Il segreto di Giulio, espresso.repubblica.it, Paolo Biondani

Il segreto di Giulio, espresso.repubblica.it, Paolo Biondani

ESPRESSO (3 novembre 2011)

Il segreto di Giulio

di Paolo Biondani

Il ministro dell’economia fu indagato nel 1996 per evasione fiscale.
Un’inchiesta poi archiviata, ma rimasta nascosta per 15 anni. E in cui giocò un
ruolo anche Milanese. ‘L’Espresso’ ha scoperto e ricostruito tutta la vicenda

L’interrogatorio di un super ministro che resta segreto per 15 anni. Mentre
l’indagine muore sepolta da un’archiviazione molto contestata, con il risultato,
fino a ieri raggiunto, di rendere inaccessibili le notizie più imbarazzanti.
Come una fragorosa denuncia di Giulio Tremonti, poi ritrattata, contro Silvio
Berlusconi. O la scoperta che l’operazione Bell-Telecom, cioè la più colossale
evasione fiscale mai accertata in Italia, fu architettata dallo stesso avvocato
lussemburghese che aveva gestito la cassaforte estera del professor
Tremonti.
L’Italia è una Repubblica fondata sui segreti. Un sintomo
inedito di questo male nazionale è nascosto in una vecchia inchiesta penale, in
apparenza innocua. Tra la caduta del primo (1994) e la nascita del secondo
governo Berlusconi (2001), il ministro dell’Economia ha dovuto deporre come
indagato, per una spiacevole accusa di evasione fiscale, davanti a un ex pm
della procura di Milano. Finora nessuno aveva potuto informare i cittadini
neppure dell’esistenza di questo interrogatorio. Dopo varie peripezie, anch’esse
rimaste segrete, l’indagine si è chiusa con un proscioglimento controverso. E
ora si scopre che i più delicati risvolti politici e fiscali dell’inchiesta su
Tremonti furono gestiti da un capitano della Guardia di finanza allora ignoto ai
più: Marco Milanese.
Il politico e l’ufficiale. Entrato
nelle Fiamme gialle nel 1981, Milanese è diventato dal 2001 il braccio destro
del ministro Tremonti e dal 2008 è parlamentare del Pdl. Inquisito a Napoli per
più corruzioni, violazioni di segreti istruttori e associazione per delinquere,
ha evitato il carcere solo grazie all’immunità votata in luglio da Pdl e Lega. I
giudici di Napoli accusano Milanese di aver intascato tangenti, tra il 2004 e il
2010, per oltre un milione di euro: 450 mila in contanti, altrettanti vendendo a
prezzi gonfiati ville in Francia e barche di lusso, oltre a farsi pagare
gioielli, orologi, vacanze a New York, Ferrari e Bentley. In cambio, il deputato
garantiva favori ministeriali: usava il suo potere sulla Guardia di finanza per
spiare le intercettazioni antimafia e piazzava i propri corruttori ai vertici di
aziende pubbliche. L’inchiesta di Napoli ha spinto Milanese a svelare anche giri
di denaro con Tremonti: era lui a finanziare l’affitto della casa di Roma
abitata dal 2009 dal ministro, che a quel punto ha dovuto dichiarare che gli
restituiva “mille euro in contanti alla settimana”.

Il 16 dicembre 2010, sentito come testimone dal pm Vincenzo Piscitelli, il
ministro ha descritto così l’origine del rapporto: “Ho avuto occasione di
conoscere Marco Milanese intorno al 2001, in occasione della sua applicazione
come “aiutante di campo” al ministero dell’Economia”. E “non c’è mai stata una
collaborazione professionale di Milanese con lo studio di cui sono stato socio”.

Carriera in orbita. Altre fonti, rintracciate da
“l’Espresso”, retrodatano il legame. Un generale della Finanza ricorda di aver
inserito Milanese “tra i militari del nucleo a diretto servizio di Tremonti già
dal ’94, ma in via occasionale, senza ruoli formali”. Un ex ministro aggiunge
che “già nel ’96” Milanese si presentò al suo staff come “tremontiano di ferro”.
Stando ai documenti interni delle Fiamme gialle, Milanese viene “distaccato”
ufficialmente a Milano, come addetto militare di Tremonti, il 28 giugno 2001.
Vari ufficiali dell’epoca precisano però che la sua nomina fu un colpo di scena:
a quel posto era destinato un capitano già pronto a partire dal Friuli.
Motivazione comunicata in caserma: “Tremonti ha voluto Milanese”. Fin qui, le
diverse versioni potrebbero dipendere solo da cattiva memoria.
Di certo
un aggancio precedente al 2001 porta a Dario Romagnoli, preparatissimo ex
ufficiale della Finanza (primo in graduatoria) che era amico di Milanese fin dai
tempi dell’Accademia e che tuttora è una colonna dello studio tributario fondato
da Tremonti. Romagnoli però è stato assunto dal professore nel ’90. Eppure fino
a tutto il ’95 Milanese è rimasto un oscuro “capitanicchio”, come lo etichettano
due ufficiali già allora vicini a Tremonti. Di fatto la sua carriera entra in
orbita solo a partire dal ’96, quando diventa maggiore, compra la sua prima
villa a Cap Martin e soprattutto si fa largo come factotum del nuovo comandante
del nucleo di Milano, un fedelissimo del generale Nicolò Pollari. A quel punto
riesce a entrare nella Scuola di Ostia che seleziona i vertici della Finanza e
dal 2000 è tenente colonnello a Roma. Finora però s’ignorava che il balzo in
avanti di Milanese fosse coinciso con due anni di indagini su Tremonti, gestite
tanto riservatamente che i passaggi più delicati furono tenuti segreti perfino
all’allora procuratore Francesco Saverio Borrelli.

L’indagine top secret. Nel settembre 1995 la procura di Milano riceve
da Roma un fascicolo su Tremonti, nato dagli esposti di due “super-ispettori”
del Secit. Alla fine del ’97 l’inchiesta viene archiviata. E questo è tutto
quello che finora si sapeva. Ora si scopre che Tremonti è stato interrogato in
gran segreto da un pm che non lavora più a Milano e non vuole pubblicità. Il
magistrato conferma di averlo sentito “dopo le sette di sera”, in una procura
deserta, per evitargli danni politici: “Ricordo che eravamo alla vigilia delle
elezioni del ’96”.
L’indagine viene affidata a una pattuglia di militari con
fama di incorruttibili: nel ’94 hanno dovuto arrestare per tangenti decine di
graduati. Mentre i marescialli gli setacciano lo studio, Tremonti è nervoso.
Tanto da lasciarsi scappare una confidenza, che poi ritratta, sulle manovre di
Berlusconi per far cacciare i colonnelli che indagavano sulla Fininvest (vedi
articolo a fianco). A maneggiare questa patata bollente è proprio Milanese.

Lo stop al fisco. Nel ’96 i marescialli chiudono la
prima fase dell’inchiesta, che fino a quel momento riguarda solo la società di
gestione del suo studio: Tremonti & Associati srl, poi ribattezzata
Immobiliare Via Crocefisso. Gli ispettori del Secit, in pratica, sospettavano
che fosse una ditta di comodo, creata per scaricare costi e pagare meno tasse.
All’epoca era ancora in vigore la legge che vietava di farsi pagare consulenze
tramite società di capitali. Le fatture però erano vere e tutte contabilizzate.
Per cui la pattuglia conclude che è difficile contestare reati dolosi, come il
falso o la frode. Sul piano fiscale invece, che è più ampio di quello penale, i
marescialli confermano l’accusa sui costi non deducibili e chiedono ai superiori
di aprire un procedimento tributario. Per loro è una prassi, formalizzata dai
colonnelli di Mani pulite, che si applica anche in caso di archiviazione penale.
Dalla fine del ’95, però, il nucleo di Milano è guidato da un nuovo comandante.
E Marco Milanese sta diventando di fatto il suo braccio destro. La direzione
delle indagini ormai è in mano a tre superiori, tutti fedeli a Pollari: il
comandante, un tenente colonello e il maggiore Milanese. Fatto sta che per la
pattuglia iniziano i guai: i superiori bocciano la richiesta di aprire il
procedimento tributario. Gli “incorruttibili” insorgono. E i superiori devono
mettere per iscritto un ordine senza precedenti: vietato fare indagini fiscali
su Tremonti.


Altra anomalia rispetto a tutte le altre indagini: la relazione destinata al pm
viene precompilata da un colonnello, che chiama i marescialli solo a metterci la
firma. A quel punto un generale consiglia agli “incorruttibili” di chiedere il
trasferimento, “altrimenti vi distruggono”. Poco dopo la pattuglia si scioglie.
E in parallelo Milanese, che sulla carta non ha incarichi operativi, diventa più
potente.
l no del gip Forleo. Il pm, ricevuta la relazione innocentista,
chiede un’archiviazione tombale. La richiesta finisce al gip Clementina Forleo,
che non la condivide e ordina indagini più approfondite. In caserma viene
sentito come testimone, tra gli altri, un socio fondatore dello studio Tremonti,
chiamato a giustificare uno strano giro di contanti. Ad accompagnarlo è Dario
Romagnoli. E a riceverli, naturalmente, è un cordiale Marco Milanese.
Il
giudice Forleo chiede soprattutto di verificare i rapporti con la società
lussemburghese Tremonti International, controllata quasi totalmente dallo studio
italiano e attiva negli anni fiscali presi di mira: dal ’92 al ’94.
L’inchiesta-bis, ormai affidata ad altri finanzieri, si riassume in una tabella
che dimostra, confrontando le cifre, l’inesistenza di benefici fiscali: la
Tremonti International avrebbe addirittura fatto crescere le imposte. Per la
difesa è un trionfo: Tremonti passa alla storia come il primo contribuente che
apre una società in Lussemburgo per pagare più tasse. Quindi il pm rinnova la
richiesta di prosciogliere. E il gip Forleo finisce per archiviare. Ma critica
l’indagine-bis e lamenta che sia rimasta affidata alla Finanza, anziché a
consulenti indipendenti specializzati in società lussemburghesi.

Tremonti International. Fondata il 20 agosto 1992 con un capitale sociale di un
miliardo e mezzo di lire, è stata gestita da un consiglio di amministrazione
formato da Giulio Tremonti, dall’avvocato d’affari Alex Schmitt e da una legale
del suo studio, Corinne Philippe. Una piccola quota è intestata a un’offshore
panamense, chiamata Interfides, rappresentata dallo studio Schmitt. Il restante
99,9 per cento è in mano alla Tremonti srl. La società viene chiusa il primo
marzo 1994, alla vigilia delle elezioni che portano il professore in Parlamento.
Schmitt però non fatica a trovare altri clienti italiani. A partire dal ’97 è
proprio il suo studio a costruire la Bell, la società lussemburghese della
maxi-plusvalenza Telecom: oltre due miliardi di euro tassati per la prima volta
solo dopo il 2006, dal governo Prodi. Per chiudere la vertenza e spianare la
strada ai patteggiamenti, i soci italiani della Bell hanno dovuto risarcire
oltre 250 milioni (versandone 156 cash). Unici due condannati per l’evasione del
secolo: il finanziere bresciano Emilio Gnutti e l’avvocato lussemburghese Alex
Schmitt.

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