I fatti di Rovereta. Quando San Marino rischiò la guerra civile. Di Marino Cecchetti

I fatti di Rovereta. Quando San Marino rischiò la guerra civile. Di Marino Cecchetti

PREMESSA

Questa ricostruzione dei fatti del 1957 è del tutto personale e non implica in alcun modo la responsabilità del Partito Democratico Cristiano Sammarinese, pur essendo stata confezionata e presentata in occasione della specifica Conferenza promossa da detto Partito il 1° dicembre 2004 a Domagnano nella Sala del Castello.
La ricostruzione non è esaustiva. Si limita a cogliere alcuni momenti della vicenda nel periodo cruciale, 19 settembre – 14 ottobre.

– 1 – SUL SAGRATO DELLA PIEVE

Il 19 settembre, alle ore 16,30 circa, sul sagrato della Pieve, il prof. Federico Bigi annuncia al paese che si è costituita una nuova maggioranza politica.
La nuova maggioranza è formata da 31 consiglieri: 23 del PDCS (Partito Democratico Cristiano Sammarinese); 2 del PSDS (Partito Socialista Democratico Sammarinese); 5 del PSIS (Partito Socialista Indipendente Sammarinese); 1 indipendente di sinistra. Ciò a seguito di una spaccatura del PSS (Partito Socialista Sammarinese) e della fuoruscita di un consigliere dal gruppo consiliare del PCS (Partito Comunista Sammarinese).
PCS e PSS avevano, fino ad allora, governato la Repubblica a partire dal dopoguerra con maggioranze a volte risicate a volte ampie, tuttavia sempre stabili. Nelle ultime elezioni politiche (1955) i due partiti avevano raggiunto 35 seggi, sia pure in un clima infiammato dalla denuncia, da parte del PDCS e del PSDS, di una scorrettezza nel fissare la data delle elezioni e di brogli nel loro svolgimento.
A metà legislatura si verificarono degli spostamenti nei gruppi consiliari che, nel giro di un anno circa, diedero luogo alla nuova maggioranza.
I cambiamenti di governo che avvengono in questo modo, cioè non a seguito di nuove elezioni o di nuove alleanze fra partiti, generano sempre polemiche e tensioni. In questo caso la tensione è altissima.
Lì, sul sagrato della Pieve, le orecchie di tutti prestano ascolto a Bigi, ma gli occhi – pure quelli di Bigi – corrono laggiù in fondo alla piazza dove forse c’è un tafferuglio o qualcuno sta urlando qualcosa.
Quello stesso 19 settembre avrebbe dovuto aver luogo, alle ore 15, una seduta del Consiglio.
I 31 consiglieri, secondo gli ultimi accordi presi nella notte, avevano raggiunto alla spicciolata la casa dell’avv. Forcellini, uno dei loro, già alle 13,30 per concordare gli interventi e recarsi poi assieme a Palazzo.
Nelle stesse ore il Pianello, la piazza antistante il Palazzo Pubblico, era andato riempiendosi di sostenitori del governo in carica.
I 31 erano ancora in Casa Forcellini quando arrivò loro la notizia che la seduta del Consiglio era stata annullata.
Poco prima delle 15 sulle porte del Palazzo era comparso un manifesto con cui la Reggenza annunciava di aver ricevuto n. 34 lettere di dimissioni di consiglieri del PCS e del PSS, per cui il Consiglio doveva ritenersi sciolto. A breve sarebbe stata fissata la data delle elezioni politiche.
I 31, nonostante il comunicato della Reggenza, decisero di presentarsi regolarmente a Palazzo. Fendendo la folla minacciosa degli avversari – scrive Casali nel suo diario – guadagnarono la loggetta, decisi a raggiungere comunque la Sala del Consiglio. Ma si trovarono i portoni sbarrati. Solo la piccola porticina era aperta. Aperta, ma con l’accesso impedito da gendarmi, vigili, uomini della milizia.
Al comando di questi uomini c’era il Capitano dei Carabinieri Ettore Sozzi, Comandante della Gendarmeria ed Ispettore della Polizia Urbana. Dopo una ventina di minuti, i 31 avevano dovuto desistere per evitare il peggio. Qua e là, sul Pianello, stavano scoppiando dei tafferugli fra i sostenitori dei diversi schieramenti.
I 31, una volta ritornati in Casa Forcellini, si erano dati una prima struttura organizzativa nominando un Comitato Esecutivo nelle persone di Federico Bigi, Alvaro Casali, Pietro Giancecchi e Zaccaria Giovanni Savoretti, e avevano stilato il proclama letto poi da Bigi davanti alla Pieve.

– 2 – LA MANCATA RIUNIONE DEL CONSIGLIO

I 31 consiglieri costituenti la nuova maggioranza, col proclama letto da Bigi dal sagrato della Pieve, rivendicano il diritto-dovere di assumere la guida del paese. Diritto-dovere che non possono esercitare perché la vecchia maggioranza impedisce loro l’ingresso nel Palazzo Pubblico. Essi denunciano al paese e al mondo civile che tale atto è illegittimo e che rappresenta un autentico colpo di Stato. Tuttavia non procedono alla creazione di un nuovo governo: un governo della Pieve contro quello del Palazzo. Nemmeno eleggono i nuovi Capitani Reggenti. Si limitano a stigmatizzare, questo sì, l’abuso compiuto dai Reggenti in carica che, annullando la seduta del Consiglio, hanno impedito, fra l’altro, l’elezione dei loro successori.
Il Consiglio di quel 19 settembre 1957, infatti, avrebbe dovuto eleggere i nuovi Reggenti per il semestre 1° ottobre 1957-1° aprile 1958. La convocazione del Consiglio per l’elezione dei nuovi Reggenti è un atto obbligatorio dei Reggenti in carica. Lo stabiliscono gli Statuti. Lo ribadisce a chiare lettere l’art. 1 della legge 24 marzo 1945, che, riprendendo gli Statuti, recita: In un giorno della seconda decade di marzo e settembre, convocato all’uopo il Consiglio Grande e Generale nelle ore pomeridiane, dopo aver invocato il Santo in Pieve, da parte della Reggenza … debbasi aprire la seduta, e dichiarata valida qualunque sia il numero dei Consiglieri intervenuti.
Non procedendosi all’elezione dei nuovi Reggenti, va da sé che è prolungato automaticamente il mandato di quelli in carica. Il prolungamento è proibito dagli Statuti: In nessuna maniera possono essere confermati nel loro ufficio oltre il semestre, ché anzi, scaduto che sia, la loro giurisdizione sia e s’intenda essere finita. I Reggenti cambiano ogni sei mesi da sempre: fin dai primi Statuti che si conoscono, quelli degli inizi del Trecento.
In realtà il prolungamento del mandato dei Capitani Reggenti oltre i sei mesi talvolta c’è stato. Ma eccezionalmente. Per fronteggiare situazioni particolari esterne o interne. E solo, sempre e comunque, per decisione del Consiglio.
Un caso di prolungamento del mandato reggenziale per ragioni esterne si è verificato, ad esempio, nel 1787. Il paese era appena uscito da un blocco militare messo in atto dallo Stato della Chiesa. Stentava a riprendersi e la situazione non era ancora del tutto risolta. Il 18 marzo il Consiglio, anziché procedere alla elezione dei nuovi Capitani Reggenti, riconfermò all’unanimità per altri sei mesi quelli in carica nonostante la ripugnanza degli interessati.
Un caso di prolungamento del mandato reggenziale per ragioni interne si è verificato nel 1920. Il paese era squassato da tensioni sociali. Incombeva la minaccia di pericoli esterni. Si introdusse una nuova legge elettorale e si avvertì il bisogno di applicarla subito. Il 18 settembre il Consiglio decise all’unanimità di convocare nuove elezioni per il 14 novembre. Poi con una votazione specifica – e piuttosto tirata – deliberò di prolungare il mandato dei Capitani Reggenti in carica fino alla prima convocazione del nuovo Consiglio.
In entrambi i casi – questo è il punto – è stato il Consiglio a decidere. Ed il Consiglio, in entrambi i casi, ha deciso con una votazione specifica. Invece il 19 settembre 1957, praticamente, sono i Reggenti stessi a prolungarsi il mandato. È un fatto che è al di fuori dell’ordinamento, della storia, della tradizione ed anche del comune modo di pensare della gente sammarinese. Deve aver avuto un’origine necessariamente esterna all’ambito sammarinese.

– 3 – IL CONTESTO INTERNAZIONALE

All’esterno, in quel periodo della storia, il mondo è diviso in due blocchi: comunismo e anticomunismo. L’Europa stessa è tagliata (e nella parte centrale) da un confine artificiale, la cosiddetta ‘cortina di ferro’. Da una parte sono schierati gli Stati che internamente si sono organizzati sui principi del comunismo e fanno capo alla Russia, dall’altra, con varie sfumature, gli Stati che si oppongono all’avanzata del comunismo e fanno capo agli Stati Uniti d’America.
San Marino è una anomalia geo-politica: sta nell’area degli Stati anticomunisti, ma è retto da un governo a maggioranza comunista.
Per il mondo comunista quel che sta succedendo a San Marino è un tentativo degli anticomunisti di eliminare l’anomalia sammarinese. Per gli anticomunisti è la dimostrazione che i comunisti, una volta giunti al potere, non lo mollano più, anche se perdono la maggioranza in parlamento.
Il comunismo si radica in Russia durante la prima guerra mondiale. Si diffonde nei paesi circostanti con la seconda guerra mondiale. Poi continua ad espandersi in ogni direzione sotto la guida di un leader carismatico, Giuseppe Stalin, proponendo all’umanità un sogno, un’utopia: riorganizzare la società, ogni società, in modo che un uomo non possa sfruttare mai un altro uomo. È una sfida ideologica, politica ed economica, cioè a tutto campo, quella in atto fra comunismo ed anticomunismo. La divisione passa dentro gli Stati, dentro la società, perfino, talvolta, dentro le famiglie.
La scelta del comunismo a livello individuale per alcune persone è totalizzante. Come l’adesione a una nuova religione. Una religione laica che comporta non meno impegni e sacrifici di quelle tradizionali. Per il neofita del comunismo, le divisioni fra Stati, i nazionalismi, le tradizioni legate a un luogo non hanno più senso di fronte a quel progetto planetario che parla all’uomo in quanto uomo. Il comunismo avanza come un blocco monolitico, senza dubbi, senza incertezze. Come una nuova verità scientifica. Si parla di ‘metodo scientifico’, fra i comunisti, anche quando si devono affrontare problemi sociali o addirittura questioni relative alla persona.
Il neofita di questa nuova religione laica non ha incertezze. Vista la nobiltà del fine, si giustifica l’uso di ogni mezzo, sia a livello di Stato che di singolo, per raggiungerlo. Si accetta anche di vivere sotto un regime dittatoriale. I difetti, come ad esempio la mancanza di democrazia, si correggeranno dopo il trionfo totale, quando non ci saranno più nemici da combattere e il comunismo si sarà affermato universalmente.
All’improvviso, nel febbraio del 1956, le prime crepe nel comunismo ed i primi dubbi nelle menti di diversi aderenti. Nikita Krusciov, succeduto a Stalin alla guida della Russia e del comunismo mondiale, il 14 febbraio, nel corso di un congresso del partito comunista sovietico, manda in frantumi il mito di Stalin. Desacralizza Stalin. Anzi lo demonizza. Sconcerto nel mondo comunista. Fra i neofiti c’è chi comincia ad essere tormentato dal dubbio. Poco dopo, su quelle ferite ancora aperte, piovono manciate di sale. Il 28 giugno a Poznan, in Polonia, contro gli operai scesi in piazza per rivendicare migliori condizioni di vita, le forze dell’ordine sparano: 48 i morti. Il 20 ottobre comincia la rivolta d’Ungheria. Durerà un mese. Sarà repressa dalla Russia manu militari: centinaia e centinaia i morti.
Alcuni aderenti al comunismo, di fronte a tali fatti, delusi ed amareggiati, si ritirano nel privato. Altri si mettono in posizione critica. Ma a rilanciarlo, il comunismo, ecco, l’anno successivo ed all’improvviso, un bip bip che viene dallo spazio. La Russia ha messo in orbita un satellite artificiale, lo Sputnik. Una nuova luna. Sconcerto fra gli anticomunisti, esaltazione fra i comunisti.

– 4 – IL CONTESTO ITALIANO

Quel bip bip dà la sveglia al mondo. Significa che la Russia è all’avanguardia rispetto a tutti gli altri Stati in campo tecnico-scientifico. Perché non dovrebbe esserlo anche in campo socio-politico? Il bip bip dello Sputnik è fascinoso. Il poeta italiano Salvatore Quasimodo, di getto, quella stessa notte del lancio, celebra in versi la grande conquista dell’uomo che, diversamente da Dio, ha continuato a lavorare anche il settimo giorno e così avanti fino a riuscire a uguagliare, dopo miliardi di anni, Dio stesso, aggiungendo stelle nel firmamento a quelle da Lui messe al momento della creazione. La poesia è subito pubblicata in tutta evidenza sull’“Unità”, il giornale del PCI.
Lo scontro, planetario, fra comunismo e anticomunismo coinvolge l’Italia. Anzi l’Italia è un paese di frontiera. Un paese considerato talvolta in bilico da parte degli Stati Uniti d’America per il grande numero di italiani che aderiscono al comunismo: il PCI è il più grande partito comunista dell’Occidente.
Il governo, in Italia, da subito dopo la guerra è in mano alla Democrazia Cristiana che lo gestisce assieme ad alcuni piccoli partiti, fra cui il Partito Socialdemocratico di Giuseppe Saragat. Saragat è un socialista che vuol essere socialista senza essere né comunista né fiancheggiatore del comunismo. Egli rimprovera agli Stati comunisti la mancanza di democrazia. Si caratterizza proprio per il rifiuto assoluto della dittatura. Anche la dittatura del proletariato quale si è instaurata nei paesi al di là della ‘cortina di ferro’, è considerata da Saragat un dittatura tout court.
All’opposizione, in Italia, c’è il PCI guidato da Palmiro Togliatti. Il PCI è affiancato dal PSI di Pietro Nenni che, dopo i fatti d’Ungheria, cerca, però, un avvicinamento a Saragat. L’incontro Nenni-Saragat a Pralognan (località alpina in Francia) fa parlare a lungo i giornali. Ma non avrà seguito. Il congresso del PSS tenutosi poco dopo a Venezia costringerà Nenni a non rompere col PCI.
I governi italiani, nonostante che siano sempre retti da coalizioni incentrate sulla DC e quindi mantengano una certa continuità nella linea politica sia all’interno che verso l’esterno, sono deboli e con durata inferiore all’anno. Dal giugno del 1957 è Presidente del Consiglio il democristiano Adone Zoli. Il suo governo è tutto di democristiani. Un governo monocolore con l’appoggio – non dichiarato ufficialmente – del Movimento Sociale Italiano e dei Monarchici.

– 5 – LA SITUAZIONE SAMMARINESE

A San Marino si ha una situazione politica del tutto opposta a quella italiana: PCS e PSS al governo e PDCS (ossia la DC) all’opposizione. Tuttavia la comunità sammarinese mantiene al suo interno le strutture fondamentali di sempre, cioè quelle tradizionali, o, se si vuole, quelle proprie dei paesi occidentali o capitalisti. Non c’è una modifica sostanziale dell’ordinamento; non si assiste alla soppressione tout court delle libertà politiche e civili; non si procede nella collettivizzazione della economia. Il legame con la Russia ed il comunismo internazionale rimane a livello di attestazioni di comunanza di idealità. A San Marino tengono banco le difficoltà economiche, più che quelle politiche. Le entrate pubbliche faticano a raggiungere i 700 milioni di lire, mentre ce ne vorrebbero almeno altri 100 ogni anno per fare pari. Il debito pubblico cresce anno dopo anno, anche perché l’Italia – tutt’altro che contenta del colore politico del governo del Titano – rallenta l’adeguamento del ‘canone doganale’, cioè del rimborso forfetario dei dazi doganali per le merci provenienti da fuori dell’Italia e destinate al fabbisogno sammarinese.
Nel 1956, proprio mentre il comunismo è in difficoltà sulla scena internazionale ed il PSS per esigenze interne comincia a rivendicare un ruolo più autonomo nella coalizione di governo, il PCS reagisce – almeno sulla carta – con molta durezza. Richiama l’alleato alla comune matrice marxista e propone la risoluzione dei problemi strutturali di fondo del paese, cioè, in pratica, l’avvio della trasformazione radicale della società secondo gli schemi degli Stati del cosiddetto ‘socialismo reale’, cioè quelli siti al di là della cortina di ferro. Ecco i punti del programma: una Costituzione moderna e democratica; un rinnovamento degli organi esecutivi e giuridici; uno sviluppo dell’economia in senso collettivistico e statale. Quello che appare a prima vista un semplice sfoggio di massimalismo, è accompagnato da un fatto concreto: l’instaurazione dei rapporti ufficiali con l’URSS a livello di consolato generale. Viene aperto a San Marino un consolato russo addirittura con rango superiore a quello italiano, attivato sul Titano già alla fine dell’Ottocento. Ovviamente l’iniziativa attira le attenzioni del governo italiano. E non solo quelle del governo italiano. Il 12 luglio c’è la prima visita in Repubblica di detto console russo, con l’accompagnamento di voci di un consistente apporto finanziario sotto forma di prestiti a vario titolo al governo sammarinese.
Poi, in autunno, accadono i fatti d’Ungheria.
Verso la fine dello stesso 1956 esplode nel PSS lo scontro fra la maggioranza guidata da Gino Giacomini, assertrice del mantenimento dell’accordo di governo PSS-PCS, e la minoranza capeggiata dal segretario del partito Casali favorevole al superamento di tale formula per uscire dalla condizione di isolamento del paese. Il dr. Alvaro Casali si dimette da segretario del partito e da direttore del giornale del partito, “Il Nuovo Titano”.
Il 4 febbraio 1957 lo stesso Casali e due suoi compagni di partito e consiglieri, il geom. Domenico Forcellini e l’avv. Giuseppe Forcellini, si dimettono dal Congresso di Stato. E prima della fine dello stesso mese i tre, unitamente ad altri due consiglieri socialisti dissidenti, Federico Micheloni e Pio Galassi, costituiscono un nuovo gruppo – un gruppo di cinque consiglieri – che, nella Sala del Consiglio, va ad occupare anche fisicamente un proprio distinto spazio, al centro dello schieramento parlamentare.
Il 24 marzo la frattura all’interno del PSS è annunciata pubblicamente dai dissidenti in un comizio, frequentatissimo, nel Teatro Titano. Il giorno successivo scatta l’espulsione di Casali dal PSS.
Il 14 aprile viene fondato il PSDIS.
Il governo, benché fin da febbraio ormai potesse contare soltanto su 30 consiglieri, di fatto, per mesi, in Consiglio non si è trovato in grosse difficoltà nel far approvare le leggi o le deliberazioni sottoposte all’esame dell’aula. Nemmeno, però, contro i dissidenti sono state organizzate manifestazioni miranti a impedirne, come più volte minacciato, l’ingresso nella Sala del Consiglio. In sostanza la dissidenza rimane a lungo in mezzo al guado. Ad esempio nel Consiglio del 18 marzo, al momento dell’elezione dei nuovi Capitani Reggenti, i dissidenti non propongono dei loro candidati magari in accordo con l’opposizione. Né votano all’unisono con la maggioranza. Si distinguono scrivendo sulla scheda solo uno dei due nomi proposti dalla maggioranza: quello del candidato socialista, Giordano Giacomini, e non quello del comunista, Primo Marani.

– 6 – LE LETTERE DI DIMISSIONI CON LA DATA IN BIANCO

Con la fondazione ufficiale del nuovo partito, il PSDIS, le cose cambiano.
Era consuetudine del PCS e del PSS far firmare ai loro candidati nelle elezioni politiche una lettera di dimissioni dal Consiglio con la data in bianco. La lettera era lasciata in mano al segretario del partito come garanzia che, in caso di elezione, il soggetto avrebbe continuato a tenere un comportamento in linea con le direttive impartitegli. Anche nel 1955 ciò era avvenuto. Fra gli altri, avevano firmato dette lettere anche quattro dei cinque dissidenti: Casali, i due Forcellini e Micheloni. Non Galassi.
Il PCS preme sul PSS perché si avvalga di quelle lettere nei confronti dei dissidenti, in modo da sostituirli in Consiglio coi primi dei non eletti nella lista presentata nelle elezioni del 1955. Ma Gino Giacomini, leader indiscusso del PSS, sostiene – anche pubblicamente ed anche per iscritto – che una lettera di dimissioni in bianco non è un documento operante automaticamente in sede parlamentare. Insomma non basta, a suo dire, produrre alla Reggenza un pezzo di carta per far dimettere un consigliere contro la sua volontà.
Il PSS tenta un’altra strada. Il 19 maggio viene convocato il Congresso del partito. Vi si discute a lungo dei dissidenti. Al termine i delegati approvano alla unanimità un invito-ordine agli ex compagni che avevano abbandonato il Partito a dimettersi anche dal Consiglio.
I dissidenti socialisti resistono anche a questo ulteriore sollecito, fatto pervenire loro dalla base del partito. Non recedono. Anzi, vista l’insistenza con cui le loro dimissioni vengono chieste, temendo un colpo di mano, corrono ai ripari. Il 25 giugno si presentano davanti alla Reggenza per dichiarare formalmente di considerare nullo il valore delle lettere di dimissioni firmate con la data in bianco nel 1955 e per far presente, una volta per tutte, che non è loro intenzione lasciare il Consiglio. Lo stesso giorno confermano questa loro precisa volontà di rimanere in Consiglio mediante un documento, consegnato alla stessa Reggenza, con le loro quattro firme.
Il colloquio con la Reggenza e la consegna alla stessa del documento firmato contenente le ritrattazioni delle lettere di dimissioni, accrescono enormemente l’irritazione nei confronti dei dissidenti da parte del PSS e dell’intera coalizione governativa. Il 28 giugno il segretario del PSS, Primo Bugli, è costretto a parlarne in Consiglio. Egli invita ancora una volta i dissidenti a rassegnare le dimissioni dal Consiglio stesso, a nome del partito e della maggioranza.
L’invito, seduta stante, è respinto – a nome di tutti i dissidenti – da Casali, il quale annuncia che i membri consiglieri del Partito Socialista Indipendente non daranno le dimissioni e che resteranno invece, al proprio posto per compiere fino in fondo il proprio dovere.
Dunque nel documento consegnato alla Reggenza e nel verbale di una seduta del Consiglio risulta scritto nero su bianco che i dissidenti, nel giugno 1957, hanno dichiarato essere nullo il valore delle lettere di dimissioni con la data in bianco sottoscritte nel 1955 ed hanno espresso chiaramente ed inequivocabilmente la volontà di rimanere in Consiglio fino alla fine del mandato.

– 7 – L’OSCURO PRECEDENTE DEL 1955

I dissidenti, nonostante che abbiano espresso formalmente con un apposito documento consegnato alla Reggenza e con una dichiarazione in Consiglio la loro volontà di non dimettersi, rimangono sul chi vive. Temono un colpo di mano della maggioranza. Già nel 1955 la Reggenza, per favorire la maggioranza, si era assunta la responsabilità di un atto stigmatizzato come gravemente antidemocratico dalle forze di opposizione.
Il 1955 era anno di elezioni. Le precedenti si erano effettuate nel settembre del 1951; la durata della legislatura, per legge, era di quattro anni.
La data di svolgimento delle elezioni era stata posta all’ordine del giorno del Consiglio dell’11 luglio 1955. Si trattava di scegliere una domenica attorno alla metà di settembre. Ebbene, arrivato il momento di esaminare lo specifico comma della data delle elezioni, il 17°, l’ultimo, la Reggenza non aprì la discussione, ma comunicò di aver avocato a sé la decisione. Informò che le elezioni avrebbero avuto luogo il 14 agosto. Il comma non venne trattato. Non fu data a nessuno la possibilità di intervenire. Nemmeno ci fu una votazione per presa d’atto della decisione della Reggenza. La Reggenza comunicò questa sua decisione punto e basta. Aggiunse solo di aver scelto tale data per dar modo ai cittadini che si trovano all’estero, nell’occasione del ferragosto, di partecipare al voto. E precisò che avrebbe mandato immediatamente a pubblicare il relativo manifesto.
Secondo Bigi, il leader dell’opposizione, la Reggenza con questo atto era andata a sostituire una semplice mansione amministrativa riconosciutale dalla legge, quale quella di rendere pubblica la convocazione dei Comizi Elettorali mediante manifesto, con una attribuzione deliberativa che non le spettava e che non era nei suoi poteri.
Si legge nel verbale della seduta: all’annuncio della Reggenza la minoranza protesta e tutta in piedi inveisce contro la Reggenza ed i consiglieri della maggioranza. Nasce una serrata confusione con scambi di parole e di invettive per cui la Reggenza scende dal trono e dichiara sciolta la seduta alle ore 19.
L’opposizione rimase a lungo indecisa se partecipare o no alle elezioni. Infine vi partecipò. Ma le elezioni di quell’anno furono un’altra occasione di accesa polemica. Fra i motivi principali del contrasto, l’identificazione degli elettori ed il loro numero.
L’opposizione, nella prima riunione del Consiglio successiva alle elezioni, il 16 settembre, denunciò come un atto di abuso da parte della Reggenza quell’anticipazione delle elezioni senza una deliberazione del Consiglio.

– 8 – GLI STATI UNITI NELLA VICENDA

Dal 18 luglio al 18 agosto 1957 Bigi è in visita negli Stati Uniti su invito del governo di quel paese. Un fatto eclatante, ma non sorprendente. Ai primi di marzo era stato in visita a San Marino – ignorando del tutto le autorità di governo – un autorevole funzionario dell’ambasciata degli Stati Uniti a Roma, il quale aveva incontrato gli esponenti dei partiti di opposizione e una rappresentanza dei dissidenti socialisti. Casali scrive nel suo Diario di essere andato al colloquio con l’intento di approfondire con il Diplomatico, la disponibilità politica e finanziaria del suo Governo al nostro Paese, nella auspicata evenienza politica di costituire un Governo a San Marino, con l’esclusione dei Comunisti. Gli viene risposto: l’America sicuramente darà quell’appoggio, mai negato ad alcun Paese democratico del mondo.
Il 18 giugno fu il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Gino Giacomini a compiere una visita informale al consolato americano di Firenze per sondare la disponibilità del governo degli Stati Uniti ad assumere una posizione meno intransigente verso San Marino. Egli cercò di recuperare la situazione nei confronti del governo americano, sminuendo il ruolo nel governo della Repubblica svolto dal PCS e manifestando un certo ottimismo circa la possibilità di comporre la frattura coi dissidenti.

– 9 – VERSO LO SCONTRO

L’estate del 1957 non porta novità. Il Consiglio continua ad essere diviso a metà: 30 consiglieri contro 30. Il governo, nell’incertezza, ne rimanda la convocazione. Di rimando in rimando si arriva all’elezione dei Capitani Reggenti per il semestre 1° ottobre 1957 – 1° aprile 1958. I Capitani Reggenti pro tempore non possono non convocare il Consiglio per l’elezione dei loro successori. Lo devono convocare – dicono le norme – fra il 10 ed il 20 di settembre. I Capitani Reggenti Giordano Giacomini e Primo Marani convocano il Consiglio per giovedì 19 settembre 1957 alle ore 15.
Questa volta i dissidenti non voteranno per il candidato socialista proposto dal governo come era avvenuto a marzo. Ora non sono più un gruppo isolato. Assieme a democristiani e socialdemocratici hanno dato vita ad una alleanza chiamata compagine democratica. Mercoledì 18 settembre, proprio alla vigilia del Consiglio, Bigi, Giancecchi e Galassi portano alla Reggenza un documento, sottoscritto da 30 consiglieri. Invitano la Reggenza a prendere atto della perdita della maggioranza da parte dell’attuale coalizione governativa. Chiedono che la seduta consiliare, già indetta, si svolga nel rispetto più rigoroso delle norme legislative. In fine, a mo’ di avvertimento, aggiungono che di ogni atto incostituzionale, di ogni sopruso, di ogni menomazione della libertà, cadrebbe sull’Ecc.ma Reggenza la grave responsabilità di fronte al Paese, al mondo civile e alla storia.

– 10 – I 30 DIVENTANO 31

Lo stesso mercoledì 18 settembre in cui la delegazione della compagine democratica è andata dalla Reggenza per presentare il documento attestante fra l’altro la perdita della maggioranza consiliare da parte della coalizione governativa, comincia a circolare nel paese la notizia che il consigliere Attilio Giannini, eletto nel 1955 come indipendente nella lista del PCS, ha abbandonato la coalizione governativa per unirsi ai 30 consiglieri dell’opposizione.
La voce su Giannini è fondata. Se ne ha conferma il giorno dopo, cioè giovedì 19 settembre: lo stesso giorno in cui è convocato il Consiglio.
Il Consiglio è convocato per le ore 15.
Alle ore 11 Bigi, Giancecchi e Galassi chiedono di nuovo udienza alla Reggenza. Esibiscono un documento firmato dai consueti 30 consiglieri della compagine democratica ed un ulteriore documento firmato da Attilio Giannini, con cui egli dichiara di aderire alla formazione della maggioranza consiliare composta dai gruppi democristiano, socialista indipendente e socialista democratico.
Dunque, Bigi, Galassi e Giancecchi alle ore 11 del 19 settembre comunicano formalmente alla Reggenza che si è costituita una nuova maggioranza consiliare. Con ogni inerente conseguenza – precisano – a partire da quello stesso giorno: nel pomeriggio la nuova maggioranza non avrebbe votato per i Reggenti proposti dal Governo, ma due propri candidati. Fanno sapere, inoltre, di essere preoccupati per la voce … che il Consiglio non si sarebbe più riunito. Nel caso i tre rappresentanti della compagine democratica non esitano ad indicare come responsabile la Reggenza stessa.
La Reggenza assicura Bigi, Giancecchi e Galassi che il Consiglio avrebbe avuto luogo regolarmente.
Appena i tre rappresentanti della compagine democratica lasciano il Palazzo, la Reggenza convoca urgentemente il Congresso di Stato. Il Congresso prende in esame il parere del giurista cesenate avv. Comandini, riportato da Gino Giacomini e Domenico Morganti appena tornati, appunto, da Cesena dove si erano recati di buon’ora, quello stesso giorno.
Poco dopo Gildo Gasperoni per il Partito Comunista ed Enrico Andreoli per il Partito Socialista presentano alla Reggenza le lettere di dimissioni da consiglieri della precedente maggioranza con firme autentiche datate 19 settembre 1957.
Le lettere sono complessivamente 34.
Fra di esse ci sono quelle degli stessi due Reggenti in carica, Giordano Giacomini e Primo Marani. Ci sono quelle di quattro consiglieri eletti nel 1955 nella lista del PSS ed ora appartenenti al PSIS cioè Alvaro Casali, Domenico Forcellini, Giuseppe Forcellini e Federico Micheloni. C’è quella del consigliere Attilio Giannini eletto nel 1955 come indipendente nella lista del PCS, che aveva comunicato per iscritto alla Reggenza poche ore prima di aver lasciato la maggioranza per aderire alla nuova compagine democratica, senza di certo aver espresso la volontà di dimettersi dal Consiglio.
La Reggenza annuncia quindi con un manifesto affisso sulla porta del Palazzo che le sono pervenute appunto le lettere di dimissioni di 34 consiglieri e stabilisce che il Consiglio deve considerarsi sciolto. E con un ordine scritto al Capitano Sozzi dispo­ne che il pubblico Palazzo, dalle ore 14 del 19 corrente e fino a nuovo ordine, rimanga chiuso e presidiato dalle forze di Polizia. È consentito l’accesso ai Segretari di Stato e alle persone da Loro stessi autorizzate.
Nello stesso pomeriggio del 19 settembre la Reggenza emette il decreto che fissa le elezioni per il 3 novembre.

– 11 – DOPO IL 19 SETTEMBRE: LA VOCE DEI GOVERNANTI

I 31 consiglieri della nuova maggioranza con i loro sostenitori, dopo aver tentato invano di entrare nel Palazzo, annunciano dal sagrato della Pieve che avrebbero proseguito il movimento di riscossa fino alla irrevocabile vittoria. Però, poco dopo aver rilasciato tale dichiarazione, i 31, indisturbati, rientrano nelle loro case.
I governanti ed i loro sostenitori, invece, con l’appoggio della forza pubblica, si schierano a difesa del Palazzo paventando forse qualche colpo di mano degli avversari.
Il Governo del Palazzo esprime il suo compiacimento per il fatto che la giornata del 19 corr. sia trascorsa in quel clima di tolleranza e di rispetto che è proprio dei popoli civili e democratici; si dice sicuro di aver adottato legali e statutarie disposizioni per normalizzare una situazione grave e pericolosa; invita a mantenere la calma e la serenità; diffida tutti coloro che hanno responsabilità politiche ad astenersi da qualsiasi iniziativa in contrasto colle leggi e con le disposizioni emanate; avverte che contro chiunque … tenterà di turbare l’ordine pubblico, verranno adottate risolutamente le più severe sanzioni di legge.
Il paese però non rientra nella normalità. La tensione rimane alta. L’attività dei partiti è frenetica.
PCS e PSS ostentano sicurezza e, soprattutto, cercano di giustificare l’operato del governo e della Reggenza, preoccupandosi di respingere le accuse di aver perpetrato un colpo di stato, ledendo il principio della libertà. Sostengono che allorché l’Ecc.ma Reggenza si è trovata di fronte a regolari dimissioni di oltre la metà dei membri del Consiglio Grande e Generale, non poteva fare altro che applicare gli articoli 8 e 11 della legge 15 Ottobre 1920, e cioè ritenere sciolto il Consiglio stesso e convocare i Comizi Elettorali. In sostanza affermano che il Consiglio, avendo perso la metà dei consiglieri, non avrebbe potuto più svolgere la sua funzione. Perciò doveva intendersi sciolto. Il Consiglio, una volta sciolto, non era più nella possibilità di compiere un qualsiasi atto. Compreso quello della nomina dei nuovi Reggenti. È vero, infatti, che la legge 24 marzo 1945 n. 15 autorizza la nomina dei Capitani Reggenti, qualunque sia il numero dei Consiglieri, ma presuppone un Consiglio ancora in piena e legittima funzione. Alle ore 15 di quel 19 settembre 1957 il Consiglio, di fatto, non esisteva più.
PCS e PSS ritengono che si possa uscire dalla situazione solo riconoscendo da parte di tutti la regolarità dello scioglimento del Consiglio effettuato dalla Reggenza ed impegnandosi tutti per dare la possibilità alla gente di esprimersi in serenità attraverso le nuove elezioni già convocate per il 3 novembre. Non c’è motivo per diffidare delle elezioni. Per sfatare ogni sospetto circa la regolarità del loro svolgimento il Governo ha rivolto all’O.N.U. l’invito a inviare qui alcuni suoi fiduciari.

– 12 – DOPO IL 19 SETTEMBRE: LA VOCE DEI 31

La compagine democratica difende il suo diritto-dovere di assumere la guida del paese, denunciando al paese e al mondo il colpo di Stato socialcomunista del 19 settembre 1957. Ritiene di essersi mossa sempre nella piena legalità pur sapendo che i rossi non avrebbero rispettato il gioco democratico e che con ogni mezzo e con qualunque espediente sarebbero rimasti abbarbicati al potere. Ricorda che la Reggenza, nelle due occasioni in cui i rappresentanti della nuova maggioranza ebbero a consegnare i documenti, assicurò che la seduta del Consiglio si sarebbe svolta regolarmente. Così non è stato. Inaspettatamente la Reggenza ha considerato valide tutte le lettere di dimissioni presentate da Andreoli e Gasperoni.
Le lettere di dimissioni firmate nel 1955 in bianco da Alvaro Casali, Domenico Forcellini, Giuseppe Forcellini e Federico Micheloni erano state annullate, oltre che con espresse dichiarazioni nel Consiglio del 28 giugno, anche nel corso di una udienza chiesta appositamente ai Capitani Reggenti il 25 giugno.
Perciò i Capitani Reggenti, i medesimi che presiedevano il Consiglio del 28 giugno e avevano ricevuto personalmente dette ritrattazioni il 25 giugno, avevano il dovere di scorporare dalle 34 lettere consegnate da Andreoli e Gasperoni, per lo meno, le quattro di quei nominativi, anche se datate, come tutte le altre, 19 settembre. O, comunque, avrebbero dovuto sentire il dovere di accertarsi di persona della reale volontà di questi quattro consiglieri di lasciare il Consiglio.
La Reggenza, inoltre, ha abusato dei suoi poteri e si è posta fuori dalla legge anche per un altro motivo: sciogliendo il Consiglio dopo la regolare convocazione della seduta consiliare per la nomina dei nuovi Reggenti, ha autoproclamato, di fatto la sua permanenza al potere oltre il termine del 30 settembre 1957, cioè oltre i sei mesi previsti dagli Statuti. Si tratta di una violazione degli Statuti che non ha precedenti.
Quanto alle elezioni del 3 novembre, non c’è da avere nessuna fiducia: dati la legge ed i metodi comunisti, i rossi hanno la possibilità di attribuirsi qualunque numero di seggi e qualunque percentuale di voti in loro favore, visto quanto avvenuto nel 1955. L’invito all’ONU a mandare osservatori è ritenuto nulla più di un escamotage propagandistico.

– 13 – DOPO IL 19 SETTEMBRE: TUTTI SI RIVOLGONO ALL’ESTERNO

Scrive Alvaro Casali nel suo Diario che nella compagine democratica dopo il 19 settembre viene decisa questa linea: ogni partito si appoggerà su quelle personalità italiane affini ai propri schieramenti, per avere appoggi e consigli.
Ed è proprio così.
L’interlocutore primo dello stesso Casali è il parlamentare socialdemocratico italiano Luigi Preti.
Bigi ha certamente dei colloqui con Adone Zoli, capo del governo italiano, e con Amintore Fanfani, segretario della Democrazia Cristiana italiana. Poi il 25 settembre anche con l’ambasciatore americano a Roma.
La preoccupazione principale dei referenti esterni della compagine democratica sembra essere quella di impedire che dalle limitrofe zone italiane accorrano a San Marino uomini della sinistra e, in particolare, ex partigiani, e San Marino diventi il luogo di uno scontro per obiettivi ed interessi inerenti alla politica italiana ed internazionale.
Anche i partiti della ex maggioranza consiliare non stanno con le mani in mano. È certo un aiuto del PCI e del PSI attraverso due uomini di punta, quali Giancarlo Pajetta e Francesco Lami. I due deputati italiani prendono stanza nella città di San Marino, presenti sempre con la parola ed il consiglio per incitare la resistenza, promettendo sempre ulteriori aiuti dai compagni italiani mobilitati in ogni luogo a fiancheggiare l’azione, scrive Casali.
Insomma, scrive Casali, i giorni che seguirono la data del 19 settembre furono d’intensa attività per tutti i partiti. Vi era in ogni cittadino la certezza che qualche cosa maturasse e si manifestasse all’improvviso. E così è.
La nuova maggioranza non potendo esercitare i suoi diritti elabora un piano d’azione da sviluppare tempestivamente, in assoluta segretezza. Un piano che ha il profilo di una vera rivoluzione ed è messo in atto all’improvviso disorientando completamente gli avversari, appunto, con l’effetto sorpresa.

– 14 – LA MEZZANOTTE DEL 30 SETTEMBRE

Nella prima serata del 30 settembre i consiglieri della nuova maggioranza raggiungono alla spicciolata un locale di Rimini da dove, verso le 23 circa, partono assieme alla volta della Repubblica di San Marino fermandosi a Rovereta, cioè la prima località sammarinese subito a ridosso del confine. Lì prendono possesso di uno stabilimento industriale in disuso sito su un promontorio di territorio sammarinese in territorio italiano ed allo scoccare della mezzanotte, cioè quando finisce il mandato dei Capitani Reggenti in carica, danno vita ad un Governo Provvisorio nelle persone dei componenti il Comitato Esecutivo: Bigi, Casali, Giancecchi e Savoretti.
Roma provvede subito a dispiegare, in territorio italiano, delle forze a difesa dell’area dello stabilimento, controllandone in sostanza tre lati su quattro.
La notizia della costituzione del Governo Provvisorio viene subito diffusa durante la notte col passaparola all’interno della Repubblica ed all’esterno attraverso le agenzie di stampa e la radio. Immediatamente il Governo Provvisorio riceve il riconoscimento dell’Italia. Poi seguirà quello di altri paesi.
Alla notizia della costituzione del Governo Provvisorio, la piazza del Pianello si riempie di sostenitori del Governo. Il Governo del Palazzo. Allora la Reggenza, anche per calmare gli spiriti più bollenti, decide l’istituzione di un Corpo di Milizia Volontaria che entra immediatamente in funzione.
Probabilmente la vecchia maggioranza teme una sortita sul Palazzo da parte del Governo Provvisorio, col sostegno dei suoi fedelissimi e – come pure andava ventilandosi – di militari italiani ‘gendarmizzati’.
In effetti il Governo Provvisorio col suo primo decreto si limita a ordinare a tutti i Corpi Militari e la Gendarmeria di mettersi al servizio del nuovo Governo. Il decreto è fatto pervenire direttamente al Capitano Sozzi con una lettera d’accompagno: È suo dovere categorico in questo particolare momento di prendere tutte le misure indispensabili per il mantenimento dell’ordine pubblico in tutto il territorio della Repubblica.
La radio italiana la sera del 1° ottobre diffonde la notizia che il Comandante della Gendarmeria si è incontrato con gli esponenti del Governo Provvisorio ai quali ha dichiarato di essere deciso di mantenere l’ordine pubblico.
Sozzi non si trasferisce a Rovereta, ma non manca all’impegno di vigilare perché i contrasti politici non pregiudichino la sicurezza delle persone.
Ciascuno dei due governi inonda la stampa di messaggi, proclami, bollettini; convoca, ogni giorno, conferenze stampa; ottiene riconoscimenti e sostegni; pro-muove manifestazioni dentro il territorio e fuori; dà ordini e chiede attestazioni di fedeltà.
Ciascuno dei due governi non manca di collaborazioni e di aiuti esterni.
Ciascuno dei due governi chiama a raccolta i suoi sostenitori e li dota di armi. Una fascia per distinguersi sul Pianello, una fascia a Rovereta. Fucili sul Pianello, fucili a Rovereta.
Si ricrea una situazione di stallo.
Ci sono diversi tentativi di risolvere la situazione con un compromesso. Il Comm. Oliviero Cappelli, un italiano al servizio dell’Amministrazione Pubblica sammarinese, si propone come mediatore: è accettato da entrambe le parti, ma non riesce ad andare oltre ad una prima bozza di accordo. Fallisce pure una trattativa diretta fra delegazioni delle due parti, svoltasi a Rimini. Tuttavia il Governo Provvisorio, nonostante questi fallimenti, non si spinge a procedere con la forza magari con l’arruolamento volontario di nuovi gendarmi. Insomma non prende la decisione di marciare verso la piccola capitale per imporre la legalità repubblicana, come i più andavano prevedendo.

– 15 – SOZZI ASSUME UN RUOLO SUPER PARTES

La situazione si sblocca il 7 ottobre, quando ha luogo, a Rovereta, una riunione dei 31 consiglieri della nuova maggioranza. Si procederà senza l’uso della forza.
Il giorno 8 il Governo Provvisorio conferisce al Comandante della Gendarmeria, Capitano Ettore Sozzi, i pieni poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico.
Il giorno 10 il Governo Provvisorio ordina allo stesso Sozzi di predisporre la sistemazione per un nuovo Corpo di Gendarmeria in Città. Sistemazione che avverrà al Kursaal, previa requisizione.
Lo stesso giorno 10 ottobre appare un manifesto indirizzato Al popolo di S. Marino emesso di comune accordo delle parti: Il Governo della Repubblica ha affidato al Comando della Gendarmeria i pieni poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico e per il ripristino della normalità.
Ogni cittadino ha il preciso dovere di contribuire con alto senso di responsabilità e consapevole civismo perché vengano evitati disordini e non siano compiuti atti inconsulti lesivi dell’Autorità costituita e dell’incolumità personale.
Confida che la Repubblica in questa storica data ora saprà dare al mondo una dimostrazione di ordine e di civile convivenza tale da superare definitivamente i dolorosi contrasti che hanno turbato in questi ultimi anni la vita del paese.

– 16 – IL 14 OTTOBRE

Il giorno 11 ottobre il Governo del Palazzo dichiara di cedere alla sopraffazione e di cessare da ogni resistenza, facendo offerta di questo sacrificio al bene supremo della Patria.
In contemporanea la Reggenza emana un decreto per lo scioglimento della Milizia Volontaria istituita il 1° ottobre.
Il 14 ottobre, con un grandissimo concorso di gente, il Governo Provvisorio lascia Rovereta e – per buona parte del percorso, fra due ali di folla plaudente – sale sul Titano e si insedia nel Palazzo Pubblico.
Apre il corteo una grande bandiera della Repubblica a riprova della volontà della nuova maggioranza politica di far ritornare da subito il paese alla normalità.
È stato scritto da un osservatore diretto: In cento braccia inesperte è stata cucita una fascia. Cento dita potevano premere il grilletto. I primi fucili rudimentali sono stati sostituiti talvolta da armi moderne ed automatiche spuntate come funghi sotto la pioggia e non tutti i funghi erano nostrani. Eppure mai la situazione è degenerata nell’irreparabile.
La grande bandiera, dopo la tappa nel Palazzo Pubblico, è portata ancora in corteo in Pieve come segno di ringraziamento al Santo e come impegno di tutti i sammarinesi davanti al Santo a non far più correre al paese simili rischi.

 

Marino Cecchetti – aprile 2005

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