Banche italiane in crisi collegate a San Marino. Corriere della Sera

Banche italiane in crisi collegate a San Marino. Corriere della Sera

Corriere della Sera

 Non c’è solo Montepaschi 5 miliardi per le crisi bancarie


 Da Carige a Bpm, le necessità di patrimonio per i salvataggi

Fabrizio Massaro

MILANO — Già solo Montepaschi e la caccia ai 2,5 miliardi di aumento di capitale che l’Europa ha imposto sono un bel mal di testa. Il presidente Alessandro Profumo dice che «dobbiamo farcela per consentire a tutti di guardarci con stupore». Ma se al dossier senese si affiancano i problemi — altrettanto gravi e forse al limite del codice penale — di altri istituti medio-piccoli, lo scenario si fa davvero molto complesso.
Se pure si tratta di situazioni differenti, da Carige (per la quale servono circa 800 milioni) a Banca Marche (bisognosa di almeno 400 milioni), dalla Popolare di Spoleto (circa 100 milioni) alla abruzzese Tercas (si parla di 2-300 milioni) alla Popolare di Milano (500 milioni per coprire il rimborso dei Tremonti bond), la difficoltà è comune: trovare, e presto, nuovo capitale per rafforzare il patrimonio. Sono quasi 5 miliardi, una cifra imponente.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, martedì è stato chiaro: la soluzione per ogni necessità di capitale aggiuntivo «va trovata attraverso il ricorso al mercato». Ma chi metterà i soldi? I tentativi di salvarsi in maniera autonoma non è detto che riescano: la cordata di imprenditori marchigiani capitanati da Francesco Merloni e con la partecipazione (forse) di Diego Della Valle sarebbe pronta a investire 300 milioni per Banca Marche. «Ma serviranno?» si chiede un banchiere di peso. «Fin quando non si capirà quant’è il buco e non ci saranno stati gli stress test della Bce in vista della Vigilanza unica, nessuna banca si farà avanti». E la cautela su Banca Marche si può applicare alle altre banche sotto esame.
«A parte alcuni rilevanti ma circoscritti episodi di illeciti, le difficoltà maggiori riguardano principalmente una manciata di gruppi medio-piccoli», ha spiegato Visco, fiaccati da cinque anni di crisi profonda che ha colpito imprese e famiglie e di conseguenza i bilanci bancari. Ma appesantiti anche per il modo in cui quei bilanci sono scritti: «Le banche italiane appaiono avere un livello di crediti deteriorati e di copertura basso», ha spiegato Visco, «ma utilizzassero le stesse definizioni delle banche estere, il loro ammontare di prestiti non-performing scenderebbe di circa un terzo». Visco ha messo in chiaro che non punta a un rilassamento delle regole sulle sofferenze. Ma perché, se già abbiamo le regole più severe, la Banca d’Italia sta imponendo una stretta così pesante ai bilanci delle banche?
«Per ripulirli al meglio e fare in modo che i patrimoni rappresentati siano i più reali possibili», spiega Paolo Gualtieri, ordinario di Economia degli intermediari finanziari alla Cattolica, «perché quando hai un Paese in ginocchio devi avere un sistema bancario forte, sennò si rischia di mandare davvero tutto a rotoli». La Banca d’Italia ha avviato anche un nuovo modello di intervento: «Sta cercando di promuovere il cambiamento anche nel management, talvolta con misure oltre l’ordinario come la rimozione dei vertici o il commissariamento», continua Gualtieri. Vedi l’arrivo di Profumo a Siena, di Cesare Castelbarco Albani a Genova, di Andrea Bonomi a Milano, e i commissariamenti delle più piccole Tercas o Spoleto. «Perché se promuovi il cambiamento promuovi anche un’analisi di bilancio e dei crediti più attenta». E magari con meno remore a fare emergere prestiti concessi più sulla base delle amicizie che sul merito di credito.
Resta il problema di fondo: dove trovare il capitale? A Cernobbio i banchieri maggiori come Federico Ghizzoni (Unicredit), Enrico Cucchiani (Intesa Sanpaolo) e Fabrizio Viola (Mps) non avevano dubbi: è in arrivo una nuova ondata di consolidamenti. Le grosse banche non sarebbero ancora state chiamate da Via Nazionale a prendere in mano i dossier, anche perché — date le loro dimensioni nel Paese — Unicredit e Intesa Sanpaolo non hanno grande spazio di manovra, anche se non disdegnerebbero alcuni pezzi pregiati di questo ipotetico spezzatino di banche. I gruppi esteri come Bnp Paribas, Credit Agricole, Deutsche Bank potrebbero invece avere perplessità ad investire ancora in un Paese che non cresce e dove c’è affollamento di sportelli (e dunque di dipendenti). «Una soluzione potrebbe arrivare da operazioni di scambio azionario che mettano assieme istituti forti con istituti più deboli così da realizzare economie di scala e riuscire a finanziarsi sul mercato a prezzi più bassi», spiegava un banchiere. Ma tra proprietà deboli e governance complesse (come nelle Popolari), non sarà facile.

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