Patrizia Busignani: ‘Fine della discriminazione. E’ ora, finalmente!’

Patrizia Busignani: ‘Fine della discriminazione. E’ ora, finalmente!’

FINE DELLA DISCRIMINAZIONE.  E’ ORA, FINALMENTE!

E’ tornata di attualità, a seguito della presentazione di un apposito progetto di legge di iniziativa popolare, la questione dell’attribuzione del cognome ai figli, oggi riservata in via esclusiva al padre.

E’ evidente come questa esclusività sia il retaggio di una concezione di famiglia costruita sull’egemonia del capo-famiglia, che non esiste più nella nostra realtà, se non come anacronistica eccezione negativa.

La famiglia di oggi è costruita per legge sulla parità di diritti tra donne e uomini e sulla potestà genitoriale esercitata di comune accordo.

E’ evidente che la norma che impone che sia il padre a trasmettere il cognome al figlio non è conforme a questi principi e configura una discriminazione ai danni della madre.

La questione della trasmissibilità del cognome materno ai figli si trascina ormai da moltissimi anni e periodicamente ritorna.

Venne posta per la prima volta in modo compiuto nel 1986 nel testo del progetto di legge di riforma del diritto di famiglia, predisposto da una Commissione appositamente incaricata della sua redazione, che aveva previsto all’articolo 20 la possibilità di scegliere, all’atto del matrimonio, quale cognome dovesse essere distintivo della famiglia e, dunque, essere attribuito ai figli. Fin da allora la questione venne posta in termini di diritto, in quanto andava riconosciuto il diritto della madre a trasmettere il suo cognome al pari del padre, ma anche di libertà, la libertà di scegliere come coppia, di comune accordo, quale cognome attribuire ai figli.

Questa possibilità di scelta – come aveva giustamente sottolineato Emma Rossi nel suo intervento durante il dibattito consiliare “ mette l’accento su una diversa concezione del rapporto uomo-donna e quindi va nel senso di una ricerca effettiva della parità fra uomo e donna”.*

Ma il Consiglio Grande e Generale, registrando su questo punto una convergenza di opinioni tra la Democrazia Cristiana, allora forza di opposizione ed il Partito Comunista allora al Governo, bocciò l’articolo negando quella possibilità e confermando il diritto esclusivo del padre.

Perle donne e per le forze socialiste che avevano difeso quell’articolo fu un duro colpo, ma non modificò il giudizio positivo sulla legge n. 49 del 1986 “Riforma del diritto di famiglia”, che rimane una pietra miliare sulla strada della parità di diritti tra donne e uomini e dei diritti dei figli anche naturali, senza contare i molti aspetti come il divieto del matrimonio riparatore, gli effetti civili del matrimonio, l’introduzione del divorzio e altro ancora, che ne fecero una legge di straordinaria portata innovatrice.

Il timore, peraltro giuridicamente infondato e agitato in malafede, fu, allora, che dietro alla possibilità di scegliere il cognome materno si nascondesse il tentativo di far rientrare ciò che la legge del 1984 sulla cittadinanza aveva escluso ovvero la possibilità per la madre di trasmettere la sua cittadinanza ai figli.

Ed è ancora Emma Rossi nel suo discorso al Consiglio dell’aprile 1986 a darcene conferma nel momento in cui dichiara che “si è cercato di fare dello scandalismo su questo articolo, si è cercato di farlo vivere alla gente come una trappola per trasmettere la cittadinanza per via matrilineare. Si è cercato di inculcare paure ed emozioni maschiliste…”.

La contrapposizione sul diritto alla trasmissione della cittadinanza è stata definitivamente chiusa con la legge n. 84 del 2004, che ha riconosciuto ad entrambi i genitori il diritto a trasmettere la propria cittadinanza ai figli. Dunque non vi dovrebbe essere più alcun ostacolo e alcun timore ad affermare che non è accettabile che una legge dello Stato conservi una norma discriminatoria, quella che consente al padre di trasmettere in via esclusiva ed automatica il proprio cognome al figlio, contraria al principio di parità tra donne e uomini e ugualmente al principio di parità tra i genitori, entrambi riconosciuti dal nostro ordinamento, e che contraddice in maniera palese il sentire comune della popolazione.

Con l’andare degli anni i nostri capelli si son fatti bianchi, ma non abbiamo smesso di credere che prima o poi il nostro Paese avrebbe rimediato anche a questo “torto” nei confronti delle sue figlie e, nel frattempo, il consenso è cresciuto da parte delle donne e da parte degli uomini e tra le forze politiche e anche chi, 30 anni fa, non ha accettato di fare quel passo, oggi può essere disponibile a riconsiderare la propria posizione.

E ha fatto benissimo nei giorni scorsi il Consigliere Lorella Stefanelli a richiamare l’attenzione  sul fatto che anche il Consiglio d’Europa raccomanda agli Stati membri e la nostra Repubblica lo è da oltre 25 anni, di eliminare ogni discriminazione, ogni disparità di trattamento tra i genitori per quanto attiene l’attribuzione del cognome ai figli.

Se poi si debba optare per l’affermazione del diritto a richiedere per i figli l’attribuzione di entrambi i cognomi, quello paterno e quello materno, o se si debba, come ragionavamo 30 anni fa, sancire che i coniugi di comune accordo stabiliscono all’atto del matrimonio quale debba essere il cognome distintivo della famiglia, non è importante.

Importante è che il Consiglio Grande e Generale ponga fine – finalmente – a questa residua, intollerabile e profondamente ingiusta discriminazione ai danni delle donne e delle madri e che la legge riconosca pienamente il valore della possibilità di scegliere in due, di condividere le responsabilità e le decisioni in due, di rispettarsi come persone di uguale dignità in tutti gli aspetti che riguardano la vita di coppia e la famiglia, compreso il cognome dei figli.

Patrizia Busignani
*Il discorso di Emma Rossi sulla legge di riforma del diritto di famiglia dell’aprile 1986 è pubblicato integralmente nel volume “EMMA – Una donna per i diritti delle donne”.

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