Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato

Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato

Ferrara, Voci di una città. N. 33 12/2010

Rivista semestrale di cultura, informazione e attualità della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara

Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato

Scritto da  Emanuela Guidoboni e Marco Folin
La sequenza sismica del 1570-1574: un evento importante per la storia della città
Quando si perde la memoria di eventi distruttivi del passato, come i terremoti, si perde anche la percezione del rischio a cui si è esposti. Il caso recente dell’Aquila ne è un’amara dimostrazione: la maggior parte della popolazione non era consapevole di trovarsi in una delle aree a più alta pericolosità sismica del paese. Non bastano quindi gli studi scientifici, che circolano per lo più in ambienti ristretti, per formare la consapevolezza del rischio. Eppure è proprio la diffusa e corretta conoscenza dei terremoti distruttivi già subiti nel passato a favorire l’accettazione responsabile delle normative antisismiche, sentite non più come limitazioni e vincoli da evitare, ma come indispensabile strumento di salvaguardia delle vite umane e del patrimonio edilizio. La “memoria consapevole” dei cittadini può quindi stimolare un efficace e responsabile controllo sulla qualità delle costruzioni, a partire da quelle in cui si abita. Anche terremoti di elevata magnitudo non sono necessariamente dei disastri, a condizione di accadere in società preparate a sostenere questa sfida. Da svariati decenni, un intero settore della sismologia studia i terremoti del passato con storici specializzati. Quali sono le ragioni di questo ricorso alla storia per finalità scientifiche in un’epoca come la nostra, in cui le scienze naturali sono avvezze ad avvalersi principalmente della tecnologia, spesso presentata dai mezzi di comunicazione come la soluzione di ogni problema? Il fatto è che sono proprio i dati storici a fornire le informazioni necessarie a localizzare gli epicentri, a valutare la propagazione dei terremoti, a fornire la grandezza degli impatti sociali ed economici subìti, a mettere a disposizione migliaia di dati sull’intensità degli effetti sismici locali. Tutti questi elementi concorrono alla stima della pericolosità sismica di siti e aree del nostro paese, ed è su tali basi che diviene possibile delineare gli scenari sismici futuri. Questi dati storici sono oggetto di indagine in ogni paese sismico del mondo, ma sono rarissimi i casi in cui i sismologi si trovano ad avere a disposizione un patrimonio documentario così ricco, geograficamente diffuso e cronologicamente esteso come in Italia. Eppure quanti sono i cittadini di Ferrara e della sua provincia ad avere percezione della pericolosità sismica dell’area in cui abitano? In gran parte del nostro paese sono mancati e mancano ancora i “volani” culturali per trasmettere questo tipo di conoscenze e per far crescere una nuova cultura della sicurezza abitativa in un contesto non catastrofista, ma scientificamente documentato. In questa prospettiva, ci si può chiedere quanto Ferrara e il suo territorio provinciale siano esposti al rischio sismico. Possediamo moltissimi dati sui terremoti accaduti: ed è quasi ovvio perché in una città come Ferrara, importante centro di cultura e di sedimentate memorie scritte, tali eventi venivano descritti già a partire dal XII secolo. La maggior parte di questi terremoti non ha causato effetti gravi: dalla percezione del solo scuotimento a lesioni di edifici, caduta di camini, cedimenti di muri interni, alcuni crolli. Tuttavia uno di questi terremoti, quello iniziato nel novembre 1570, ha avuto un peso cruciale nella storia della città: e non solo come evento sociale, culturale e politico, ma anche per le attuali valutazioni di rischio a cui oggi sono esposti gli abitanti, le case e i monumenti cittadini. Fra il novembre 1570 e la fine del 1574 Ferrara si trovò nell’area epicentrale di una lunga e forte sequenza sismica (con oltre duemila scosse, secondo i contemporanei), concentrate soprattutto fra il novembre 1570 e il febbraio 1571. Circa il 40% delle abitazioni fu danneggiato, oltre a quasi tutti i maggiori edifici pubblici. Anche le chiese rimasero segnate da crolli parziali, lesioni, sconnessioni delle pareti portanti, gravi dissesti. Fu un disastro da cui la città e la dinastia dei suoi sovrani, gli Este, non si sarebbero più riprese: un disastro ingente non solo per i danni subiti (stimati intorno ai 300.000 scudi), ma anche per aver indotto un generale senso di disorientamento e di sfiducia nell’opera umana e nel destino stesso della città. Il terremoto fu infatti interpretato da un lato come segno dello sfavore divino nei confronti di Ferrara e dei suoi sovrani, dall’altro come un evento che metteva in crisi teorie consolidate, sollecitando i “filosofi naturali” (gli scienziati del tempo) a riflettere sulle cause dei terremoti in generale e di quello in particolare – avvenuto in pianura e sul far dell’inverno, contraddicendo le teorie allora correnti sull’argomento. In questa sequenza sismica, il senso di precarietà che ne derivò per gli abitanti, la percezione di una punizione divina abbattutasi sulla città, si accompagnarono alla sospensione di ogni norma consolidata di convivenza. La popolazione si vide infatti costretta a cercare rifugio in ricoveri di fortuna, dove persone di ogni grado sociale si trovarono a coabitare fianco a fianco per mesi, in uno stato di promiscuità forzata che coinvolse persino i sovrani. Questa corte trasferita in tende di fortuna, e divenuta all’improvviso “cingana” (come si scrisse nelle corrispondenze diplomatiche), colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei, tant’è che su tali vicende è disponibile una straordinaria quantità di fonti di vario genere: diari e resoconti di testimoni oculari di varie estrazioni sociali, culturali e anche religiose (si pensi solo ad Azaria de’ Rossi, importante esponente della comunità ebraica cittadina, che scrisse un importante trattato sul terremoto). Oltre a queste testimonianze, ci sono poi i dettagliati carteggi diplomatici e le relazioni inviate dagli ambasciatori mandati sul posto dalle principali corti italiane, per raccogliere notizie “di Val di Po dov’era Ferrara” (come scrisse l’ambasciatore fiorentino nei primi giorni del terremoto). Furono scritti anche diversi trattati volti a indagare le cause dell’evento – dagli uni ritenute naturali, dagli altri prodigiose -, e persino sonetti e poesie ispirate all'”orrore estremo / di triplicate scosse in un sol giorno, / che il mondo in sé fesse ritorno”. Tutto questo avveniva in un momento particolarmente delicato per gli equilibri politici della città: se il duca fosse rimasto senza eredi (e le voci sulla sua sterilità andavano facendosi sempre più insistenti), alla sua morte il Ducato di Ferrara sarebbe stato devoluto alla Santa Sede – prospettiva per altro vagheggiata apertamente da una parte consistente della popolazione, esasperata dal peso sempre più intollerabile della fiscalità estense. Tanto più che da anni i papi non trascuravano alcun mezzo per minare il forte consenso di cui tradizionalmente la dinastia godeva in città, agendo sul piano diplomatico e giuridico nel tentativo di delegittimare i duchi e spezzare i rapporti privilegiati che li legavano alla Corona francese. Così l’importante sequenza sismica iniziata nel novembre 1570 divenne, subito dopo le tre forti scosse del 16 e del 17 di quel mese, una sorta di grimaldello nella diplomazia di Pio V per incrinare il prestigio estense in città e per mettere in discussione il regime ducale agli occhi dei sudditi e delle altre corti italiane. Di qui gli sforzi compiuti da Alfonso II d’Este (figlio di un’eretica dichiarata come Renata di Francia) per allontanare da sé qualsiasi ombra di peccato, mostrandosi ottimo cattolico e cercando con ogni mezzo di minimizzare agli occhi del mondo i danni causati dal terremoto. Di qui le frequenti comunioni del duca (già sin dalle prime scosse, come si premurava di scrivere a Venezia il suo segretario). Di qui la sua immancabile, ostentata, partecipazione a ogni processione religiosa da lui stesso organizzata in città, le elemosine ai poveri, la fondazione di nuovi conventi, la decisione di non abbandonare in nessun caso Ferrara, anche a costo di vivere indecorosamente accampato in una fangosa tenda all’addiaccio. Di qui gli affannosi lavori di restauro del Castello, per potervi fare ritorno al più presto e ristabilire qualche elemento di normalità. Di qui anche una sorta di appello, benché assai probabilmente non esplicito, all’ambiente scientifico del tempo (medici, fisici, filosofi naturali ed esperti vari), per potere disporre di una spiegazione “naturale” delle cause fisiche del terremoto da opporre alle minacciose insinuazioni del papa sulle “colpe” del duca. In questo contesto, nel corso del 1571 sul terremoto di Ferrara furono scritti almeno sei trattati, quattro dei quali pubblicati, gli altri due rimasti inediti; né mancò chi sostenne l’ipotesi che i sismi ferraresi dovessero essere messi in relazione alle recenti opere di bonifica di ampie aree del Ducato, che prosciugando il terreno circostante la città avevano causato un profondo squilibrio ambientale, favorendo l’accadere del terremoto. All’interno di questo eccezionale corpus testuale, di vario livello e approfondimento, emerge per la sua ampiezza e straordinaria originalità il Libro, o Trattato de’ diversi terremoti di Pirro Ligorio: architetto ed erudito illustre, già successore di Michelangelo come responsabile della fabbrica di San Pietro, al servizio della dinastia estense sin dal 1550 – quando aveva iniziato a progettare la grande villa di Tivoli – e poi invitato alla corte di Ferrara nel 1568 come antiquario di corte. Nel suo Libro Ligorio, che si dichiarava fervente cattolico, faceva ricorso alla storia per sostenere che i terremoti erano sempre accaduti, aggiungendo a questa sorta di nuovo e tortuoso catalogo sismologico un accuratissimo resoconto giornaliero delle scosse, che al tempo in cui scriveva continuavano a colpire Ferrara causando danni ingenti al patrimonio edilizio cittadino. Tuttavia, secondo Ligorio la principale causa di tali danni era la pessima qualità degli edifici ferraresi, costruiti con materiali scadenti e ricorrendo a tecniche costruttive grossolane se non errate. Nell’ultima parte del testo, infine, intitolata Rimedi contra terremoti per la sicurezza degli edifici, Ligorio presentava un progetto di casa antisismica che non ha precedenti nella cultura occidentale, e che si fonda su un’idea della costruzione sotto input sismico di incredibile modernità. È straordinario che questo progetto sia nato proprio a Ferrara, una città che oggi avrebbe la facoltà di ripensare quasi da privilegiata alla propria sismicità, rielaborando anche in questa prospettiva le sue memorie del passato. Come potrebbero rispondere oggi le case, i palazzi, le chiese di Ferrara e del suo territorio all’input di un terremoto simile a quello del 1570-1574? Come reagirebbero gli attuali abitanti ai problemi di una sequenza sismica così forte e prolungata? Quanto è cambiata la città rinascimentale dopo il terremoto del 1570? È una domanda che gli storici dell’architettura non si sono ancora posti. Del resto, non esiste ancora un Atlante dei danni sismici di Ferrara, che costituirebbe un dossier preziosissimo per l’attuale protezione del patrimonio architettonico storico Il trauma del terremoto del 1570 fece affiorare alle coscienze del tempo inquietudini, tensioni, dubbi e incertezze. Nel clima della controriforma, quel terremoto divenne uno strumento della politica aggressiva del papa, che facendo leva sulle pretese colpe del duca (e in particolare sulla sua politica di protezione di ebrei e convertiti) riuscì ad incrinare i rapporti di fedeltà che legavano i sudditi alla dinastia estense. Ma da allora iniziò anche – benché in modo discontinuo e quasi “carsico”- la stagione dei rimedi per difendersi dai danni dei futuri terremoti: una ricerca che Ligorio aveva ritenuto un “dovere dell’intelletto umano”. Questa fiducia nella razionalità può essere oggi considerata il vero frutto di quella temperie, a cui possiamo guardare in modo positivo come a una preziosa eredità proprio di Ferrara.

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