Politicamente corretti, emotivamente … sgrammaticati?

Politicamente corretti, emotivamente … sgrammaticati?

Riceviamo e pubblichiamo

Da un po’ di tempo osservo con una certa perplessità l’esasperata ossessione con cui siamo ormai attenti a praticare il “politically correct”. 

La stessa espressione è parecchio ad effetto: del resto molti sono convinti che infarcire di espressioni tratte dalla lingua inglese un discorso, lo renda più efficace, lo faccia apparire più colto, più ricercato.

Personalmente preferisco utilizzare l’italiano, anzi amo tradurre nella mia lingua anche le espressioni inglesi ormai divenute d’uso comune; il che non comporta che io neghi l’importanza e l’utilità di conoscere le lingue straniere … (ecco, inavvertitamente, ho già usato un’espressione ormai considerata politicamente scorretta: ora si deve dire lingue altre…); dicevo appunto che conoscere oltre all’italiano l’inglese, lo spagnolo, il francese ma anche il cinese, il giapponese o l’arabo è indubbiamente una grande risorsa non solo perché estremamente utile a livello pratico, ma perché offre la possibilità di comunicare il proprio pensiero e comprendere quello degli altri in ogni lingua, in ogni angolo del pianeta: che grande bellezza!

Tuttavia di fronte al ridicolo di certe pronunce o di certe ostentazioni penso sia preferibile un italiano fluente e chiaro, comprensibile a tutti. Così a me piace di più, ad esempio, il termine confinamento invece di lock down, perché mi pare renda in maniera molto più immediata la condizione di reclusione che l’espressione comporta. 

Di recente Google Docs ha introdotto una nuova forma di scrittura assistita, con suggerimenti di forma e di stile, in particolare attraverso un correttore automatico che se viene utilizzata una parola che l’intelligenza artificiale considera non adeguata, interviene e invita a considerare l’uso di termini più “inclusivi”, non senza l’avvertimento che potrebbero non esserlo…  per tutti! 

Ma tant’è, ormai siamo talmente abituati a delegare le nostre scelte all’algoritmo (da che cosa dobbiamo acquistare a quali strade seguire, da dove dobbiamo andare a mangiare a che film vedere o che libro leggere) che ormai ci permettiamo pigramente il lusso di mettere in pausa il cervello e di lasciare al sistema scelte e riflessioni che dovrebbero essere solo nostre. (Ma dov’è finita la libertà di pensare con la propria testa, per cui si combatte dai tempi dell’Illuminismo?).

Rientra nell’ambito del politicamente corretto anche la recente decisione della corte costituzionale in Italia, circa la possibilità di non attribuire più automaticamente solo il cognome del padre ai figli, ma anche quello della madre. Alcune voci femminili autorevoli esultano ritenendo che questa scelta “storica” sia una vittoria nell’ambito delle pari opportunità e che ponga fine al patriarcato.

Riconosco la portata dell’evento da un punto di vista simbolico, ma mi riesce difficile pensare al lato pratico, alla smisurata fila di cognomi che ogni individuo dovrebbe portarsi dietro, di generazione in generazione … non sarebbe più semplice lasciare scegliere ai coniugi se attribuire il nome dell’uno o dell’altro ai figli? 

Ho ancora una volta la sensazione che la forma prevalga sulla sostanza: non bisognerebbe forse pensare soprattutto ad una politica familiare che incrementi la ripresa delle nascite, con aiuti concreti, in ogni campo, alle donne che desiderano diventare madri? Perché se prosegue il calo demografico in atto saranno ben pochi i futuri nati cui attribuire tanti cognomi … 

Ma tornando al lessico, è la parola che cambia la condizione? Sicuramente in termini di rispetto della persona è importante anche questo, però …

Prendiamo ad esempio l’evento dei profughi fuggiti dalla guerra in Ucraina: tutta l’Europa si è alacremente e giustamente attivata per sostenerli, aiutarli, accoglierli. Ma non è accaduto e non accade quasi mai la stessa cosa per i profughi scappati da guerre e povertà che provengono dall’India, dal Pakistan, dalla Siria e soprattutto dall’Africa. Ci preoccupa e dà fastidio l’idea che bussino così numerosi ai nostri confini, sembrano lasciare molti di noi indifferenti le notizie delle sofferenze e delle torture che subiscono durante il lungo, disumano tragitto che li conduce fin qui, delle continue morti in mare. Perché? Cos’è che impedisce a tanti di provare sentimenti di umana solidarietà nei loro confronti? Cosa spaventa di questi altri esseri umani? La diversità di religione, le consuetudini di vita, il colore della pelle? Eppure, nel contempo, in altri contesti, tutti noi ci scandalizziamo, se qualcuno utilizza la parola “negro”, ritenuta razzista … 

Un altro termine spesso all’attenzione delle cronache è disabilità.

Un tempo le persone con deficit fisici o mentali erano chiamati i “poveri infelici”, venivano semplicemente dimenticati in qualche angolo della casa, abbandonati in istituti o a sé stessi o addirittura trattati come capri espiatori. 

Oggi fortunatamente, dopo un lungo percorso iniziato più o meno sul finire degli anni settanta del secolo scorso per abbattere barriere psicologiche e fisiche e combattere le discriminazioni, molte cose sono cambiate; per coloro che col tempo sono stati definiti invalidi, poi handicappati, ci preoccupiamo anche di usare espressioni e parole capaci di mostrare rispetto, siamo continuamente alla ricerca di artifici linguistici per indicare il disagio fisico o psicologico in maniera politicamente corretta – litoti come non udente, non vedente o eufemismi come diversamente abili – ma spesso, a quanto sembra, la stessa attenzione non la dedichiamo ai fatti … 

Così capita di veder sponsorizzare eventi pubblici collocati, con grande insensibilità, in luoghi inaccessibili a carrozzine o in cui non siano previsti posti a sedere per persone in difficoltà, o, ancor peggio, leggere quasi quotidianamente nelle pagine di cronaca di comportamenti irrispettosi, incuranti o crudelmente violenti nei confronti dei più deboli.

Risale a poco tempo fa il vergognoso episodio di 27 ragazzi disabili che non hanno potuto usufruire di posti sul treno Genova – Milano, regolarmente prenotati per loro e segnalati con cartelli, perché occupati da altri viaggiatori, che non hanno sentito ragioni e non li hanno voluti cedere. Ancora una volta una manifestazione di mancanza di rispetto (dovuto comunque ad ogni essere umano), di incapacità di immedesimarsi nelle difficoltà di persone disabili, che oltretutto in questo caso, da qualunque lato si osservi l’accaduto, avevano tutto il diritto a quei posti a sedere …

Mi ha dolorosamente colpito anche la notizia dell’assistente scolastica di una scuola elementare di Brescia, arrestata per lesioni aggravate nei confronti di una bambina disabile di cui avrebbe dovuto prendersi cura con amore e che invece, a quanto sembra, strattonava, riempiva di pizzicotti, graffiava, prendeva per i capelli, schiaffeggiava; gli episodi sono tutti documentati da una telecamera introdotta dopo i sospetti dei genitori, che si sono rivolti ai carabinieri, messi in allerta dai segni sul corpo della piccola e dalla tristezza che la bimba manifestava in modo sempre più evidente. 

Ogni forma di violenza, verso persone indifese e fragili – siano anziani, bambini, disabili – inquieta e mette angoscia. Soprattutto ci induce ad interrogarci su che tipo di esseri umani possano essere quelli che, incapaci di provare qualsiasi forma di empatia, sfogano una rabbia feroce, quanto vigliacca ed immotivata, su esseri più deboli. Perché queste aggressioni? Perché questi abusi? Cos’è che scatena tanto odio? La paura della diversità? Il fastidio che provoca la mancanza di perfezione? (come se qualcuno di noi lo fosse, perfetto …); frustrazioni che si compensano tramite l’accanimento contro chi non può difendersi? O semplicemente cattiveria allo stato puro?

Oltre alla giusta necessità di utilizzare una terminologia “politicamente corretta” nel definire le caratteristiche delle persone, occorrerebbe continuare ad agire molto di più sul far comprendere ogni modo di essere e ogni linguaggio, sull’accettare e soprattutto rispettare la diversità in ogni sua forma. Come? Attraverso l’educazione (a cominciare da quella che deve essere impartita in famiglia), l’istruzione, l’esempio.

La correttezza è necessaria nei comportamenti, oltre e prima ancora che nelle parole. 

Inutile dedicarsi ad una ricerca formale ed ipocrita di parole ed espressioni corrette se poi nella vita pratica rimaniamo incapaci di empatia, di compassione, e dunque … emotivamente sgrammaticati. 

Rosanna Ridolfi

 

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