San Marino. Colera: la sofferenza di un Paese impreparato

San Marino. Colera: la sofferenza di un Paese impreparato

La sofferenza di un paese impreparato

Nel 1855 l’epidemia di colera che aveva colpito l’Italia arrivò anche a San Marino

A cura di Davide Pezzi

Il colera, affacciatosi per la prima volta in Europa e in Italia nel XIX secolo, è una delle malattie che ha avuto il maggiore impatto, non solo per l’alto tasso di mortalità raggiunto, ma anche per l’enorme interesse che procurò tra amministratori e uomini di scienza. Studiare le epidemie di colera ottocentesche è importante per conoscere il carattere della società che ne fu vittima: la malattia non è infatti solamente un fenomeno biologico, ma anche sociale. Il colera ebbe un impatto senza precedenti nell’immaginario collettivo europeo: la pur progredita civiltà ottocentesca si abbandonò a reazioni esasperate che a molti ricordarono da vicino quelle osservatesi nei secoli precedenti nei confronti della peste. Quando la malattia comparve per la prima volta in Italia, molti ne individuarono la causa nella collera divina, altri parlarono di avvelenamenti voluti dal Governo per colpire le masse troppo cresciute numericamente. Essendo una malattia prevalentemente urbana e che per sua natura trae dalla sporcizia, dalle acque inquinate, ma in generale dalle carenze sanitarie la propria linfa vitale, il colera mise inoltre in luce da una parte le debolezze dell’organizzazione sanitaria, dall’altra la povertà, la disuguaglianza di fronte alla morte, la drammatica arretratezza in fatto di igiene privata e pubblica. 

Il colera si affacciò in Italia per la prima volta nel luglio del 1835 probabilmente portato per via di mare da un gruppo di contrabbandieri entrati nel Regno di Sardegna dopo aver infranto il cordone sanitario.

Anche a San Marino nella prima metà dell’800 le condizioni igienico-sanitarie lasciano a desiderare. La popolazione del territorio sammarinese nel 1840 conta appena 6.000 unità, di cui oltre un migliaio abitano fra Borgo e Città. Uscendo appena dai confini di questi due castelli la popolazione è composta prevalentemente da contadini, le cui case sono assai carenti di servizi igienici, con letamai addossati alle case o troppo vicini. Anche nei vicoli entro le mura la situazione non è migliore: agli escrementi di muli, cavalli e buoi si aggiungono animali vari – cani, maiali, galline – che rovistano tre le immondizie.

Un altro importante problema igienico viene dalle acque, stante la cronica penuria di fonti della Repubblica.

L’approvvigionamento idrico deriva da pozzi o cisterne che raccolgono le acque piovane, acque che nel periodo estivo diventano stagnanti. Per il controllo sanitario San Marino si serve di tre medici (due in Città e uno a Borgo), di una “Compagnia di Carità” che distribuisce sussidi e medicinali ai poveri e, dal 1855, di un nuovo ospedale.

A Rimini, il 15 marzo 1855, un pescatore del Borgo San Giuliano si sente male. Muore dopo tre giorni. I medici non hanno dubbi: è arrivato il “morbo asiatico”, cioè il colera. L’epidemia sta infatti già aggredendo l’Italia dopo essere giunta, si dice, dal porto di Genova. Un abitante su 10 si ammala: 1.264 su 17.627, e la mortalità è altissima, con ben 717 decessi. Pochi mesi dopo la temutissima malattia raggiunge anche la Repubblica di San Marino. Il 17 luglio 1855 una Notificazione avverte la popolazione di usare “ogni precauzione reclamata dalla vicinanza del flagello del cholera”, raccomandando di tenere pulite le abitazioni vietando “il gettito dalle finestre di materie immonde e gli ammassi di letame presso l’abitato”. Viene inoltre vietata la vendita di frutti troppo maturi, di carne, pesce, salumi e di porchetta.

Quattro giorni dopo un’altra Notificazione dichiara con ingiustificato ottimismo che “il Governo confida che la salubrità del cielo e la sommissione dei cittadini alle regole sanitarie potranno bastare a tener lontano da questo territorio il terribile flagello che ne circonda”. Con la Notificazione del 28 agosto viene sospeso il tradizionale Palio delle Balestre, onde evitare pericolosi assembramenti, ma l’ottimismo del Governo – che nel corso dell’estate revoca anche le limitazioni alla vendita della carne – viene ben presto punito dai fatti. Il 27 settembre i Capitani Reggenti Gaetano Belluzzi e Francesco Rossini emanano un allarmante comunicato in cui scrivono “il terribile morbo, che da tempo infesta le vicine contrade, invase pur anco questa nostra Repubblica”.

Evidentemente “la salubrità del cielo” non è bastata a evitare il propagarsi del morbo a San Marino. Morbo che ovviamente colpisce soprattutto le classi più povere, tanto che i Reggenti fanno anche un appello ai cittadini per fare fronte allo “stato indigente di alcune famiglie”. La stessa Commissione Sanitaria si attiva con colpevole ritardo, preoccupandosi di limitare il cordone sanitario alle mura cittadine. Presso “la casa del Crocefisso” viene allestito un lazzaretto con letti e materassi rimediati fortunosamente, e vengono “assoldate” quattro persone (due uomini e due donne) per assistere i contagiati. Ma l’epidemia si espande: dalle campagne arrivano drammatici resoconti che sembrano bollettini di guerra, con un numero di vittime sempre crescente.

A Borgo accade anche un fatto increscioso che testimonia lo sgretolarsi dei rapporti sociali e della vita in comune e la diffidenza verso il prossimo, tipici di una simile epidemia: il commissario sanitario Agostino Giacomini riferisce, in una lettera inviata al Reggente Belluzzi, di un contadino steso sulla strada senza forze e in preda al vomito. Viene trasportato al lazzaretto, che però, a un mese dallo scoppio dell’epidemia, è già “fuori d’ogni ordine” e impossibilitato ad assistere il povero malcapitato. Giacomini conclude sconsolato dicendo di essere costretto a “permettere che egli resti dove si trova”. Il pover’uomo morirà quindi sulle strade senza alcuna assistenza.

Bollettini con sempre nuovi casi arrivano da Serravalle e da Fiorentino, ma appare chiaro che il focolaio dell’epidemia è Borgo Maggiore. Qui infatti ha luogo il mercato del bestiame ed è anche luogo di sosta dei viaggiatori prima di arrivare in Città. Con una leggerezza imperdonabile, Agostino Giacomini il 31 agosto chiede alle autorità di non sospendere la prevista Fiera dell’8 settembre, contravvenendo così alla più elementare delle norme, “la soppressione di fiere e mercati, uno dei primi atti a tutela della sanità pubblica in tempi epidemici” (P. Sorcinelli, “Nuove epidemie e antiche paure. Uomini e colera nell’Ottocento”).

Famiglie intere sono decimate: il 7 settembre Angelo Lettoli, colono della famiglia Borghesi, si rivolge alla Commissione Sanitaria chiedendo aiuto per seppellire la madre, dichiarando di essere l’unico sopravvissuto di una famiglia composta di 11 persone. Il 12 settembre Agostino Giacomini chiede di essere sostituito e avvisa che nella chiesa della Madonna di Ventura (a Borgo Maggiore) “non rimane posto che per tumulare altri otto cadaveri al più”. La maggior parte dei cadaveri viene sepolta in fosse comuni in località le murate, dove vengono trasportati con due carri; le fosse devono essere profonde “non meno di sei piedi sammarinesi”.

Il 20 ottobre termina l’epidemia: dal 3 agosto – giorno del presunto inizio – si sono ammalati 245 cittadini di cui 99 sono morti. Un bilancio pesante per una piccola comunità come quella sammarinese del 1855, che deve fare i conti con la propria arretratezza igienica, sanitaria e culturale, trovandosi inerme di fronte al fenomeno epidemico, e che pochi anni dopo avvierà finalmente la costruzione in Città di un nuovo ospedale-ricovero. (fonti: A. Pongetti / P.P. Guardigli)

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