San Gaudenzo. Il discorso del Vescovo Francesco Lambiasi alle autorità cittadine

San Gaudenzo. Il discorso del Vescovo Francesco Lambiasi alle autorità cittadine

Distinte Autorità, Illustri Signori, Gentili Signore!

            Insieme al più cordiale benvenuto, permettetemi di esplicitare qual è l’atteggiamento del Vescovo nell’invitarvi a questo gradito incontro e nell’indirizzarvi i pensieri, che vengo a proporvi. E’, il mio, un atteggiamento ispirato alla stima più sincera della vostra responsabilità e rivolto non, certo, ad impartire una lezione, ma a condividere una riflessione sulle “gioie e speranze, tristezze e angosce” della società umana che vive, soffre e spera nel nostro territorio e che sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di noi, discepoli di Cristo di questa Diocesi, nella consapevolezza che “nulla vi è di genuinamente umano che non abbia eco nel nostro cuore”(GS 1). 

            Ho pensato di introdurmi disegnando una piattaforma che, sia pure in forme e con motivazioni diverse, amo ed oso pensare che possa essere condivisa, in uno spirito di “laicità positiva”, e che potremmo configurare come una sorta di “triangolo”, formato da tre pilastri corrispondenti ad altrettante verità. Tre, il numero perfetto! Questo numero potrebbe lasciar intendere che io presuma di dire tutte le verità. Non ho questa pretesa. Eccone però tre che mi saltano agli occhi. In questo mondo diventato un immenso pretorio, sorge spontanea la domanda ironica, sorniona di Pilato: “Cos’è la verità?”.

1. Non vi è progresso autenticamente umano che nella solidarietà. E’ la prima verità, il primo pilastro o valore basilare di una società umana degna di questo nome. La solidarietà è una parola sempre più quotata nella borsa degli incontri a livello locale, nazionale e internazionale, e con Giovanni Paolo II ha fatto il suo ingresso anche nel mondo ecclesiastico. Il Papa polacco la intendeva non come “un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane”, ma come “la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune”, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti. 

            Solo così è possibile una “solidarietà… solida”. Mi piace la battuta di Paul Valéry: “Un uomo solo è un uomo in cattiva compagnia”. Se ci lasciamo veri-ficare dal sacrosanto valore della solidarietà, dobbiamo pure riconoscere che viviamo nella società in cui più che tentare di uscire insieme dal tunnel della crisi – come diceva don Milani – si cerca sempre di più qualcuno a cui delegare responsabilità e oneri, sia positivi che negativi. Qualcuno su cui scaricare colpe o da cui assorbire entusiasmo, come se si potesse vivere per procura anche la propria personale responsabilità, declinandola solo per acclamazione di ciò che fanno gli altri… basta che il capro espiatorio sia abbastanza vicino da poterlo bruciare con il fuoco della propria rabbia. 

2. Non può essere usurpata l’iniziativa che spetta originariamente ai soggetti sociali. E’ la verità o principio di sussidiarietà. Tutto ciò che può essere fatto da una istituzione inferiore, deve essere incoraggiato senza rinvii o senza aspettare una soluzione “dal piano superiore”. Questa è l’interpretazione più corretta del principio di sussidiarietà. Compito delle istituzioni è di intervenire a sostegno dei soggetti sociali, per metterli in grado di intervenire a loro sostegno (subsidium afferre) per metterli in grado di sviluppare la loro iniziative, di realizzare il loro intervento, fornendo e integrando gli strumenti e le risorse necessarie. Ciò nel quadro di una progettazione che, individuati i bisogni e censite le risorse, coordini il tutto al bene comune. Questo compito delle istituzioni e dei poteri pubblici rientra in un quadro di solidarietà, che deve dare risposta ad effettive esigenze sociali. Questo vale per la famiglia, per le comunità locali, per le comunità di lavoro, per le formazioni culturali e religiose, per la tutela del patrimonio storico, artistico, paesaggistico, per l’assistenza. 

            Sono sicuro di condividere con voi una convinzione tanto elementare quanto basilare: solo una mobilitazione corale ed una comunitaria assunzione di responsabilità ci consentirà di superare le difficoltà che ci affliggono e guardare al futuro con fiducia.

3. Non vi è attiva e creativa costruzione del bene comune che nella condivisione delle responsabilità. E’ la terza verità. Il principio di responsabilità è strettamente legato al principio di solidarietà e a quello di sussidiarietà ed è conditio sine qua non per la loro effettiva realizzazione. Il principio di responsabilità, al quale fa riferimento il concilio Vaticano II, consiste nella capacità e nel dovere del cittadino di assumere coscientemente le proprie decisioni e di rispondere moralmente e giuridicamente di esse, in relazione ai compiti e alle competenze che esso comporta, oppure di ometterle, quando sia necessario. Inoltre il principio di responsabilità chiede ad ogni cittadino l’osservanza delle leggi, la lealtà verso l’ordinamento e la società, vietandogli di approfittare dello Stato sociale e delle sue provvidenze per ottenere indebiti vantaggi e inaccettabili privilegi. 

            Mi permetto di far notare che il principio di responsabilità coinvolge in modo particolare le istituzioni e le persone che vi sono impegnate. Ad esempio, il pubblico amministratore o il funzionario è tenuto a svolgere i suoi compiti e a utilizzare i beni pubblici e le risorse collettive con la stessa diligenza che adotterebbe nei confronti delle cose di casa sua. Deve ritenersi responsabile verso i cittadini che si rivolgono a lui – soprattutto i più poveri – considerandoli non come anonimi utenti o, peggio, come una pratica da sbrigare, ma come persone portatrici di diritti e di una loro propria identità. Il principio di sussidiarietà richiama anche gli operatori della comunicazione sociale a rispettare la verità dei fatti e ad essere leali nei confronti del pubblico e della buona fede dei cittadini, e a salvaguardare con un servizio imparziale la dignità e l’immagine delle persone che entrano nel quadro delle notizie. Il richiamo alla responsabilità vale per tutti e in tutti gli ambiti, soprattutto in politica il rischio è di ridurre l’operato per il bene comune ad un superficiale apparire impegnati a farlo: basta la dichiarazione efficace, con le parole giuste al momento giusto, mostrando il lato migliore alla telecamera, per essere lì dove dovevi essere. Ma magari, senza aver fatto nulla di ciò che andava fatto, e senza aver contribuito in niente di ciò che poteva crescere. L’apparire è una brutta malattia del nostro tempo!

            Dopo aver cercato di declinare queste tre verità – solidarietà, sussidiarietà, responsabilità: veri principi animatori dello Stato sociale – passo ora a trattare alcune questioni che ritengo particolarmente delicate e urgenti per la nostra Città.

            Come nei primi tre anni di questo decennio, dedicati da noi Vescovi italiani alla emergenza educativa, vorrei soffermarmi in questa circostanza sulla educazione dei giovani alla pace, un tema estremamente sensibile, che si è fatto particolarmente drammatico con il rischio di un conflitto devastante, a causa dell’infinito focolaio di guerra scoppiato ormai due anni fa, in Siria, e con le cifre terrificanti dei due milioni di profughi e di oltre centomila morti. La veglia di preghiera e di digiuno, indetta da papa Francesco, ha visto una partecipazione eccezionale, la sera del 7 settembre u.s. nella nostra Cattedrale che non ce l’ha fatta a contenere l’afflusso di tanta gente, e si è conclusa con l’impegno, da parte della comunità ecclesiale, di dare profondità e continuità al tema della pace. E’ un impegno che noi intendiamo onorare in sintonica convergenza con le istituzioni civili, sociali, culturali e con tutti gli uomini di buona volontà.   

            In questo campo – lo sappiamo – c’è anzitutto un processo culturale da promuovere e sostenere, in cui gli enti locali – dal Comune alla Scuola – possono esercitare un ruolo importante: il passaggio dal sentirsi cittadini italiani al sentirsi cittadini europei e cittadini del mondo, senza ovviamente perdere la propria identità nazionale. E’ un passaggio culturale analogo a quello che è avvenuto dal sentirsi cittadini romagnoli, siciliani, toscani, veneti o liguri. Come oggi sarebbe del tutto inimmaginabile un conflitto armato tra riminesi e urbinati, o tra italiani e spagnoli, possiamo e dobbiamo rendere assurda e inconcepibile una guerra tra europei, americani, arabi o cinesi. Gli scambi culturali tra giovani dei paesi europei attraverso l’Erasmus, le Giornate mondiali della Gioventù, i gemellaggi tra Comuni dell’Europa Unita hanno aperto una strada di non ritorno. Ma occorre andare avanti e rendere sempre più ordinaria e praticabile questa strada. Mi domando in questo senso se il tradizionale strumento del gemellaggio non potrebbe diventare attuale ed efficace strumento di scambio di culture e di sviluppo, estendendolo anche ai rapporti con i paesi poveri del mondo. Permettetemi di citare – senza fare del trionfalismo – gli esempi virtuosi dei tanti missionari riminesi –  religiose e religiosi – sparsi nel mondo, a cominciare dalla nostra Marilena Pesaresi a cui si è aggiunto il giovane dott. Massimo Migani, che hanno scelto di operare a vita nell’ospedale di Mutoku, in Zimbabwe, uno dei paesi più tribolati del mondo. Ma ci sono altri riminesi ancora, che meritano di essere considerati veri costruttori di pace e ambasciatori della nostra Chiesa e della Città, come ad esempio la dott.ssa Alda Gemmani, e diverse “famiglie aperte” dell’APGXXIII. 

            Non dobbiamo però mai dimenticare che la pace comincia dalle nostre città attraverso la fraternità e l’inclusione. Certo, non esistono soluzioni facili ad un problema complesso come quello dell’immigrazione di chi per disperazione abbandona la propria casa, sapendo di rischiare la vita in viaggi verso l’ignoto, un ignoto visto comunque come migliore, più appetibile, più desiderabile di quel pochissimo o niente che si possieda. Non esistono soluzioni facili, se il buon samaritano del Vangelo, oggi, rischierebbe di essere incriminato dalla legge per aver prestato soccorso a uno straniero. Non esistono soluzioni miracolose o ‘buoniste’, e ci sono giorni solo di pianto, come ha detto Papa Francesco, anche se vediamo come sia sicuramente positivo il fatto che, insieme, le nazioni dell’Europa abbiano deciso di affrontare la ricerca di possibili prospettive di intervento, comprese quelle nei Paesi di origine dei migranti. Ma stiamo attenti a non vedere quanto accade come molto distante da noi, qualcosa che non ci tocca se non attraverso le terribili immagini che possiamo seguire sui media. Noi, come Chiesa, dobbiamo però ricordare che mai sia dato per carità ciò che è dovuto per giustizia, e dobbiamo anche tenere a mente le tante situazioni quotidiane e molto vicine a noi in cui approdano ogni giorno sui nostri lidi, veri e metaforici, barche cariche di persone ricche solo della speranza che chiede di veder riconosciuta la propria dignità di uomini, tutti creati ad immagine di Dio. Arrivano da paesi lontani, dalle carceri, dalla sottooccupazione, da famiglie lacerate, e mancano di tutto… La capacità di accogliere chi si trova in queste situazioni – con progetti , inserimenti lavorativi, scuole, formazione, progetti innovativi che nascano nelle parrocchie, nelle associazioni, insieme alle istituzioni, con generosità – questa accoglienza è strada obbligata ed efficace per educare i giovani a diventare costruttori di pace per un mondo che non si riduca ad essere sempre di più “quell’aiuola che ci fa tanto feroci” (Dante). 

            E’ certo però che un comune o una parrocchia – prima di proiettarsi sui problemi della pace e dello sviluppo nel mondo – debbono promuovere pace e sviluppo nella propria comunità. Pace in una comunità, ecclesiale o civile, non significa uniformità o unanimismo, ma certamente implica accettazione, rispetto e disponibilità al dialogo con chi non la pensa come noi. Se per i cristiani la polemica faziosa è scandalo, per la comunità politica c’è un malcostume da sradicare: quello di osteggiare, quando si è maggioranza, tutto quello che propone la minoranza o quello che ha fatto quand’era, a sua volta, maggioranza, e rifiutare, quando si è minoranza, tutto quello che dice e fa la maggioranza, semplicemente perché ora è maggioranza. 

            Promuovere in modo convinto e attivo una cultura di pace comporta nei cristiani la responsabilità di non farsi strappare dal cuore i grandi valori di solidarietà e di accoglienza che la cultura cristiana ha seminato da secoli nella nostra società civile. Ad ogni modo tutti siamo chiamati a fare la nostra parte nell’aiutare i cittadini ad affrontare con autentica umanità i problemi che possono sorgere – come, ad esempio, quello dei venditori abusivi – senza mai favorire “campagne” di ostilità preconcetta. Confido che su questi temi anche i locali organi di stampa si faranno un punto d’onore nell’offrire un contributo positivo per promuovere una cultura dell’accoglienza e nel cercare soluzioni positive ed efficaci per coniugare tutti i valori in gioco.

            Nel contesto della questione educativa rientra anche il ruolo, fondamentale e insostituibile, dell’Università, aperta nella nostra città da ormai quindici anni. 

            La presenza dell’Università di Bologna con una sede distaccata a Rimini è stata il frutto di una intelligente e paziente opera “corale”, che ha visto, in quegli anni, agire congiuntamente la società civile organizzata, le istituzioni politiche e le autorità accademiche per farne prima piantare, e poi crescere, il seme. Oggi quel seme è diventato una pianta rigogliosa e fruttifera, di cui andare legittimamente fieri, che non va trascurata, ma anzi coltivata e sostenuta con cura, se vogliamo che possa ulteriormente crescere e svilupparsi adeguatamente, valorizzando le sue peculiarità e facendola diventare una delle sedi cardine di promozione ed arricchimento del patrimonio umano e dello sviluppo culturale, civile ed economico del nostro territorio.

L’Università rappresenta perciò una realtà da promuovere, potenziandone la giusta autonomia, il rapporto proficuo con la città e con le sue istituzioni politiche, economiche e sociali, la sua capacità di attrazione per i giovani e il suo apporto alla loro formazione professionale, civile e culturale. Tutto ciò a maggior ragione in un momento come questo, in cui l’attuazione della recente riforma universitaria rischia di mettere in discussione l’autonomia e le prospettive di consolidamento e di ulteriore crescita del polo universitario riminese, provocando un sensibile indebolimento dell’interesse di docenti e studenti a radicare sempre più nel nostro territorio sia la didattica sia la ricerca.

Come negli anni del primo insediamento dell’Università a Rimini, è dunque tempo che politica e società civile organizzata tornino a “fare squadra”, abbandonando protagonismi e contrapposizioni, per giocare insieme questa delicata partita, che richiede sia un sereno e fermo confronto con le autorità accademiche bolognesi, sia la consapevolezza che la sede riminese rappresenta un’eccellenza preziosa ed irrinunciabile. La Diocesi di Rimini ha fin dalla prima ora creduto fermamente nell’insediamento di un polo universitario a Rimini ed ha attivamente contribuito alla creazione delle migliori condizioni per la sua costituzione, nonché alla nascita di specifici servizi indirizzati appositamente agli studenti. E’ per queste ragioni che auspico la massima convergenza di tutte le realtà accademiche, politiche e civili nell’indirizzare gli sforzi al consolidamento e alla crescita dell’Università a Rimini. In particolare raccomando una rapida ricostituzione della piena funzionalità degli organi di Uni.Rimini S.p.A., senza ulteriori dilazioni e penalizzanti rinvii. Uni.Rimini, infatti, ha svolto e svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo e la crescita del polo universitario riminese.

Mentre la crisi finanziaria continua a mordere e a dilatare in modo drammatico le fasce della povertà, tra le famiglie, i giovani e gli anziani, sento mio grave dovere offrire una breve riflessione sulle Banche di Credito Cooperativo.

Una scuola di pensiero economico ancora oggi prevalente, sostiene che la “regola economica” sia assoluta e non ammetta limitazioni “esterne” da parte dell’etica: essa e non l’uomo è al centro di tutto. Postulare che la regola economica venga prima di tutto, anche prima dell’uomo e del bene comune della società, rende le persone ingranaggi e non artefici dell’economia. Questo si rivela in particolare in una sfera dell’agire economico, che è quella finanziaria. “Finanza” letteralmente è tutto ciò che ha un fine: se esso è malvagio o perverso, la finanza non può che produrre effetti disastrosi. E’ ciò che è avvenuto con la crisi finanziaria del 2008: la finanza, staccata dal mondo produttivo e dal bene dell’uomo, divenuta fine a se stessa e per se stessa, ha trascinato nel baratro anche l’economia, che aveva pervaso. Occorre dunque ricondurre il discorso economico nell’alveo di un’attività al servizio dell’uomo e del bene comune, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, a partire da Leone XIII, con la sua enciclica “Rerum Novarum”, che sta alla base del sorgere delle Casse Rurali, fondate in Emilia Romagna a cavallo di fine ‘800 ed inizi ‘900.

            Tutte le attività economiche, da quelle finanziarie a quelle industriali, da quelle bancarie a quelle commerciali, artigianali, turistiche, o che altro, dovrebbero essere declinate ponendo l’uomo – sempre – come fine ed il denaro come mezzo, evitando il rischio del ribaltamento e cioè di trasformare l’uomo in strumento per accumulare denaro, che diviene così fine ultimo e accecante. L’etica deve dunque divenire un fattore imprescindibile dell’economia.

            In questa ottica, le BCC hanno una responsabilità e una missione: esse, cooperative di credito, devono sapere rendere visibile che l’economia, rivolta all’uomo e per l’uomo, produce sviluppo economico equilibrato e duraturo. Per dirla con il nostro Stefano Zamagni, mentre la banca commerciale dà valore al mercato – il che è certamente cosa buona – la BCC dà mercato a valori quali la mutualità, la solidarietà, la reciprocità.

            Tutto questo richiede comportamenti seri e coerenti, spesso controcorrente; le Banche di Credito Cooperativo non devono massimizzare il profitto, per cui non prediligono impiegare i risparmi dei loro soci e clienti in strumenti finanziari, ma li prestano ad altri soci e clienti, mettendo in circolo la ricchezza raccolta nel territorio di appartenenza. “La Banca di Credito Cooperativo deve sempre ricordare che si va in banca per portare fiducia sotto forma di risparmi e per ricevere fiducia sotto forma di prestiti”, come diceva in ripetute occasioni il compianto cardinale Ersilio Tonini.

            In questo periodo di crisi l’amministratore di ogni istituzione finanziaria, ma ancor più quello di una BCC, deve coniugare il dovere della sana e prudente gestione con l’esigenza di fronteggiare gli effetti della crisi e così di non far mancare il credito alle famiglie in difficoltà e di essere di supporto alle imprese che creano e danno lavoro. L’attenzione e la prossimità all’uomo non devono essere dimenticate neppure nel momento del recupero crediti, ottenuti per prestiti andati in sofferenza.

            In questa prospettiva, rinnovo l’auspicio, formulato nell’Enciclica “Laborem exercens”, che i corpi sociali intermedi possano continuare a godere “di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri”.

            In conclusione, aiutiamoci a lanciare segnali di speranza. E’ vero: la situazione è molto preoccupante, ma i nostri padri ci hanno insegnato che è proprio nei momenti bui che bisogna alzare lo sguardo e guardare le stelle. Sì, ci è consentito sperare. Delle piccole luci si vanno accendendo, non possiamo negarlo. Mi sia consentito citare, ad esempio, il tentativo avviato dalla Prefettura per aprire dei tavoli che aiutino a fare qualche passo concreto per risolvere i problemi costituiti da una burocrazia asfissiante, da una stretta creditizia opprimente. Permettetemi anche di citare il progetto elaborato dalla Diocesi per costituire un Fondo per il Lavoro, al quale la stessa Prefettura, la Presidenza del Tribunale, oltre al nostro Stefano Zamagni e Maurizio Focchi si onorano di partecipare, come membri del Comitato dei Garanti. Non credo che sia segno di campanilismo o di provincialismo sognare che Rimini abbia e le carte in regola per aprire un “laboratorio della speranza” che aiuti soprattutto i nostri giovani – come dice spesso papa Francesco – a “non farsi rubare la speranza”.

Rimini, 14 ottobre 2013                                                        + Francesco Lambiasi

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