, un altro imperatore glielo
potrebbe sottrarre!), ma addirittura a un Santo, il loro Santo. Chi oserà
annullare quel che un Santo ha concesso?
Ecco che cosa
distingue questo cucuzzolo dagli altri della Val Marecchia. Non è che sugli
altri cucuzzoli i tributi li paghino volentieri. Qui attorno è un pullulare di
fortilizi: Verucchio, Montebello, Maiolo, San Leo… Sono sorti, come San
Marino, tra l’Ottocento ed il Mille, quando il Montefeltro è teatro di guerra,
nello scontro fra papato ed impero (lotta per le investiture). I grandi del
momento, insomma, non trovano di meglio che venirsi a rincorrere su per questi
monti. C’è il solito strascico di soldataglie, sbandati, delinquenti. La gente
deve provvedere da sé alla propria difesa. Lo fa. Lo fa come può. Tira su, alla
meglio, dei muri. Cinge con semplici muri di pietre appena sgrossate i
cucuzzoli dei monti lungo la Val Marecchia. Con quei muri sorge pure la voglia,
località per località, di continuare a fare da sé, di non dipendere da altri,
di non pagare tributi.
Ma c’è
subito una differenza. A San Leo, a Talamello, a Maiolo, a Verucchio, a
Montebello ecc., di quei muri si appropriano i signori, che li trasformano in
castelli e vogliono gestire loro la riscossione dei tributi, vogliono
amministrare loro la giustizia – chi per il papa, chi per l’imperatore – e
postulano loro l’esenzione dai tributi, come privilegio. A San Marino, invece, è
la comunità a rivendicare l’esenzione come un diritto: nemini teneri, eredità
del loro Santo.
E difende quel
convincimento con ogni mezzo e contro tutti, fino ad ottenere il riconoscimento
di tutti. Il 2 marzo 1992, a New York, la comunità del cucuzzolo è entrata
nell’ONU, accolta, per acclamazione, dagli stati dell’intero mondo.
Conclusione.
Il mito di San Marino e Napoleone III hanno protetto San Marino in momenti
difficili della storia, ma, in ogni caso, è il nemini teneri, quel testardo
convincimento fuso nella testa della gente assieme ai sentimenti della fede a
risolvere la partita.
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