Baseball, T&A: Giovanni Pantaleoni lascia

Baseball, T&A: Giovanni Pantaleoni lascia

Giovanni Pantaleoni lascia. Niente campionato per lui, una decisione che ci racconta nell’intervista a seguire…

Giovanni, quando e perché hai deciso di lasciare?

“In una serata di ottobre. Ero tornato a casa dei miei genitori, quando mi chiamano da Tirrenia perché sembrava che il mio profilo potesse interessare per una nuova posizione che si stava aprendo da lì a pochi mesi nella Ibaf (federazione internazionale del baseball). Dopo 10 minuti ho inviato il curriculum e la settimana successiva sono andato a fare il colloquio. Ho avuto la sensazione che fosse una di quelle occasioni che non puoi lasciar scappare”.

Quando comincerà la stagione pensi che proverai sensazioni particolari o ci avrai già fatto “il callo”?

“Sinceramente stavo già valutando la possibilità di smettere di giocare nel prossimo futuro. I miei amici più intimi ne erano a conoscenza. Ma la mia idea era quella di fare almeno un altro anno e successivamente, magari, affiancare Doriano, restando in squadra quindi. So di non essere pronto per lasciare la vita da campo, lo spogliatoio, i compagni… Ma in fondo, nessuno lo è quando fa il passo. Semplicemente, si prende la decisione e ci si adatta”.

La tua storia nel baseball… Prima di tutto: perché questo sport? Raccontaci gli inizi da bambino…

“Tutta colpa, o merito, di Fabio Bartolucci direi (che purtroppo ci ha lasciati troppo presto, due mesi fa). A Cupramontana, era il 1981 ed io avevo 3 anni, ha preso dei guantoni, palla e mazza ai suoi figli, e vedendo con quanta passione tutti i loro amici, tra cui mio fratello, si erano approcciati a questo sport, decise di formare una squadra. Il loro campo era accanto al mio asilo. Sono dovuto stare a guardarli giocare per anni visto che non avevo l’età per essere tesserato. Poi quando finalmente è arrivato il mio turno non ho più smesso, forse perché l’aspettavo da troppo tempo”.

Il tuo cammino nella massima serie è partito da Caserta…

“Era il 1998, primo turno di battuta contro Newman che teneva sempre in tasca una specie di scouting report dei battitori avversari. Si gira verso Tondini, che giocava in terza, e gli chiede, ‘Chi é questo?’ E Tondini fa: ‘Pantaleoni!’ E lui ci pensa, mi guarda, si rigira: ‘Chiiii???’. Nel 1999, sempre a Caserta, mi viene in mente questo episodio. Situazione di bunt, noi in difesa. Bunt sul lanciatore e il nostro ricevitore che urla come un pazzo ‘prima, prima, primaaaaaaa…’. Fin qui tutto regolare, ma dopo l’out in prima l’attenzione torna su di lui che continuava ad urlare ‘…aaaaaaaaa…’. Nell’urlo si era slogato la mandibola. Ha iniziato a prendersi a pugni in faccia per rimetterla in sede. Partita ferma per altri 5 minuti, non riuscivamo a smettere di ridere”.

Poi è stata la volta di Rimini…

“Nel 2000 Antolini, allora Gm del Rimini, mi ha voluto, ma per qualche motivo non mi portava mai a parlare con Zangheri. Poi ho capito che aspettava che mi tagliassi i capelli per farlo. Qualche mese prima, per scherzo, mi ero fatto i capelli biondi e aspettava che tornassi ‘presentabile’ agli occhi del Pres. In effetti, avendo poi conosciuto bene Zangheri, ha fatto bene a tenermi nascosto. Poi il 2001 e l’esordio in nazionale. In realtà non ero neanche titolare a Rimini, ma mi hanno chiamato perché c’era stata un specie di moria di interni italiani. Per ultimo Dallospedale. Mi sono ritrovato a giocare titolare in seconda per tutto l’Europeo. In inverno vado a parlare con Zangheri perché il Grosseto mi voleva e io a Rimini avevo avanti dei mostri sacri come Gaiardo, Evangelisti e Sheldon. Quindi gli dico ‘Pres, io qui sto bene ma il Grosseto mi vuole…’ Non mi lascia finire e mi dice ‘Sheldon va a Bologna, tu giochi in terza’. Fine delle discussioni”.

E il 2003?

“Anno strano, forse il mio migliore dal punto di vista statistico, ma ero irrequieto. Sentivo di dover fare un passo in avanti. Di non dover essere più solo il ragazzino di talento dal quale i compagni non si aspettano più di tanto, ma di dover iniziare a fare qualcosa di più per la squadra. Però trovavo difficile farlo restando nello stesso gruppo che mi aveva visto crescere. Quindi decido di cambiare e Bologna era la soluzione più logica in quel momento. Fino a quel momento ero un secondo in battuta atipico. Un free swinger con buona potenza, ma abbastanza incostante. Appena arrivato a Bologna capisco che non era quello che mi si chiedeva. Lì ho appreso pienamente il concetto del lavoro per la squadra. Ho imparato a non dare importanza alla media battuta, ma a valutare le prestazioni in base ai turni produttivi e al risultato della partita. Però quanta fatica per cercare di diventare un battitore più paziente. Del 2005 invece ricordo una domenica di ottobre. Siamo sotto 3 a 2 nella finale scudetto contro San Marino, causa pioggia si gioca di domenica pomeriggio gara 6. Stranamente c’è un gran sole e le tribune sono piene. Vinciamo e pareggiamo la serie. La stessa sera gara 7, che finisce 2 a 0 per noi. Una gran bella giornata di baseball”.

Nel 2006, 2007 e 2008 ancora Bologna…

“Per tutti e tre gli anni abbiamo primeggiato durante la regular season, per poi crollare in semifinale. Non nascondo di aver avuto il timore che non fossimo più capaci di vincere. Nel 2009, dopo varie vicissitudini societarie, a metà anno inizio a pensare che forse il mio tempo a Bologna si stava esaurendo. Però non potevo e non volevo lasciare quel fantastico gruppo senza vincere qualcosa di importante. Avevamo la sensazione di meritarcelo dopo tutti quegli anni ad alto livello. Finale contro San Marino, proprio la squadra in cui sarei andato a giocare. Vinciamo noi, mi tolgo un gran peso e mi sento più libero di andare”.

Di seguito il trasferimento proprio a San Marino…

“Per la prima volta mi rendo conto di essere diventato uno dei veterani e quindi anche un supporto per i più giovani. Ho notato il cambiamento nel modo in cui i miei nuovi compagni parlavano con me o mi guardavano. Ho sentito una responsabilità diversa che mi ha fatto apprezzare ancora di più le vittorie che sono arrivate negli anni successivi. Il 2011 è stato un anno fantastico. Vinciamo Scudetto e Coppa dei Campioni. La mia prima Coppa dei Campioni dopo 4 finali perse. Pensavo fosse una sorta di maledizione”.

E il 2012?

“In gennaio ho la brillante idea di andare a sciare e mi faccio saltare un crociato. Non credo di aver mai provato un senso di colpa più forte. Dopo l’operazione mi metto sotto con la riabilitazione e rientro in campo in meno di 4 mesi, giusto in tempo per i play off. Vinciamo lo Scudetto, incredibilmente mi convocano in nazionale e vinciamo anche gli Europei. Ho avuto la netta sensazione di essermi giocato un gran bonus con la fortuna”.

Indimenticabile la finale 2013…

“Contro il Rimini siamo sotto 2 partite a 0 in una finale al meglio delle 5. Dopo gara2 ci fermiamo nello spogliatoio con i soliti compagni e ci diciamo, ‘se portiamo a casa gara3 vinciamo lo scudetto’. Ma non era tanto per dire, sapevamo che vincendo gara3 avremmo dato un’altra partita a Tiago, e Tiago due partite di fila non le perde. Dopodiché, arrivati a gara 5, il momento sarebbe stato dalla nostra parte. Beh, è andata com’è andata. Terzo scudetto di fila e settimo personale”.

Il 2014, l’ultima annata…

“Appena iniziato il campionato giochiamo a Parma. Gioco in prima e mi faccio trovare nel punto sbagliato nel momento sbagliato. Collisione con il corridore. Risultato: milza e scapola rotte. Sto fuori qualche mese ma stavolta faccio una gran fatica per tornare in forma. Fisicamente ero svuotato dall’impossibilita di allenarmi. Però era di nuovo anno di Europei con la nazionale e quindi la mente va al 2012, quando abbiamo vinto Scudetto ed Europeo in un anno che pensavo fosse andato perso. Non vinciamo lo Scudetto, né gli Europei, ma portiamo a casa la Coppa dei Campioni in casa, alla gara decisiva. In quella che, forse, sarà l’ultima partita che abbia giocato in carriera. Un finale che ci può stare”.

Perché la T&A ha vinto tre scudetti di fila?

“Difficile dirlo. Non c’è una ricetta. O meglio, forse i dirigenti l’avevano, perché negli anni sono riusciti ad inserire quei tasselli che hanno dato quell’equilibrio che mancava alla squadra. Da avversario vedevo il San Marino come una squadra capace di vincere e di perdere contro chiunque. Molto talentuosa, ma anche poco equilibrata. Appena arrivato, mi dava un po’ fastidio l’approccio generalmente un po’ approssimativo durante gli inizi di stagione, che sono sempre stati un po’ difficili e non si capiva bene il perché. Poi però, quando si arrivava al punto in cui si doveva vincere per forza eravamo lì, e quindi inizi a pensare che in fondo va bene così. 2011 a parte, non ho mai avuto la sensazione che la nostra squadra fosse in assoluto la più forte, ma ho sempre avuto la convinzione che se fossimo arrivati in fondo, alla fine avremmo vinto noi. In effetti, 3 scudetti e 2 coppe dei campioni in 4 anni. Ma soprattutto, 4 finali su 5 vinte alla gara decisiva. Non so se questa squadra passerà alla storia, ma di certo è una bella storia averne fatto parte”.

La tua opinione su Doriano Bindi o su altri tra giocatori e dirigenti che vuoi ricordare…

“Di Doriano non mi stanco mai di parlare. Uno dei motivi dei nostri successi è sicuramente lui. Sono contento che negli anni gli sia stata riconosciuta pubblicamente la sua grande capacità di gestire uomini e infondere quella tranquillità e lucidità fondamentali nei momenti di tensione. È un uomo di una volta, poche chiacchiere e tanta concretezza. Un uomo vero. Poi Alberto Antolini. Mi ha voluto a Rimini in una squadra che era una vera corazzata. A giocare con degli elementi che hanno fatto la storia del baseball come Gaiardo, Evangelisti, Sheldon, Simontacchi, Vatcher, Liverziani… E potrei continuare. È stato fondamentale per la mia crescita. Nel primo anno giocavo mediamente una partita a settimana e ho in pratica assistito alla vittoria dello scudetto del 2000 dalla panchina. Ma in proposito ricordo proprio le parole di Alberto, ‘Vincere non è facile se nessuno ti mostra come si fa’. Aveva ragione”.

Qual è stato il battitore più forte che hai mai visto da vicino?

“In 17 anni di carriera ho avuto la fortuna di giocare in squadre fortissime e quindi con i migliori giocatori che siano passati per il campionato Italiano. Potrei fare tanti nomi, ma faccio quello di James Vatcher. Esterno centro del Rimini dal ‘99 al 2001 ed ex Major. Giocatore incredibile, di una eleganza e professionalità fuori dal comune. Per tutto il resto della mia carriera ho portato con me il ricordo di come si preparava e gestiva le partite. Per dirne una, non avevo mai visto prima un giocatore fare meditazione. Mi ha fatto capire che non stavo facendo abbastanza per migliorare il lato mentale del mio gioco. Ho iniziato a leggere libri di psicologia sportiva e fare esercizi di visualizzazione. Tra l’altro credo che tutti i giocatori giovani debbano leggere ‘The Mental game of baseball’. Ho capito che la pressione non è qualcosa di cui bisogna vergognarsi. Negare di provarla non aiuta a sentirsi più sicuri. La pressione deriva da un approccio negativo alla tensione che si prova in alcuni momenti della partita, soprattutto quando le partite contano sul serio. Si può sfruttare a proprio vantaggio pensando a cosa fare per avere successo, invece di cosa non fare per evitare di fallire”.

E il lanciatore più forte?

“Anche qui di nomi potrei farne tanti. Simontacchi per la sua carica agonistica. Betto per aver reinterpretato il suo ruolo dopo l’operazione alla spalla diventando uno dei più dominanti lanciatori degli ultimi dieci anni. Magrane e Guerra per aver lanciato entrambi da partente due gare di finale con un solo giorno di riposo, vincendole. Ma un nome su tutti è quello di Tiago da Silva. Mai vista tanta classe. Una capacità di adattarsi fuori dal comune. Più i battitori lo conoscevano e più diventava dominante. Semplicemente un vincente”.

La vittoria di squadra più bella?

“Questa è dura. Ho avuto la fortuna di giocare sempre in squadre molto competitive e di vincere tanto. 7 scudetti, 2 coppe dei campioni e 1 europeo con la nazionale. Detto questo, la vittoria più bella è forse quella del terzo Scudetto consecutivo vinto a San Marino contro il Rimini nel 2013. Prima di tutto perché nella storia recente nessuna squadra era mai riuscita a fare il tris, poi per il modo in cui è arrivata. Sotto 2 partite a 0, senza più possibilità di sbagliare, recuperare e vincere non è una cosa comune, e a differenza delle altre vittorie, ti rendi subito conto di avere fatto qualcosa di straordinario”.

Raccontaci la partita più bella dal punto di vista personale…

“Forse gara 3 di finale di campionato 2002. Rimini contro Nettuno. L’anno prima eravamo in vantaggio, sempre contro di loro, per 2 partite a 0, poi l’incredibile, ne perdiamo 4 in fila. La sconfitta più amara della mia carriera. L’anno successivo, di nuovo in vantaggio per 2 partite a 0, giochiamo gare 3 alla morte. All’ottavo inning perdiamo per 2 a 1, con un uomo in base faccio il fuoricampo del vantaggio e successivamente mi segue Chiarini. Vinciamo gara 3 e la serie a gara 5. Campionato incredibile, vinto con soli 4 lanciatori a disposizione. Baseball d’altri tempi!”

Un saluto finale alla T&A e all’ambiente sammarinese…

“Questo non lo faccio.  Mi spiego meglio. Visto il momento ne approfitto per augurare il meglio per il 2015, ma il mio rapporto con questa squadra è molto forte, e ho chiesto di essere tesserato anche quest’anno. Anche se non potrò giocare, ci tengo a tenere vivo questo legame. Poi in futuro vedremo, avevo immaginato la mia vita dopo il baseball qui, chissà che prima o poi non torni”.

Condividi


Per rimanere aggiornato su tutte le novità iscriviti alla newsletter

Quando invii il modulo, controlla la tua inbox per confermare l'iscrizione

Privacy Policy