“Solo un Dio ci potrà salvare”

“Solo un Dio ci potrà salvare”

“Solo un Dio ci potrà salvare”

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” (Ungaretti, Soldati). Si parla di una guerra, la Prima Guerra Mondiale, e della fragilità della vita. Quando, al liceo, abbiamo studiato questa poesia, forse non abbiamo mai pensato che poteva essere la lirica dei nostri terribili giorni, nell’incubo del Covid-19. Non passa giorno, per qualcuno non passa ora, che non si abbia notizia di un amico colpito dalla malattia in modo grave e di altri che già sono morti. Ieri notte, un amico medico che ha scelto di lavorare all’ospedale dove si cura il Covid-19, mi raccontava la situazione terribile e inimmaginabile di quello che sta vivendo, e il senso di impotenza di fronte alla scelta, che a volte è necessaria, di decidere chi curare e chi lasciare morire. Perché i posti sono limitati e non si possono curare tutti. Non vorrei essere al suo posto, e capisco che se non troviamo un sostegno in chi può salvarci, alla fine sarà una sconfitta dolorosa per tutti.

In questo cammino, che pone domande serie a tutti noi, ogni tanto per grazia ci raggiungono testimonianze che sostengono, rendendo meno soli di fronte a quanto accade. Oggi ho letto la lettera di un medico della prima divisione di Malattie Infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, Amedeo Capetti, che così scrive al direttore di Il Foglio: “Noto, e trovo che sia un sintomo molto importante, la scomparsa quasi totale del lamento. I miei pazienti, invece di lamentarsi, mi mandano ogni giorno messaggi per chiedermi come sto e anche per partecipare dell’esperienza incredibile ed eccezionale che sto vivendo. E questa è la vera ragione per cui ho deciso di scriverle. In effetti quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima. La grazia di questa nuova coscienza di sé trasforma radicalmente ciò che facciamo, genera stupore, amicizia, ci si guarda e ci si dice: oggi non ci possiamo abbracciare ma un sorriso ci dice ancora di più di quanto potrebbe dire un abbraccio. Questa consapevolezza ci fa diventare partecipi del dramma dei nostri pazienti e non è assolutamente un caso che i miei colleghi mi chiedano di pregare non solo per i loro cari ma anche per i loro pazienti, come non era mai successo prima. E anche questo è contagioso. Ieri mi ha chiamato una signora di Crema per sentire notizie della nonna, ricoverata al Sacco, che è molto grave. Mi ha riferito dell’altra nonna, morta di Covid, e della mamma, in rianimazione a Crema, poi mi ha detto: ’Vede, dottore, all’inizio io pregavo, ora non prego nemmeno più’. Io le ho risposto: ‘La capisco, signora, non si preoccupi, pregherò io per lei’. Al sentirlo ha avuto un sobbalzo e ha risposto: ‘No, dottore, se lo fa lei lo faccio anch’io. E anche per la mia mamma, preghiamo insieme’”.

Improvvisamente, leggendo queste righe e tutto l’articolo, mi sono ricordato delle parole di Emmanuel Mounier, nelle lettere che scrive alla moglie per vivere insieme la malattia gravissima della figlia Françoise: “Le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nell’accettazione. Non dobbiamo cercare di sminuirla con le nostre parole (…) si tratta di un segreto inquietante della Provvidenza. (…) Questo segreto si ripercuoterà, provocando stupore, nell’eternità. Ci sono quelli che Dio conduce sulle vie della ricchezza, altri (…) sulle vie del perenne insuccesso. Non ci resta altro che amare, amare Dio per quello che fa, e amare intensamente quelli che Egli spezza per amore. Io mi sento piccolo di fronte a loro. (…) L’angoscia, talvolta, si serve di noi (…) Ci sono dei momenti in cui anche i santi, improvvisamente dubitano di tutto: del loro amore e di Dio. Nessuna luce ci può essere data senza questa notte (…) Non si è veramente grandi… fino a quando la vita non ci mette alla prova rifiutandoci nettamente, senza appello, qualcosa cui si aspira con tutto il proprio essere. (…) Bisogna trasformare in gioia tutto quello che la felicità ci rifiuta (…) Insieme dovremo rendere belle le ore che ci saranno date. Comminando per strada, poco fa, ho cercato di far gioire il mio cuore. Non è stato difficile. Mi è bastato pensare… che ogni sofferenza assunta in Cristo perde la sua disperazione, la sua stessa negatività! (…) Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo prevedente, si rivela come una nuova richiesta d’amore” (E. Mounier, Lettere sul dolore).

San Giovanni Paolo II disse che la sofferenza è una domanda che è rivolta a noi stessi, agli altri e a Dio. Chiediamo umilmente di essere aiutati a rispondere.

 

Don Gabriele Mangiarotti

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