CONSIDERAZIONI SULLE DROGHE (Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII, Anno scolastico 1994-95)

CONSIDERAZIONI SULLE DROGHE (Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII,   Anno scolastico 1994-95)

CONSIDERAZIONI SULLE DROGHE

(Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII, 

Anno scolastico 1994-95)

 

Premetto che
questa  è  una riflessione  di taglio molto personale, come è personale la
proposta che ne viene fuori. D’altra parte, si sa, di fronte alla droga, i modi
di porsi sono assai differenziati in quanto dipendono,  più che  dal ruolo di
una  persona, dal  sistema  di convinzioni che stanno alla base del suo modo di
vivere.

 

 ***

Ciascuno ha un
proprio  modo di vivere: la  diversità dei modi di vivere è   caratteristica 
della nostra civiltà.

Noi viviamo in
società, cioè gomito a gomito con   altri, come del resto avviene in ogni
civiltà. Nella nostra, però, l’individuo è libero di scegliere i propri
comportamenti quasi vivesse fuori di una civiltà, cioè isolato, solitario. E’ un
fatto che non si riscontra, o non si riscontra in egual misura, in  altre
civiltà,  né del passato né di altri luoghi della terra.

E’ una 
singolarità propria  di questa nostra civiltà,  sviluppatasi  nell’Europa
Occidentale negli  ultimi secoli: la  sfera  delle libertà individuali si è
fatta amplissima: ogni individuo può assumere i comportamenti che crede, purché
non leda un qualche legittimo  diritto di altri, cioè in pratica la libertà di
altri.

 

E’ il traguardo
di  un cammino cominciato oltre  5000 anni fa, quando si formarono le prime 
aggregazioni umane di una certa consistenza, messe assieme col  cemento della
religione. Venivano caricate di valenza religiosa   anche  norme che oggi
diremmo  di comportamento civile. Anche consigli sanitari. La violazione di una
norma, anche nel privato, era una offesa al dio della città. Perciò aveva  
rilevanza pubblica. La  reazione del dio si sarebbe abbattuta sull’intera città.

 

La nostra civiltà
invece è  del tutto desacralizzata. Le  norme  sono di tipo contrattuale.
Regolano solo i rapporti fra individuo e collettività. Non oltrepassano la
soglia del privato, non pongono vincoli ai comportamenti individuali.

Fino a non molto
tempo fa,  solo  le élites, nella nostra società,  usufruivano di queste
condizioni di libertà. Ora, queste, sono un fenomeno di massa.

E si tratta di
una  libertà grande, enorme, una libertà pressoché  totale. Una libertà da
“vertigine”, dice Gaber.  Ci si sente “liberi come l’aria”. Ciascuno può dire: 
“son padrone del mio destino”, “posso mettermi un orecchino”, “sono infedele e
sono matto”, “posso far tutto”. Gaber snocciola  una litania di “si può”. Una
litania senza fine per una libertà senza limite, alla quale nessuno oppone un
divieto, segna un  confine, impone uno stop. “Si può contestare e parlar male”,
“si può fare i giovani a 60 anni”, “si può regalare i blue-jeans ai nonni”, “si
può occuparsi di spiritismo”, “si può far dibattiti sull’orgasmo”, “si può
divertirsi con il digiuno”, “e dopo tante battaglie e volendo puoi anche farti
uno spinello, il ‘libanese’ è il migliore, tra poco dovrebbe cominciare la
pubblicità in un nuovo carosello”.

 

Accendere quello
spinello è un gesto che si situa nel privato. 

Vasco Rossi è 
molto esplicito: “Sono arrivati in casa ed hanno detto:  tirala fuori… Ho
obbedito e sono finito in prigione… sentivo di patire una ingiustizia
gravissima. Non avevo fatto male a nessuno. Mi sentivo un perseguitato come
Silvio Pellico”.

Silvio Pellico,
nell’immaginario popolare, è  un martire della libertà. Per ogni italiano è un
simbolo di libertà. Nessuno può schierarsi dalla parte degli  aguzzini di Silvio
Pellico.

 

Insomma
l’individuo non sopporta che la società  imponga vincoli al suo comportamento
nel privato. Ebbene secondo Francesco Alberoni sta proprio qui il nocciolo della
questione: “la droga si diffonde quando si incrinano l’amore, la fiducia, la
dedizione, il cordone ombelicale che unisce gli individui alla loro società”.

 

***

E’ impensabile
che si possa  estirpare il fenomeno droga,   in  un contesto socio-culturale che
mitizza  il “posso far tutto”.

Realisticamente,
non ci resta che dedicare  il nostro sforzo a contenere il fenomeno, coi mezzi
che, caso per caso, abbiamo a disposizione,

 

Non  è
utilizzabile  la coercizione, perché ormai fuori dai nostri schemi mentali.   Sì
invece  all’informazione.  La medicina, ad esempio,  ha conseguito risultati
storici nel campo delle malattie infettive, con una informazione puntuale,
rigorosa, scientifica. Tale successo non si sta  ripetendo per la droga.  Si
constata addirittura una controindicazione nel caso di  individui al di sotto di
una certa età (16-18 anni) o di  soggetti immaturi.

 

Il mezzo migliore
è certamente la convinzione.   Convincere (come insegnare) è una operazione
complessa. Non è un processo deterministico. Non è sufficiente imbastire un
discorso rigoroso,  magari fatto di sillogismi,  a mo’ di  una dimostrazione. 
L’interlocutore potrebbe condividere il ragionamento, condividere il risultato
sotto l’aspetto logico, ma poi  rifiutarlo ugualmente, cioè non farlo  proprio.

 

 Dice Leopardi:
“Non basta intendere  una proposizione vera” per accettarla,  “bisogna sentirne
la verità”. 

Spesso non c’è
nemmeno disponibilità ad ascoltare. Sostiene, infatti,  Vasco Rossi: “Certo,
sulla droga, come sull’Aids è giusto informare. Ma lo Stato non deve pensare di
poter risolvere problemi che sono individuali. Deve fornire servizi e rompere
meno i coglioni”.

 

 

Insomma oltre
che  preoccuparci di argomentare nel modo più rigoroso ed efficace, dobbiamo
interessarci alla  persona a cui il nostro argomentare è rivolto.

 

***

Le  libertà
individuali, nella nostra civiltà,  sono  sancite anche formalmente:    ad ogni
uomo, in quanto uomo, è assegnato  un pacchetto di diritti considerati
inviolabili. Ad ogni uomo a partire da una certa età. Quell’età  è stata poi via
via abbassata ed è  stata riconosciuta   piena capacità giuridica  ad individui 
sempre  più giovani.

Si è  diffusa 
poi  la tendenza ad abbassare pure l’età dalla quale lasciar cominciare ad 
operare in proprio  anche scelte di tipo esistenziale. E si è giunti a
teorizzare  l’opportunità di  astenersi dall’influenzare tali scelte, per
lasciarle tutte aperte,  tutte egualmente accessibili.

 

A chi ha compiti
educativi è stata impartita questa direttiva:  far sviluppare la personalità
senza condizionamenti.

La questione dei
possibili condizionamenti è diventata a un certo momento, nella nostra cultura,
la prima delle  preoccupazioni ed  estremizzata fino a  scrivere quanto segue.
“Una caratteristica fondamentale dei sistemi educativi tradizio­nali, e di
conseguenza anche di quelli attuali, è che essi fanno perno, in misura radicale,
su una persona adulta che si prende il compito di istruire e educare per un
certo periodo di tempo un certo numero di discenti: l’insegnante. Il
funzionamento, l’effi­cacia, l’efficienza del sistema educativo dipendono in
modo praticamente totale da questa persona, dalle sue qualità, compe­tenze,
motivazioni, disponibilità. Un sistema educativo adatto alle società complesse,
attuali richiede che l’educazione sia affidata in misura considerevole a
meccanismi o ambienti di auto-educazione, con i quali i ragazzi possono
interagire e apprendere senza il necessario intervento di un insegnante. Le
tecnologie  attuali, in particolare quelle infor­matiche, offrono i mezzi per lo
sviluppo di questi ambienti di auto-educazione” (Domenico Parisi, Riforma della
scuola, feb­braio 1988, anno 34, n.2).

 

Insomma  Parisi  
preferisce i  robot agli insegnanti. I  robot, che non hanno  né cuore né 
cervello,   non propongono un progetto di vita.

La proposta di
Parisi  è sintomatica di una mentalità: la scuola  si astenga dal proporre ai
giovani modelli  di comportamento.  L’insegnante deve limitarsi ad essere un 
dispensatore di conoscenze.

Passa in secondo
piano il ruolo dell’educatore.  E ciò in contrasto con  una lunghissima
tradizione pedagogica che  ha origine  nel presbyter, l’anziano,   che, 
oltre che istruire,  trasmetteva  valori,  incarnava la  continuità della
società.

 

Anche la famiglia
oggi (non solo la società), in  alcuni casi,  non offre  un modello di
comportamento, non  coinvolge, in alcuni casi, il giovane in un progetto di
continuità. La famiglia,  fondata  sul matrimonio sacrale (il matrimonio del 
‘per sempre’),  perseguiva la stabilità come un valore:  era impegnata in
un progetto di continuità che permetteva di vincere il tempo superando i limiti
delle generazioni. I figli si sentivano anelli  di una catena:  ricevevano
un’eredità, si caricavano di un impegno.  Il nipote assumeva  il nome del nonno.

La famiglia  di
oggi è  costruita attorno ad un contratto da cui si vuole poter recedere con non
troppa difficoltà per garantire ai contraenti il diritto di ritornare a
scegliere in libertà. Perciò è più difficile, ora,    coinvolgere  i figli   in
un progetto  di continuità.

 

***

In conclusione,
nella società attuale, essendo cambiato il concetto generale di educazione e, in
particolare, essendo cambiata l’atmosfera familiare, segmento base
dell’educazione, è assai più probabile che in passato che un giovane parta   per
il viaggio nella vita  con lo zaino vuoto.

Per  alcuni  tale
immensa libertà di scelta è di stimolo per un maggiore impegno individuale. Per
altri (i più?)  è  un handicap: la libertà totale è vissuta e sofferta  come 
un’imposizione. Gaber  parla di   “libertà obbligatoria”. Non c’è da
meravigliarsi  quindi se gli individui più fragili  stentano a trovarla,  la 
propria direzione.  Si avviliscono. Si fermano. Rinunciano. Si costringono nella
sola dimensione del presente.  Trascurano   forme   meno immediate di
gratificazione ed  attratti dall’edonismo tout court, sregolano la propria
lucerna, per bruciare in una sola ‘fiammata’.

Dice Vasco
Rossi:  “non importa se la vita sarà breve” è più importante “godere”. “Godere”
come programma da soddisfare nell’immediato attraverso “sensazioni forti, sempre
più forti”, precisa. La scelta appare consapevole,  quasi razionale, di
sconvolgente lucidità.  “Noi – dice – siamo quelli che poi muoiono
presto,/quelli che però è lo stesso”.

Poveri  kamikaze
di un proprio disperato edonismo!

 

E’ una malattia 
sociale. Qualcuno la chiama sindrome amotivazionale.

Il miglior modo
per fronteggiarla, come per ogni malattia,  è prevenirla.

Per prevenire la 
sindrome amotivazionale  bisognerebbe reintrodurre norme sui comportamenti
individuali. Qualcuno ci sta pensando davvero. Eugenio Scalfari, da sempre
considerato un Voltaire, sembra fare riferimento a Pascal quando scrive  “Alla
ricerca della morale perduta”.  E  Gaber canta:  “viene la voglia un po’
anormale di inventare una morale”. Ma, chiaramente, deve aggiungere subito dopo:
“utopia, utopia, utopia…”.   Le morali non si inventano, non si creano a
tavolino. E, soprattutto,  non  si impongono, nella nostra civiltà.

 

Secondo
l’Alberoni “per uscire dalla droga l’individuo deve entrare, come convertito, in
una nuova società”. E sembra quasi   applaudire ‘società artificiali’ alla
Muccioli: “una comunità capace di diventare un oggetto collettivo totale è più
forte della droga. Ma per riuscirci deve assorbire totalmente l’individuo.
Essere organizzata come una repubblica, come uno Stato, con proprie leggi,
regole, propri valori, con premi e punizioni, con un capo carismatico”.

Si ipotizza una
‘società’ che  è  estranea alla nostra civiltà.

 

***

Ho detto
all’inizio che, nella nostra civiltà,  le libertà individuali  hanno  raggiunto
un livello straordinario. Quasi come se vivessimo isolati. In effetti non
viviamo isolati.  Siamo in una civiltà. Da millenni.  Questo vivere assieme per
tanto tempo  ha sedimentato una piattaforma   di  convinzioni ed opinioni
comuni, che non si è dissolto col processo di desacralizzazione. E questa
piattaforma   è rimasta  più solida  là dove la gente  condivide da secoli una
stessa terra,  una stessa storia,  una  stessa  tradizione. Cioè quando  ha
costruito  una comunità..

In un mondo  che
non ha più valori, certezze, saperi ‘veri’ da trasmettere e da additare  alle
nuove generazioni, il senso di appartenenza ad una comunità rappresenta  un
punto di riferimento. E può essere adoperato per far partecipe l’individuo di un
flusso di continuità, per rinsaldargli attorno una  rete di rapporti che ne
eviti l’isolamento.

Insomma, il senso
di appartenenza ad una comunità può essere adoperato come vaccino  contro la
sindrome amotivazionale.  

 

***

Noi  – noi di San
Marino – viviamo in un aggregato politico che  è una comunità. Ed è una comunità
dai toni  forti, nel senso che ha  una  identità forte.

Quindi, per noi,
può essere meno difficile che per altri, riaccendere la speranza della
solidarietà. La vera libertà, dice Gaber, “non è stare sopra un albero …
Libertà è partecipazione”. Cioè solidarietà

Anche da noi non
mancano le occasioni per la solidarietà. Anche da noi,  come in tutte le società
moderne, c’è una sproporzione fra la domanda  di assistenza da parte dei
cittadini e la risposta da parte dello Stato che rimane comunque  insufficiente.

Ha senso,  a mio
parere,  in queste condizioni valutare l’opportunità di attivare  una struttura 
organizzativa che risponda al duplice fine di educare i giovani alla solidarietà
e, nello stesso tempo, di far fronte alle necessità sociali altrimenti
insoddisfatte. Una struttura che impegni tutti i giovani. 

Tutti i giovani a
partire da una certa età (18-20 anni),  potrebbero  mettere  a disposizione un
certo numero di giornate all’anno (5-10) per un congruo numero di anni (da 3 a
5). Questa struttura – diciamo così, di  ‘volontariato istituzionalizzato’ –
oltre a contribuire a soddisfare autentici bisogni sociali, educherebbe i  
giovani alla solidarietà  facendoli lavorare nel campo della solidarietà, come
si  insegna ai giovani ad imparare facendoli studiare, ad essere democratici 
crescendoli   in un ambiente regolato secondo  democrazia.

 

Fra l’altro, la
struttura fornirebbe una occasione concreta a tutti i giovani per riflettere
sulle  problematiche più attuali (droga, Aids, dinamiche familiari ecc.) nel
momento, per essi, di maggior pericolo o interesse, e per rinsaldare i legami
interni alla comunità,  migliorandone  la conoscenza (storia,   istituzioni,  
leggi,  norme).

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