C’era una volta il “principio di sussidiarietà”

C’era una volta il “principio di sussidiarietà”

C’era una volta il “principio di sussidiarietà”

Come erano belli i tempi in cui la libertà di iniziativa, la creatività popolare, la genialità personale potevano diventare proposta e occasione di esperienze che ricreavano uno spazio libero e originale nella società e nei rapporti.

Viene in mente quanto affermava Péguy, ripreso da don Giussani in un suo intervento: “Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla. Un allievo non comincia a creare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova (cioè nella misura in cui non è un allievo). Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della filiazione, non per le vie scolastiche della discepolanza”. (Giussani, “Generare tracce…”, p. 73)

Sembra che non si vogliano più figli, nella paura della creatività originale, ma ripetitori, eppure, sappiamo, è la figliolanza che genera.

E riprendiamo pure quanto la Dottrina sociale cristiana ci ha da sempre insegnato: “La sussidiarietà è tra le più costanti e caratteristiche direttive della dottrina sociale della Chiesa, presente fin dalla prima grande enciclica sociale. È impossibile promuovere la dignità della persona se non prendendosi cura della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà territoriali locali, in breve, di quelle espressioni aggregative di tipo economico, sociale, culturale, sportivo, ricreativo, professionale, politico, alle quali le persone danno spontaneamente vita e che rendono loro possibile una effettiva crescita sociale… In base a tale principio, tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto (‘subsidium’) — quindi di sostegno, promozione, sviluppo — rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale… Il principio di sussidiarietà protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori e sollecita queste ultime ad aiutare i singoli individui e i corpi intermedi a sviluppare i loro compiti. Questo principio si impone perché ogni persona, famiglia e corpo intermedio ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L’esperienza attesta che la negazione della sussidiarietà, o la sua limitazione in nome di una pretesa democratizzazione o uguaglianza di tutti nella società, limita e talvolta anche annulla lo spirito di libertà e di iniziativa”.

Se questo vale per la società, papa Francesco nella “Evangelii gaudium” sembra applicarlo anche all’interno della Chiesa stessa, se ascoltiamo queste sue parole: “Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo … Spirito Santo … suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae… Non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde… Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore”.

Per non cadere nella “vanitosa sacralizzazione della propria cultura” lasciamo tutto lo spazio necessario a coloro che, nella libertà e nella fedeltà alla Chiesa stessa, tentano di comunicare nella loro originalità il messaggio evangelico. Sono un poco stanco della “sinodalità centralizzata”. Questi tempi di pandemia hanno mostrato che molti sanno creativamente esprimere un loro cammino comunitario che diventa una ricchezza per tutti, allargando rapporti e creando solidarietà inattese. Non soffochiamo questa autentica libertà dello Spirito con nessuna forma di “statalismo ecclesiale”. Sarà pur bello che le varie televisioni “pubbliche” e professionali aumentino lo spazio per la comunicazione ecclesiale, questo non deve però togliere la voce e la visibilità ai più piccoli, ma capillari, e sicuramente più “artigianali”, momenti e strumenti di comunicazione, in qualche modo sostituendoli, perché con questi è senz’altro più facile entrare in sinergia, e non fermarsi alla ripetizione compiaciuta e univoca di un unico pensiero. Cadremmo nell’errore che si è fatto nel commercio di chiudere e fare fallire le “botteghe” per affidarci ai supermercati.

 

Don Gabriele Mangiarotti

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