(Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII,
Anno scolastico 1994-95)
Premetto che
questa è una riflessione di taglio molto personale, come è personale la
proposta che ne viene fuori. D’altra parte, si sa, di fronte alla droga, i modi
di porsi sono assai differenziati in quanto dipendono, più che dal ruolo di
una persona, dal sistema di convinzioni che stanno alla base del suo modo di
vivere.
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Ciascuno ha un
proprio modo di vivere: la diversità dei modi di vivere è caratteristica
della nostra civiltà.
Noi viviamo in
società, cioè gomito a gomito con altri, come del resto avviene in ogni
civiltà. Nella nostra, però, l’individuo è libero di scegliere i propri
comportamenti quasi vivesse fuori di una civiltà, cioè isolato, solitario. E’ un
fatto che non si riscontra, o non si riscontra in egual misura, in altre
civiltà, né del passato né di altri luoghi della terra.
E’ una
singolarità propria di questa nostra civiltà, sviluppatasi nell’Europa
Occidentale negli ultimi secoli: la sfera delle libertà individuali si è
fatta amplissima: ogni individuo può assumere i comportamenti che crede, purché
non leda un qualche legittimo diritto di altri, cioè in pratica la libertà di
altri.
E’ il traguardo
di un cammino cominciato oltre 5000 anni fa, quando si formarono le prime
aggregazioni umane di una certa consistenza, messe assieme col cemento della
religione. Venivano caricate di valenza religiosa anche norme che oggi
diremmo di comportamento civile. Anche consigli sanitari. La violazione di una
norma, anche nel privato, era una offesa al dio della città. Perciò aveva
rilevanza pubblica. La reazione del dio si sarebbe abbattuta sull’intera città.
La nostra civiltà
invece è del tutto desacralizzata. Le norme sono di tipo contrattuale.
Regolano solo i rapporti fra individuo e collettività. Non oltrepassano la
soglia del privato, non pongono vincoli ai comportamenti individuali.
Fino a non molto
tempo fa, solo le élites, nella nostra società, usufruivano di queste
condizioni di libertà. Ora, queste, sono un fenomeno di massa.
E si tratta di
una libertà grande, enorme, una libertà pressoché totale. Una libertà da
“vertigine”, dice Gaber. Ci si sente “liberi come l’aria”. Ciascuno può dire:
“son padrone del mio destino”, “posso mettermi un orecchino”, “sono infedele e
sono matto”, “posso far tutto”. Gaber snocciola una litania di “si può”. Una
litania senza fine per una libertà senza limite, alla quale nessuno oppone un
divieto, segna un confine, impone uno stop. “Si può contestare e parlar male”,
“si può fare i giovani a 60 anni”, “si può regalare i blue-jeans ai nonni”, “si
può occuparsi di spiritismo”, “si può far dibattiti sull’orgasmo”, “si può
divertirsi con il digiuno”, “e dopo tante battaglie e volendo puoi anche farti
uno spinello, il ‘libanese’ è il migliore, tra poco dovrebbe cominciare la
pubblicità in un nuovo carosello”.
Accendere quello
spinello è un gesto che si situa nel privato.
Vasco Rossi è
molto esplicito: “Sono arrivati in casa ed hanno detto: tirala fuori… Ho
obbedito e sono finito in prigione… sentivo di patire una ingiustizia
gravissima. Non avevo fatto male a nessuno. Mi sentivo un perseguitato come
Silvio Pellico”.
Silvio Pellico,
nell’immaginario popolare, è un martire della libertà. Per ogni italiano è un
simbolo di libertà. Nessuno può schierarsi dalla parte degli aguzzini di Silvio
Pellico.
Insomma
l’individuo non sopporta che la società imponga vincoli al suo comportamento
nel privato. Ebbene secondo Francesco Alberoni sta proprio qui il nocciolo della
questione: “la droga si diffonde quando si incrinano l’amore, la fiducia, la
dedizione, il cordone ombelicale che unisce gli individui alla loro società”.
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E’ impensabile
che si possa estirpare il fenomeno droga, in un contesto socio-culturale che
mitizza il “posso far tutto”.
Realisticamente,
non ci resta che dedicare il nostro sforzo a contenere il fenomeno, coi mezzi
che, caso per caso, abbiamo a disposizione,
Non è
utilizzabile la coercizione, perché ormai fuori dai nostri schemi mentali. Sì
invece all’informazione. La medicina, ad esempio, ha conseguito risultati
storici nel campo delle malattie infettive, con una informazione puntuale,
rigorosa, scientifica. Tale successo non si sta ripetendo per la droga. Si
constata addirittura una controindicazione nel caso di individui al di sotto di
una certa età (16-18 anni) o di soggetti immaturi.
Il mezzo migliore
è certamente la convinzione. Convincere (come insegnare) è una operazione
complessa. Non è un processo deterministico. Non è sufficiente imbastire un
discorso rigoroso, magari fatto di sillogismi, a mo’ di una dimostrazione.
L’interlocutore potrebbe condividere il ragionamento, condividere il risultato
sotto l’aspetto logico, ma poi rifiutarlo ugualmente, cioè non farlo proprio.
Dice Leopardi:
“Non basta intendere una proposizione vera” per accettarla, “bisogna sentirne
la verità”.
Spesso non c’è
nemmeno disponibilità ad ascoltare. Sostiene, infatti, Vasco Rossi: “Certo,
sulla droga, come sull’Aids è giusto informare. Ma lo Stato non deve pensare di
poter risolvere problemi che sono individuali. Deve fornire servizi e rompere
meno i coglioni”.
Insomma oltre
che preoccuparci di argomentare nel modo più rigoroso ed efficace, dobbiamo
interessarci alla persona a cui il nostro argomentare è rivolto.
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Le libertà
individuali, nella nostra civiltà, sono sancite anche formalmente: ad ogni
uomo, in quanto uomo, è assegnato un pacchetto di diritti considerati
inviolabili. Ad ogni uomo a partire da una certa età. Quell’età è stata poi via
via abbassata ed è stata riconosciuta piena capacità giuridica ad individui
sempre più giovani.
Si è diffusa
poi la tendenza ad abbassare pure l’età dalla quale lasciar cominciare ad
operare in proprio anche scelte di tipo esistenziale. E si è giunti a
teorizzare l’opportunità di astenersi dall’influenzare tali scelte, per
lasciarle tutte aperte, tutte egualmente accessibili.
A chi ha compiti
educativi è stata impartita questa direttiva: far sviluppare la personalità
senza condizionamenti.
La questione dei
possibili condizionamenti è diventata a un certo momento, nella nostra cultura,
la prima delle preoccupazioni ed estremizzata fino a scrivere quanto segue.
“Una caratteristica fondamentale dei sistemi educativi tradizionali, e di
conseguenza anche di quelli attuali, è che essi fanno perno, in misura radicale,
su una persona adulta che si prende il compito di istruire e educare per un
certo periodo di tempo un certo numero di discenti: l’insegnante. Il
funzionamento, l’efficacia, l’efficienza del sistema educativo dipendono in
modo praticamente totale da questa persona, dalle sue qualità, competenze,
motivazioni, disponibilità. Un sistema educativo adatto alle società complesse,
attuali richiede che l’educazione sia affidata in misura considerevole a
meccanismi o ambienti di auto-educazione, con i quali i ragazzi possono
interagire e apprendere senza il necessario intervento di un insegnante. Le
tecnologie attuali, in particolare quelle informatiche, offrono i mezzi per lo
sviluppo di questi ambienti di auto-educazione” (Domenico Parisi, Riforma della
scuola, febbraio 1988, anno 34, n.2).
Insomma Parisi
preferisce i robot agli insegnanti. I robot, che non hanno né cuore né
cervello, non propongono un progetto di vita.
La proposta di
Parisi è sintomatica di una mentalità: la scuola si astenga dal proporre ai
giovani modelli di comportamento. L’insegnante deve limitarsi ad essere un
dispensatore di conoscenze.
Passa in secondo
piano il ruolo dell’educatore. E ciò in contrasto con una lunghissima
tradizione pedagogica che ha origine nel presbyter, l’anziano, che,
oltre che istruire, trasmetteva valori, incarnava la continuità della
società.
Anche la famiglia
oggi (non solo la società), in alcuni casi, non offre un modello di
comportamento, non coinvolge, in alcuni casi, il giovane in un progetto di
continuità. La famiglia, fondata sul matrimonio sacrale (il matrimonio del
‘per sempre’), perseguiva la stabilità come un valore: era impegnata in
un progetto di continuità che permetteva di vincere il tempo superando i limiti
delle generazioni. I figli si sentivano anelli di una catena: ricevevano
un’eredità, si caricavano di un impegno. Il nipote assumeva il nome del nonno.
La famiglia di
oggi è costruita attorno ad un contratto da cui si vuole poter recedere con non
troppa difficoltà per garantire ai contraenti il diritto di ritornare a
scegliere in libertà. Perciò è più difficile, ora, coinvolgere i figli in
un progetto di continuità.
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In conclusione,
nella società attuale, essendo cambiato il concetto generale di educazione e, in
particolare, essendo cambiata l’atmosfera familiare, segmento base
dell’educazione, è assai più probabile che in passato che un giovane parta per
il viaggio nella vita con lo zaino vuoto.
Per alcuni tale
immensa libertà di scelta è di stimolo per un maggiore impegno individuale. Per
altri (i più?) è un handicap: la libertà totale è vissuta e sofferta come
un’imposizione. Gaber parla di “libertà obbligatoria”. Non c’è da
meravigliarsi quindi se gli individui più fragili stentano a trovarla, la
propria direzione. Si avviliscono. Si fermano. Rinunciano. Si costringono nella
sola dimensione del presente. Trascurano forme meno immediate di
gratificazione ed attratti dall’edonismo tout court, sregolano la propria
lucerna, per bruciare in una sola ‘fiammata’.
Dice Vasco
Rossi: “non importa se la vita sarà breve” è più importante “godere”. “Godere”
come programma da soddisfare nell’immediato attraverso “sensazioni forti, sempre
più forti”, precisa. La scelta appare consapevole, quasi razionale, di
sconvolgente lucidità. “Noi – dice – siamo quelli che poi muoiono
presto,/quelli che però è lo stesso”.
Poveri kamikaze
di un proprio disperato edonismo!
E’ una malattia
sociale. Qualcuno la chiama sindrome amotivazionale.
Il miglior modo
per fronteggiarla, come per ogni malattia, è prevenirla.
Per prevenire la
sindrome amotivazionale bisognerebbe reintrodurre norme sui comportamenti
individuali. Qualcuno ci sta pensando davvero. Eugenio Scalfari, da sempre
considerato un Voltaire, sembra fare riferimento a Pascal quando scrive “Alla
ricerca della morale perduta”. E Gaber canta: “viene la voglia un po’
anormale di inventare una morale”. Ma, chiaramente, deve aggiungere subito dopo:
“utopia, utopia, utopia…”. Le morali non si inventano, non si creano a
tavolino. E, soprattutto, non si impongono, nella nostra civiltà.
Secondo
l’Alberoni “per uscire dalla droga l’individuo deve entrare, come convertito, in
una nuova società”. E sembra quasi applaudire ‘società artificiali’ alla
Muccioli: “una comunità capace di diventare un oggetto collettivo totale è più
forte della droga. Ma per riuscirci deve assorbire totalmente l’individuo.
Essere organizzata come una repubblica, come uno Stato, con proprie leggi,
regole, propri valori, con premi e punizioni, con un capo carismatico”.
Si ipotizza una
‘società’ che è estranea alla nostra civiltà.
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Ho detto
all’inizio che, nella nostra civiltà, le libertà individuali hanno raggiunto
un livello straordinario. Quasi come se vivessimo isolati. In effetti non
viviamo isolati. Siamo in una civiltà. Da millenni. Questo vivere assieme per
tanto tempo ha sedimentato una piattaforma di convinzioni ed opinioni
comuni, che non si è dissolto col processo di desacralizzazione. E questa
piattaforma è rimasta più solida là dove la gente condivide da secoli una
stessa terra, una stessa storia, una stessa tradizione. Cioè quando ha
costruito una comunità..
In un mondo che
non ha più valori, certezze, saperi ‘veri’ da trasmettere e da additare alle
nuove generazioni, il senso di appartenenza ad una comunità rappresenta un
punto di riferimento. E può essere adoperato per far partecipe l’individuo di un
flusso di continuità, per rinsaldargli attorno una rete di rapporti che ne
eviti l’isolamento.
Insomma, il senso
di appartenenza ad una comunità può essere adoperato come vaccino contro la
sindrome amotivazionale.
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Noi – noi di San
Marino – viviamo in un aggregato politico che è una comunità. Ed è una comunità
dai toni forti, nel senso che ha una identità forte.
Quindi, per noi,
può essere meno difficile che per altri, riaccendere la speranza della
solidarietà. La vera libertà, dice Gaber, “non è stare sopra un albero …
Libertà è partecipazione”. Cioè solidarietà
Anche da noi non
mancano le occasioni per la solidarietà. Anche da noi, come in tutte le società
moderne, c’è una sproporzione fra la domanda di assistenza da parte dei
cittadini e la risposta da parte dello Stato che rimane comunque insufficiente.
Ha senso, a mio
parere, in queste condizioni valutare l’opportunità di attivare una struttura
organizzativa che risponda al duplice fine di educare i giovani alla solidarietà
e, nello stesso tempo, di far fronte alle necessità sociali altrimenti
insoddisfatte. Una struttura che impegni tutti i giovani.
Tutti i giovani a
partire da una certa età (18-20 anni), potrebbero mettere a disposizione un
certo numero di giornate all’anno (5-10) per un congruo numero di anni (da 3 a
5). Questa struttura – diciamo così, di ‘volontariato istituzionalizzato’ –
oltre a contribuire a soddisfare autentici bisogni sociali, educherebbe i
giovani alla solidarietà facendoli lavorare nel campo della solidarietà, come
si insegna ai giovani ad imparare facendoli studiare, ad essere democratici
crescendoli in un ambiente regolato secondo democrazia.
Fra l’altro, la
struttura fornirebbe una occasione concreta a tutti i giovani per riflettere
sulle problematiche più attuali (droga, Aids, dinamiche familiari ecc.) nel
momento, per essi, di maggior pericolo o interesse, e per rinsaldare i legami
interni alla comunità, migliorandone la conoscenza (storia, istituzioni,
leggi, norme).
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