La Repubblica, Banca Tercas: l’ex direttore Antonio Di Matteo dovrà rifondere 192 milioni

La Repubblica, Banca Tercas: l’ex direttore Antonio Di Matteo dovrà rifondere 192 milioni

La Repubblica

Economia

Banca Tercas , il processo al rallentatore che manderà prescritti tutti gli imputati
Intanto il Tribunale civile dell’Aquila condanna gli ex amministratori a risarcire Popolare Bari

Giuliano Foschini – Maria Elena Vincenzi

ROMA. In attesa di capire come andrà a finire la storia delle banche italiane in default, e dei loro migliaia di risparmiatori truffati, il tribunale civile dell’Aquila ha messo un primo punto su una storia di qualche anno fa: l’ex amministratore di banca Tercas, Claudio Di Gennaro, è stato condannato a pagare 176 milioni di euro, l’ex dg Antonio Di Matteo invece dovrà rifondere 192 milioni. Entrambi i risarcimenti sono destinati a Banca popolare di Bari che aveva comprato l’istituto di credito abruzzese nel 2014, salvandolo dal fallimento.
Le 18 pagine di sentenza firmate dal giudice Roberto Ferrari sono una rappresentazione plastica di come sia possibile spolpare una banca, tra prestiti e affidamenti facili ad aziende amiche e anche a familiari diretti. Per dire: nella sentenza si parla della convivente di Di Matteo, proprietaria di una immobiliare che «ha disposto – si legge – tra il 2005 e il 2011 numerose e cospicue movimentazioni irregolari sotto il profilo della documentazione degli atti di disposizione e in relazione alle prescrizioni della disciplina anti-riciclaggio ». Di Matteo nel 2009 avrebbe poi «acquistato quote del fondo Diaphora per sei milioni e centomila euro, il cui valore al momento della redazione della perizia penale risultava pressoché integralmente azzerato». Ancora: Tercas perde sette milioni di euro intervenendo «nella situazione debitoria di San Marino International Bank spa, nonostante l’orientamento contrario di Banca d’Italia». Esiste poi un lunghissimo elenco di fidi concessi ad aziende amiche, secondo il tribunale, senza «alcuna analisi dei dati patrimoniali e finanziari del cliente» con un sovrapprezzamento degli immobili messi a garanzia e «un frequente ricorso alle delibere d’ urgenza (adottate dal presidente in assenza del consiglio di amministrazione)». Tra gli avvantaggiati ci sono gruppi importanti, dai De Gennaro a Samorì, con cifre che partono da una decina di milioni di euro e che in molti casi non sono stati recuperati. Da qui i quasi duecento milioni bruciati dalla banca. Non a caso a promuovere l’azione legale è stata Banca Popolare di Bari che nel 2014 ha acquistato Tercas, con la benedizione di Banca d’Italia; un’operazione che ora è al centro di un’indagine della procura pugliese. Popolare Bari è però, in questo caso, parte lesa. E ha allontanato sin dal principio tutti i manager della vecchia Tercas dagli asset della nuova banca. Sul buco di Tercas è in corso un processo a Roma, l’unico in piedi in questo momento contro una banca. Ma per una volta la giustizia civile è stata più veloce di quella penale. Alla sbarra ci sono 15 imputati per associazione finalizzata all’ostacolo delle funzioni di vigilanza e alla bancarotta. Tra questi, oltre ai vertici della Banca Antonio Di Matteo (dg) e Lino Nisii (presidente), anche una serie di imprenditori come Giampiero Samorì. Le indagini della procura di Roma furono fatte in grande fretta: il gip dispose anche il sequestro di beni per 190 milioni di euro. Il Fondo interbancario sborsò 224 milioni per cercare di risanare Tercas. I fatti risalgono al 2011 e 2012. Il rinvio a giudizio c’è stato a settembre 2015. Il processo, iniziato nel 2016, si sta celebrando davanti alla nona Sezione penale del tribunale di Roma, composta da 2 magistrati e un giudice onorario. In assenza di calendarizzazione delle udienze, il caso banca Tercas viene discusso una volta al mese a ore pasti: la convocazione è sempre per le 12. Il che vuole dire che, se continua così, per quando si arriverà in Cassazione, sarà tutto prescritto: i reati contestati si prescrivono in 10 anni. Con buona pace dei risparmiatori.

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