I soldi degli italiani nei paradisi fiscali. di Ettore Livini, la Repubblica

I soldi degli italiani nei paradisi fiscali. di Ettore Livini, la Repubblica

Trema il segreto bancario ma Tremonti pensa allo scudo-tris
In Svizzera nascosti quasi 300 mld, 100 in Lussemburgo
Caccia agli evasori italiani

nei paradisi ci sono 550 miliardi
di ETTORE LIVINI

MILANO – Gli italiani guadagneranno forse poco – al fisco nel 2006 hanno dichiarato 18.324 euro pro-capite – ma di sicuro risparmiano moltissimo: il tesoretto accumulato dai nostri concittadini oltrefrontiera, ben nascosto dietro il segreto bancario dei paradisi fiscali, ammonta a circa 550 miliardi. Quasi 300 – stimano le autorità bancarie locali – sono parcheggiati in Svizzera (il via-vai di capitali tricolori genera da solo il 25% del Pil del Canton Ticino). Un centinaio sono blindati nei discreti forzieri del Lussemburgo, una quarantina svernano lontano dagli occhi dell’erario sul lungomare di Montecarlo. Una montagna d’oro pari più o meno a un terzo del debito pubblico, sufficiente per comprare tutte le società quotate a Piazza Affari e restare ancora con 220 miliardi in tasca.

Soldi accumulati in decenni di certosini guadagni in nero che nemmeno l’offensiva del G20 contro i paradisi fiscali sembra (almeno per ora) mettere a rischio.


“Le decisioni prese a Londra dai grandi del mondo sui fondi offshore – sintetizza Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario a Siena e a lungo consulente del ministero delle finanze – sono allo stato pura propaganda”. C’è una nuova lista di proscrizione dell’Ocse, con quattro nazioni (Uruguay, Costarica, Malesia e Filippine) censurate con il bollino nero per la loro allergia alla trasparenza bancaria. C’è un’area “grigia” di 31 paesi – tra cui i custodi di gran parte del tesoretto tricolore – disponibili a parole a migliorare lo scambio di informazioni. Ma sanzioni vere e proprie non ce ne sono e la strada per tradurre la buona volontà di Berna & C. in fatti (accordi bilaterali e collaborazione fiscale) è tutta in salita.


La morale è semplice: la speranza (o il timore, dipende dai punti di vista) di dare un nome e un cognome agli italiani che hanno nascosto i loro soldi all’estero è per ora molto remota. “Per quanto possiamo osservare sul campo – conferma Di Tanno, titolare di Di Tanno & associati, uno dei più noti studi fiscali tricolori – non pare che la gente si stia preoccupando”.


Qualcosa però sta iniziando a cambiare. I paradisi finanziari, dopo il faro acceso dal G20, non sono più l’oasi di pace di una volta. E la diga del segreto bancario – fino ad oggi una barriera a tenuta stagna – inizia a far acqua in molti punti. La prima falla è spuntata in Liechtenstein un anno fa. Colpa di un ex-impiegato della Lgt che stufo di sbarcare il lunario con il suo stipendio da lavoro dipendente ha venduto per 4,5 milioni agli 007 del fisco tedesco l’elenco dei 4.500 clienti della finanziaria del Granducato (tra cui, guarda caso, 390 italiani). Sembrava un incidente di percorso. Invece, qualche settimana fa, è accaduto l’inimmaginabile: la banca svizzera Ubs – una delle cattedrali del segreto bancario mondiale – ha girato al Tesoro Usa i nomi di 750 americani che avevano aperto conti neri nelle sue filiali elvetiche per non pagare le tasse.

Una decisione una tantum, si sono affrettati a spiegare a Berna, necessaria per non perdere la licenza bancaria negli Stati Uniti. Rassicurazioni che però non sono bastate a tranquillizzare i milioni di correntisti stranieri della confederazione, convinti fino ad allora – grazie alla proverbiale riservatezza elvetica – di essere invisibili al fisco dei loro paesi.


I primi scricchiolii del muro di segretezza che circonda i 550 miliardi italiani all’estero (oltre il 60% sono lombardi) non sono sfuggiti agli occhi attenti di Giulio Tremonti. Difficile, lo sa anche lui, che le minacce un po’ donchisciottesche del G20 siano sufficienti a convincere i titolari di questi conti a un rimpatrio di massa. L’insicurezza di queste settimane riporta però d’attualità una scorciatoia che il ministro dell’economia conosce bene: lo scudo fiscale.


Lo stesso Tremonti ha varato due volte, nel 2001 e nel 2003, “sanatorie” per i depositi in nero oltrefrontiera, garantendo una tassazione “light” al 2,5% a chi li regolarizzava rendendoli visibili all’erario. Risultato: in Italia sono rientrati circa 78 miliardi (il 58% dalla Svizzera, il 14% da Lussemburgo, il 10% dalla Germania) con un incasso per lo stato di 1,95 miliardi.
Oggi la tentazione di un tris, approfittando del clima d’incertezza che circonda i capitali offshore, è altissima.


Tanto più che molti degli imprenditori titolari di conti esteri, visto il giro di vite sul credito delle banche, hanno già iniziato alla chetichella a far rientrare i loro soldi (i sequestri di capitali ai valichi con la Svizzera stanno crescendo a vista d’occhio). “Non mi stupisco che si facciano al riguardo ragionamenti tecnici – ha ammesso Tremonti – ma parlare di un terzo scudo è ancora presto”.

“La strada migliore per mettere le mani su quei soldi sarebbe obbligare le banche offshore a denunciare nomi e movimenti degli stranieri che aprono conti con loro, pena l’isolamento internazionale – conclude Di Tanno – La sanatoria? È un’idea. Ma certo non all’aliquota bassissima degli altri scudi. Sarebbe un regalo ha chi ha nascosto i soldi all’estero”. Il Belgio ha imposto una tassazione del 9%. La Germania ha ipotizzato nel 2005 un’aliquota al 25%. Se il tesoro offshore del Belpaese fosse regolarizzato alle condizioni pur sempre “soft” fissate da Bruxelles, l’incasso per lo stato sarebbe di 50 miliardi.

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