Paradossi europei

Paradossi europei

Il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, pronunciandosi sul Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, aveva detto: “Quando si perde sovranità è necessario un referendum, ma quando non si perde alcuna sovranità sarà il Parlamento a ratificare il testo” e si era espresso sull’opportunità di porre termine alle “rinunce” relative a difesa, giustizia e affari interni, decise a Maastricht. Dunque, nessuna minaccia alla sovranità? Bene, consideriamo le implicazioni: se uno Stato Nazione sovrano delega il controllo della propria economia, difesa, sistema di giustizia e politica interna, può essere davvero ancora chiamato uno Stato Nazione sovrano? Lascio la risposta a chi è più competente di me.

Ma l’Unione Europea non sfugge ai paradossi. La difficoltà di presentarsi come vera unione di Stati, radicata nell’identità nazionale degli Stati membri, soprattutto in politica estera e nelle politiche culturali, è senz’altro uno dei principali. Sono ancora molti i pregiudizi riguardanti i Paesi candidati e spesso non si tiene conto del rigore imposto ai nuovi membri, i quali devono sottoporsi a sforzi notevoli in un tempo relativamente breve per poter fare ingresso nella nuova domus europea. Sforzi che peraltro gli Stati europei occidentali hanno compiuto in oltre 30 anni.

Guardato da vicino, l’ingresso degli ultimi dieci nuovi membri non dà certo spazio ad un entusiastico ottimismo. Sul versante orientale ci si è gettati verso qualcosa di immaginario più che di tangibile: ciò è confermato, tra l’altro, dalla disponibilità al finanziamento dei nuovi membri, i quali riceveranno molto meno dei vecchi in termini di ripartizione delle risorse finanziarie comunitarie.

Si direbbe che anche gli Stati membri dell’Unione nutrano un timore difficilmente scalzabile, consistente nella perdita della propria supremazia. In gioco non è tanto l’idea della cittadinanza estensibile a tutti, un’eguaglianza tra nuovi e vecchi membri, bensì nuove restrizioni, poco visibili, tese a tenere a bada i cugini dell’est. Ovvero, nuove frontiere a tempo per i lavoratori dell’est, motivate dal timore di una fantomatica invasione. Tanto è che per quanto riguarda la libertà di circolazione, ancora una volta, i diritti delle merci sopravanzano quelli degli esseri umani.

All’entusiasmo dello storico primo maggio (1 maggio 1999 – entrata in vigore del Trattato di Amsterdam), più che comprensibile e condivisibile, fanno da contraltare le visioni di un’Europa a due o tre velocità, un Europa divisa in Stati di prima e seconda classe, uno stesso treno che corre da est a ovest, ma con comfort nettamente differenti. La politica dell’UE nei confronti del suo est non ha dato evidenti risultati, anzi fino ad ora si è trattato più che altro di timidi tentativi verso ciò che a molti appare piuttosto come un inevitabile processo storico.

Inoltre l’UE sembra tenere poco in considerazione ciò che comunemente viene definito il processo di transizione, che per quanto riguarda i Balcani occidentali, e in particolare i Paesi della ex Jugoslavia, coincide con un periodo bellico cui non ha fatto seguito un chiaro e definito processo di elaborazione del passato. Un confronto necessario per portare allo scoperto non solo i crimini e la conseguente elaborazione degli stessi, ma anche quelle élite affaristiche che hanno approfittato delle guerre, quegli eroi nazionali di dubbio splendore, quel matrimonio di criminalità mafiosa e politica affaristica, nuovi baroni e simboli di un crudele patriottismo.

Non si può, quindi, guardare l’Europa solo sotto l’aspetto delle cosiddette libertà individuali, del rispetto per i diritti civili o della creazione degli stessi, ma occorre vedere l’esportazione del modello Stato-Nazione nel vicino est e il fallimentare progetto di replicarlo da parte dei Paesi ex comunisti, quanto più irrealizzabile data la complessità dell’area. Non dimentichiamo infine il mancato superamento dei protettorati europei: Bosnia Herzegovina e Kosovo. La dove l’inazione europea, ammantata di sani principi democratici, ha prodotto una quantità di frustrazione tale da rendere esplosivi oltremisura questi luoghi d’Europa. Il paradosso in questo caso consiste nel rilevare l’incapacità di autogovernarsi dei balcanici di fronte alla incapacità di pensare a strategie politiche di stabilizzazione di lunga durata, cosicché là dove si vorrebbe la democrazia si rischia di instaurare una politica coloniale.

Inoltre, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo ha aperto un vaso di Pandora, perché adesso reclamano l’indipendenza i Catalani, i Baschi, i Corsi, i Lombardi, i Veneti per arrivare all’Ossezia e all’Abkhazia.

Alcuni leader russi affermano che con un colpo solo si è buttata a mare un’intera tradizione secolare giuridica, internazionale, che veniva dal Trattato di Westfalia.

Se l’Unione Europea è quella domus comune verso cui tutti, in un modo o nell’altro, tendiamo, si cominci col mettere a nudo i rispettivi paradossi, ad avere il coraggio e l’onestà intellettuale di fare autocritica, smettendo di trincerarsi nell’acritica esaltazione di termini sgualciti dall’eccessivo impiego, quali società civile, diritti umani, democratizzazione e amenità affini.

Di fronte all’allargamento dell’Unione Europea non dobbiamo cessare di chiederci di che Europa vorremmo far parte.

E San Marino in tutto questo come si colloca? Perchè dovrebbe avere convenienza ad associarsi a quest’Europa?
A prescindere da tutto, San Marino, immersa nell’Europa e per di più enclave dell’Italia, deve comunque adattarsi alle regole imposte da questa Europa Unita, che ciò piaccia o no, senza poter godere di quei vantaggi che l’eventuale adesione consentirebbe e senza poter contrattare alcuna contropartita.

ing. Epifanio Troina

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