PALAZZO PUBBLICO, CULTURA E POLITICA

PALAZZO PUBBLICO,  CULTURA E POLITICA

PALAZZO
PUBBLICO,  CULTURA E POLITICA

Le celebrazioni del centenario  del Palazzo Pubblico  ci inducono a riflessioni da  diversi  punti di vista. Qui ci si limita a qualche   considerazione sul
contesto politico-culturale  che portò,  a fine Ottocento,  a realizzare quell’edificio e, soprattutto, a realizzarlo a quel modo.

Cultura e politica hanno nella realtà  sammarinese un forte intreccio, con una accentuata prevalenza della politica. Dice Paul Aebischer:   la indipendenza di San Marino è la magnifica conseguenza degli sforzi testardi, della diplomazia plurisecolare di un piccolo gruppo di montanari…. . Nel corso dei secoli, questi montanari hanno perseguito un ideale di libertà….. La tensione  verso   la concretizzazione di quell’ideale  finisce  per  assorbire  pressoché  per intero le  energie e le risorse della   comunità, tanto  dell’economia che della cultura.  Così si spiega, ad esempio,  in un paese tanto  piccolo e, generalmente,  povero,  il grande  scenario delle torri e delle mura, già presente nei sigilli del Trecento,   con un  corredo    di   armi sempre in
quantità  enorme  e sempre   adeguate  all’evolversi della tecnica militare (ed in mano, fino al Cinquecento, a uomini  del mestiere, normalmente al soldo di questo o di quel potentato ma  pronti  ad accorrere sul Titano  al primo accennodi  pericolo).

 

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Quell’ideale   è in cima agli obiettivi della comunità. Non solo in tempi lontani che, appunto perché  lontani, ci sembra più facile accettare come eroici,  ma costantemente lungo i secoli. E’ perseguito con   una fermezza ed una linearità di comportamento quali è possibile riscontrare, in altre parti della penisola, solo in   famiglie eccezionali che sono riuscite  a trasmettere, per secoli, generazione dopo generazione, un progetto di ricchezza e di potenza.

Una prova  recente di tale determinazione  è  fornita proprio dal  Palazzo Pubblico. La prima pietra è posta il 7 maggio 1884. L’inaugurazione avviene il 30 settembre 1894. Singolare appare subito lo stile:  non ha  riscontro né nelle costruzioni del posto né nelle  mode  architettoniche dominanti in  quel periodo nelle vicinanze della Repubblica. Indurrebbe ad ipotizzare una scelta casuale, prospettata da  un dilettante, magari estroso o bizzarro. Invece il progettista è  un professionista di fama, Francesco Azzurri, un architetto   di tendenza neoclassica,     presidente della prestigiosa Accademia di San Luca di Roma, membro  della commissione incaricata di scegliere il progetto del monumento a re Vittorio Emanuele II, la cosiddetta “patria di marmo”, simbolo dell’Italia unificata in un regno. 

Anche San Marino aspira, in parallelo,  a un monumento-simbolo,  il Palazzo Pubblico appunto, emblema di un microstato,  una Repubblica,   che vuol continuare a vivere  dentro l’Italia-Regno. Sono i sammarinesi a scegliere lo stile dell’edificio, in funzione di una strategia politica  già da tempo impostata. 

 

San Marino si era salvato in modo  piuttosto fortunoso durante le guerre risorgimentali, a seguito di decisioni prese   nelle cancellerie di Torino e di Parigi,  da   Cavour e da Napoleone III. La sua sopravvivenza fu   imposta a Cavour  da Napoleone III.

Cessato il rumore delle armi, scampato il primo pericolo, San Marino  si attiva per   guadagnare il consenso dell’Italia. Quel consenso è indispensabile  per rendere definitiva la sua condizione. In particolare deve  accattivarsi  l’area liberal-monarchica, uscita  vincitrice dal Risorgimento,  che non si era riconosciuta nell’entusiasmo verso San Marino manifestato più volte (e con intensità anzi sospetta a quella parte politica) dai garibaldini  e dai mazziniani in genere, notoriamente  antimonarchici.  Insomma, per sopravvivere alla unificazione della penisola San Marino ha bisogno di produrre  giustificazioni condivisibili dai protagonisti  di quella unificazione.

Si esplora la storia. Fra   le  più rappresentative  espressioni  della  civiltà peninsulare viene individuata   l’età comunale. In essa,  per le  estese radici culturali e libertarie che la caratterizzano,  avrebbero potuto riconoscersi le varie anime  della composita  realtà risorgimentale.  San Marino può far riferimento a quell’età  senza forzature.  Facile, ad esempio, definire comunale la ‘costituzione’ sammarinese, che ancora ha i consoli al vertice dello Stato.

La scelta è felice. Ponendo  l’accento su San Marino-comune si sarebbe ridotto  l’impatto dell’altro ben  più noto appellativo, quello di repubblica, che suonava, ora,  troppo forte, quasi  provocatorio all’interno di  uno stato monarchico, con una casa regnante a dir poco malferma.   Inoltre, attirando l’attenzione su un periodo così lontano, antecedente ai secoli dello Stato Pontificio vero e proprio, la si distoglieva dall’ambiguo rapporto sammarinese col papato, contro il quale si era svolto il Risorgimento Italiano (i papi, sia pure con qualche ripensamento, avevano favorito o almeno tollerato   la formazione di San Marino). 

Ad impostare la strategia ed a curarne la realizzazione furono  i pochi uomini  di cultura della modesta San Marino della seconda metà dell’Ottocento, che, di colpo, da enclave del sonnolento  Stato Pontificio si era  trovata enclave del Regno d’Italia, effervescente di nazionalismo. Fra questi intellettuali,  Marino Fattori.  Si aggiungeranno ad essi, via via più numerosi nei decenni successivi,  i giovani che si laureeranno  nell’Ateneo Bolognese, fra cui Pietro Franciosi. Determinante,   fin dall’inizio,  fu   l’apporto di Pietro Ellero, docente di diritto nell’Università di Bologna, uomo tipico del Risorgimento Italiano, in cui si combinano reminiscenze classiche ed accesi entusiasmi  comunali.  Alla comunità del Titano Ellero dedicherà molti e diversi  scritti, fra cui  la “Relazione della Repubblica Sammarinese”,  di grande fondamento scientifico.

La strategia, insomma, nasce con solide basi e riesce da subito a coinvolgere autorevoli personalità esterne. 

Però non  ci si affida solo alle parole, né si gioca solo all’esterno.   San Marino-paese   era apparso in condizioni miserevoli,  al cadere dello steccato pontificio, condizioni  del tutto  simili a quelle dei paesi circonvicini: piccolissimi borghi rurali di una zona montagnosa, dove l’economia ristagna da secoli. Primo obiettivo dei sammarinesi: distinguersi.  Coi mezzi più diversi.  Nell’edilizia si cominciò a costruire il nuovo ed a rabberciare il vecchio pensando all’antico. Si aprì  una Biblioteca. Poi   un Museo. Si diffuse l’assegnazione di titoli nobiliari.
Furono  coniate le prime monete ed emessi i primi francobolli.  Siccome però è la storia ciò che fa realmente diverso questo cucuzzolo dagli altri cucuzzoli della Val Marecchia,  si incentivò  la produzione di scritti storici, e, soprattutto, fu  riordinato l’Archivio. Per l’Archivio ci si avvalse del bolognese Carlo Malagola, il quale già aveva cominciato a frequentare il Titano per  scrivere  un  libro sull’episodio alberoniano, da un punto di vista condivisibile dai sammarinesi.  Sarà proprio il Malagola a  dettare il testo della  pergamena  murata con la  prima pietra del Palazzo unitamente ai libri del Delfico e del Fattori (Delfico, Fattori e Malagola sono  gli autori principali su cui si baserà, dieci anni dopo,  il  Carducci per il suo discorso). 
 

In conclusione,    il rafforzamento della  identità  sammarinese è posto in termini   concreti ed è tradotto in una serie di atti ben coordinati.  I risultati non mancano. Prende piede una idea nuova di   San Marino. La retorica, sottofondo comune, in quel periodo, alle principali modalità di comunicazione, prese ad  amplificare le caratteristiche positive di tale identità,  fino alla mitizzazione. Si cominciò ad additare San Marino come piccola città-stato, arroccata su un  monte di forma singolare, con il carattere di comunità medioevale, sopravvissuta a fatica dentro lo Stato Pontificio. Presentato così, come scampolo di   antico comune italico, San Marino attirò  l’interesse e la simpatia di un vasto pubblico,  in quanto, fra l’altro,  era  in grado di riassumere  in sé  i  contrapposti sentimenti di ogni italiano, combattuto (allora più di adesso)  fra l’esaltazione della grande patria appena attuata, ed  il vagheggiamento, un po’ romantico, della propria piccola patria perduta. 

Da tempo sul Titano si avvertiva la necessità   di poter disporre di locali adatti  per il  Consiglio, per  le udienze dei Reggenti  e per i (pochi) dipendenti pubblici. Ma prima dell’unità d’Italia  la questione era posta in termini eminentemente pratici. Al più si ipotizzava un luogo decente per la residenza dei Reggenti,   dove avrebbero potuto trovare posto    con la dovuta regolarità tutti gli altri uffici pubblici.

Dopo l’unità d’Italia la costruzione del Palazzo Pubblico fu inserita nella strategia  più ampia della enfatizzazione delle ascendenze comunali della Repubblica. L’Azzurri assecondò pienamente  i sammarinesi.  Con scrupoloso impegno. Dopo attenti studi e ricerche,  progettò il Palazzo come edificio-simbolo  facendo riferimento, come egli stesso disse, alla architettura dei palazzi monumentali delle…. antiche Repubbliche, ora palazzi comunali…  e scelse  senza esitazioni… uno stile che rammentasse l’antico del decimosecondo o decimoterzo secolo... Le pietre del Palazzo si affiancano a saggi storici, brani musicali,  esercitazioni retoriche nell’esaltare  questo piccolo angolo di terra, antico custode di libertà italiana (come scrisse  Pietro Tonnini, l’uomo politico sammarinese  che  scelse l’Azzurri  e tenne poi con lui i contatti a nome del governo).

Anche il Carducci, chiamato a pronunciare il discorso inaugurale,  si riconosce pienamente nella scelta medioevalistica dei sammarinesi.

Carducci è un personaggio importantissimo nella nuova Italia:  professore dell’Università di Bologna, come il collega Ellero, “il Poeta d’Italia” è anche   presidente della Deputazione di Storia Patria delle Romagne e   senatore del Regno.
Politicamente  ormai da vent’anni  si schiera con la monarchia. Ben accreditato presso i vari governi che si succedono a Roma, è considerato affidabile anche di fronte alle rivendicazioni sociali  che stanno  squassando,  in quegli stessi mesi, la penisola.

Carducci  pronuncia per i sammarinesi un discorso che dovette a loro sembrare  un capolavoro anche di arte politica. L’enfasi retorica  copre opportunamente le contraddizioni: egli     esalta i sentimenti repubblicani senza che i  monarchici abbiano motivo di risentirsene,  bolla con espressioni  platealmente anticlericali il periodo pontificio e si sofferma esageratamente  sull’episodio alberoniano studiato dal Malagola,  pur magnificando la religione con toni che  finirono per scandalizzare il suo stesso seguito di ‘sacerdoti’ del positivismo, venuti da Bologna  e da altre parti a celebrare l’avvenimento (di enorme risonanza anche popolare).

Il Palazzo Pubblico,  realizzato  in  purissimo stile comunale italiano, esempio di gagliarda e solenne architettura della gente d’Italia, assurge col Carducci   a memoria, testimonianza, ammonizione delle cose ‘italiche’ al  cospetto  di tutte le genti ‘italiche’ raccolte la prima volta (Murri, nel 1906,  arriverà  ad affermare  che a San Marino si respira un’aura di maggiore italianità).

L’aureola cultural-politica portata  dal Carducci  è decisiva. San Marino apparso, al cadere dello Stato Pontificio, come un rudere medioevale   mummificato dentro quello stato emblematicamente  arretrato e reazionario, diventa il  fiore della libertà italiana, come dire,  il simbolo dell’Italia moderna unificata.

In conclusione, l’onda  di nazionalismo  che ha prodotto la unificazione della penisola non travolge San Marino. San Marino, di fronte a quel nazionalismo, anziché mettersi in atteggiamento passivo o   difensivo, vi si  è calato dentro, l’ha cavalcato, modificandone a poco a poco la direzione, fino poi a sfruttarne  la forza,    per farsi spingere definitivamente  fuori  dai pericoli  derivanti dal  processo di unificazione indotto da quello stesso nazionalismo. Insomma, San Marino si salva dal nazionalismo italiano, diventandone, per così dire,  un simbolo.

Effettivamente San Marino esce consolidato  da quell’eccezionale 1894. Tre anni dopo  stipula una nuova convenzione con il Regno d’Italia.  Cinque anni dopo, ormai sicuro dentro la penisola,  può affacciarsi dalle Alpi alla ricerca di nuovi riconoscimenti di sovranità: Inghilterra, Belgio, Olanda e Stati Uniti d’America.

  

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Fu, insomma,  il Palazzo Pubblico, il punto d’arrivo di  una lunga operazione politica che gli uomini di studio e di cultura sammarinesi  impostarono e realizzarono. Quegli uomini sono  fra loro divisi forse più di quanto avvenga normalmente in altri (piccoli)  luoghi, e,  in quel periodo, sono divisi più che in altri periodi della storia. Alcuni sono così attaccati all’antico da voler continuare a rinnovare il Consiglio solo per cooptazione,  come nel Seicento, ignorando le più elementari regole della democrazia, come se la rivoluzione francese non fosse mai avvenuta ed il Titano potesse continuare a rimanere fuori del mondo, in tema di diritti politici e civili. Altri  (ad esempio Pietro Franciosi), sono accesi  propugnatori di innovazioni politiche e sociali,  conosciuti ed ammirati, per questo loro impegno,  anche oltre i confini della Repubblica.
Eppure ognuno,   indipendentemente  dalla fazione  in cui  milita,  dalla professione,  dai convincimenti religiosi, dagli interessi personali e familiari,   porta un suo specifico contributo a quella singolare operazione politica. Un esempio ci è fornito proprio dal Franciosi.  Egli, socialista, contribuisce attivamente  alla venuta del Carducci ed ha il  privilegio di leggere in anteprima  il discorso, di cui si dichiara   entusiasta. Eppure Carducci non raccoglie le istanze sociali.  Anzi è infastidito dai moti sociali in genere ed ignora totalmente la situazione interna sammarinese. Sorvola perfino sulle  richieste di democrazia interna di cui è portavoce lo stesso Franciosi, e che il potere oligarchico continua a  bloccare, arroccato in un conservatorismo  becero e grottesco. 

 

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La strategia politica, conclusasi col Carducci,  fu impostata  al momento dell’unificazione della penisola, forse in quello stesso 1861. O addirittura qualche mese prima. Era necessario ed urgente intervenire. Infatti stava montando verso San Marino un atteggiamento ostile come si evince da alcune dichiarazioni dei protagonisti della politica risorgimentale e dai giornali. Ad esempio, la “Gazzetta del Popolo” di Bologna  invita Cavour a risolvere la questione San Marino una volta per tutte senza mezzi termini: La Repubblica di San Marino è il nido della reazione papalina…. quantunque repubblica, non ha avuto, San Marino, né ha le più sincere tenerezze per quanto sa di patrio e di liberale. I sammarinesi ribalteranno  tale atteggiamento dimostrando, al contrario,  che questo  Monte… è rimasto  per tanti secoli il deposito della libertà italiana  (come si  legge in una nota diplomatica) e non hanno dubbi sulla riuscita della operazione: San Marino sarà conservato nella sua autonomia e indipendenza.

Dietro a quella strategia  ci dovevano essere, indubbiamente, a San Marino, uomini capaci, colti ed esperti in politica.  Eppure San Marino, proprio in quegli  anni, veniva descritto  dal francese Edmond About nel modo seguente.  Ce singulier état de 9500 hommes, chi conserve le nom de république…, m’a tout l’air d’un ghetto rural</i>; i soldati hanno una uniforme gràce aux libéralités d’un bienfaiteur étranger il n’y a pas, à proprement parler, de finances</i>;  l’istruzione pubblica  est à peu prés nulle: une vingtaine de petit républicains vont à l’école chez les pre^tres.

 

I borghi rurali sono, in genere, senza storia, perché  non sono in  grado di scrivere la storia in quanto non riescono a produrre una classe dirigente capace
di svolgere una politica autonoma.  San Marino, pur ‘borgo rurale’, naviga bene nella storia. E’ un caso molto raro. Come in genere succede per le rarità, è
frequente il rischio della  enfatizzazione.

Raramente  il microcosmo sammarinese è oggetto di   giudizi meditati.  Abbiamo visto come si esprime l’About   (venne qui già con un intento demolitore, per ragioni di politica interna francese). All’opposto, il  Carducci usa toni  così accesi da risultare, talvolta, altrettanto  falsi o  prevenuti.

Per evitare   inciampi pregiudizievoli alla loro Repubblica, per secoli, i sammarinesi non hanno agevolato  osservazioni ravvicinate della  realtà e della  storia  del Titano.
Né, in pratica, ne hanno proposto,  seriamente, una loro  lettura.

 

Manca, insomma, una vera storia.  Al più, finora, della  vicenda umana  che ha avuto per protagonisti gli uomini del Titano si  conoscono  episodi che ne mettono  in evidenza il coraggio… l’acuta ed astuta tenacia. Non sono state analizzate, ad esempio,  le strategie  di lungo periodo, o certe  strategie ardite e complesse, per elaborare le quali non sono stati certamente sufficienti  il  coraggio  e la tenacia.   Nel libro “Il cammino di una idea” si è accennato a due  strategie  impostate all’interno  della operazione   che ha fatto sì che il Ducato d’Urbino, nel suo crollo, non coinvolgesse anche San Marino (portate avanti parallelamente, una sul piano diplomatico e l’altra su quello religioso,  per oltre  quarant’anni,   con mosse di  spregiudicata sicurezza,  con  piena ‘intelligenza’ del teatro e degli attori).

In effetti i dirigenti sammarinesi,  oltre al coraggio  e alla tenacia,  dimostrano, lungo la storia,  una capacità di lettura e di interpretazione dei vari tempi della storia,  che solo persone di solida formazione culturale cioè pienamente presenti nella storia,  potevano elaborare.  Si intende dire che San Marino, pur  isolato per ragioni di geografia, pur povero perché  montagnoso  e senza fonti economiche integrative dell’agricoltura, non rimane fuori del tempo, isolato rispetto al progresso culturale che ha  attinenza con la politica ed, in ogni tempo,  sa cogliere  le migliori opportunità  per  fare un altro  passo verso  la concretizzazione dell’ideale.

 

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E’ significativo, a questo proposito, quanto avviene fra Quattrocento e Cinquecento,  allorché il mestiere delle armi  tende ad esaurirsi  per l’arrivo, nella penisola, degli stranieri che impongono la loro pax. Il potere papale nei  territori  della Chiesa si consolida fino ad assumere, per alcuni aspetti, le  connotazioni  centralizzanti proprie di uno stato.  Il Montefeltro che con Rimini è stato a lungo il  bilico delle cose d’Italia, ritorna ad essere regione marginale,  in cui l’unico cespite economico è  una povera agricoltura di montagna che al più permette la sopravvivenza.  I sammarinesi non si rassegnano.  Imboccano un’altra  strada: gli   studi di diritto. I rampolli di numerose famiglie sammarinesi, benestanti o ricche (per i trascorsi mercenari),   vengono avviati nella nuova carriera. I libri prendono il posto delle armi. Comincia una   nuova itineranza professionale. Ancora, i sammarinesi, peregrinano al servizio dei potenti dentro e fuori lo Stato Pontificio. Ma  ancora sono   pronti a mettere informazioni, esperienza ed ingegno  a disposizione del proprio paese, ogniqualvolta il paese ne ha necessità.

Quando San Marino negozia con Roma, non delega a rappresentarlo, come è uso altrove, un importante nome di Curia, magari un cardinale. A trattare  per il loro paese sono i sammarinesi stessi. Hanno la preparazione per farlo. Duellano, quei sammarinesi,  con le  armi del diritto, nella spregiudicata Roma rinascimentale, come,  secoli prima, con le armi di ferro  nelle vicine vallate del Montefeltro. Stessa determinazione, stessa foga. Chi ha a che fare  con loro rimane sconcertato.  Qualcuno di quegli interlocutori (siamo nel 1545) sbotta così:  ci vuole, coi sammarinesi,  un contrattare attento  come  si negozia fra la Sedia Apostolica e la Signoria di Venetia.  A un altro viene un sospetto:  che quei montanari non intendano  fermarsi all’autonomia politica ma che mirino anche a quella religiosa e  commo il Re d’Inghilterra impaciarsi del spirituale (poco prima c’era stato lo scisma anglicano ed a Faenza, in quello stesso periodo, vennero scoperti gruppetti di protestanti).

In effetti  l’ardore con cui i sammarinesi sostengono le loro tesi non  deriva da un fanatismo religioso del tipo paventato dalla Curia, ma da  convincimenti civili che hanno tuttavia la intransigente determinazione  di quelli religiosi.
Giuliano Corbelli, in quello stesso  1545, li  riassume così:  Se da tutti si deve per istinto naturale amare la patria e per quella accadendo esponere la propria vita, tanto maggiormente con più prontezza di cuore si deve fare da quelli che son nati in patria libera e commo per privilegio, conseguano da Dio quel preziosissimo dono de la libertà, commo siamo noi che, oltra tutti gli altri et con meraviglia di ciascuno, ottenemo quel dolce tittolo di Repubblica.

 

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Il Corbelli porta alla luce un fenomeno culturale sostanzialmente arcaico, che ha i connotati dei  fatti di religione.  Ma si  esprime con una  terminologia ed una architettura di pensiero  di  pronta modernità. Il Titano, quando si tratti di  argomenti  relativi alla politica, appare, nel Quattrocento e nel Cinquecento,  straordinariamente vicino ai luoghi  più rappresentativi di tale modernità culturale,  come ad esempio Firenze. Machiavelli sembra avere  da subito buoni allievi sul Titano, a giudicare da come, dopo le armi ed i codicilli, i sammarinesi adoperano le risorse della politica, la politica-scienza.

Ne è una prova, nel  Cinquecento e nel Seicento,   la strumentalizzazione dell’appellativo repubblica.  La maggior parte dei territori pontifici che aspirano all’autonomia   (contee, ducati ecc.) giocano sull’ambiguità della  investitura feudale che vi sta alla base: la fanno   risalire, a seconda della convenienza, o all’imperatore o al papa.  Hanno però un punto debole: la investitura è legata ad una famiglia.  Se quella famiglia si esaurisce,  il feudo ritorna in mano al papa o all’imperatore. A partire dalla seconda metà del Cinquecento,  il papa, dentro il suo Stato,   tende a sopprimere i feudi, appena ne rientra in possesso (spariscono così i ducati di Ferrara ed Urbino).

La intellighenzia  sammarinese punta all’autonomia sfruttando l’ambiguità del  termine repubblica. Si è cominciato ad indicare  la comunità del Titano come repubblica  a partire dalla metà del Quattrocento, in ragione della sua democrazia interna. Inteso nel suo significato etimologico, l’appellativo non desta sospetti presso la Curia romana (in genere rispettosa delle autonomie locali).  Occorre tener  conto, però,  che il termine repubblica,  a partire dal Medioevo, si è caricato anche di un altro significato:  non facendo  parte dei titoli della scala feudale  della dipendenza o dall’imperatore o dal papa (le autorità massime, nel mondo politico medioevale,  da cui deriva ogni altra autorità),  induce  a pensare che un territorio così denominato non ha sopra di sé né imperatore né  papa. Questo secondo  significato, ovviamente, non può essere accettato dalla Curia Romana.
Ebbene, i sammarinesi,  a seconda dei  tempi, delle circostanze  e degli interlocutori,  pongono l’accento o sull’uno o sull’altro dei significati: democrazia interna o autonomia totale.
           

L’appellativo repubblica dispiegherà la sua efficacia come mezzo politico nel Seicento quando San  Marino,  rimasto  senza la protezione del Ducato d’Urbino, per parare eventuali mire ‘annessionistiche’ romane, ha bisogno di cercare protezione oltre lo Stato Pontificio,   presso gli altri stati italiani  e, possibilmente, anche gli stati   d’oltralpe. Primo passo:   farsi conoscere.  Ci riesce utilizzando  l’appellativo  repubblica, nel suo primo significato, quello  etimologico,  di democrazia. Mostrandosi, nel secolo degli assolutismi, come il paese della democrazia, attira   su di sé l’attenzione  di un’area
geografica vastissima. Infatti gli scrittori, i giornalisti dell’epoca,  in polemica contro  i governi assolutistici,  esaltano San Marino-repubblica fino a mitizzarlo come la  “città felice”.  Il sammarinese  Matteo Valli   con sapiente astuzia, riveste quel mito di realismo. Nel secolo dei roghi,  egli stimola la
curiosità degli intellettuali verso il proprio paese dipingendolo come un luogo dove tanto gli homini civili quanto i rustici senza distintione e differenza alcuna  hanno parte nel governo e nell’amministrazione delle cose pubbliche, un luogo  dove  si vive in un clima di libertà tale, che dentro i termini del giusto e dell’equità ciascuno può fare ciò che li piace. E  li invita, li sollecita  ad aiutarlo, aiutarlo a capire come è potuto accadere che  la più povera sì, ma la più antica repubblica che sia oggi in Italia si sia conservata vergine, e in tante rivolutioni del mondo e dell’Italia in particolare non sia stata o violata o toccata da altra terrena dominazione o principato. Valli scrive tutto questo  a Venezia  nel 1633 in un libretto, che costituisce, fra l’altro,  uno dei migliori esempi di storia locale del primo Seicento. Vi  dimostra il possesso di una  cultura di tutto rispetto, specie  storiografica, attenta alle correnti   più attuali, quelle che vanno per la maggiore  a  Venezia ed a Firenze.

Il libro del Valli ha una enorme fortuna.  In Italia ed in gran parte d’Europa si comincia a conoscere questo paese ed a conoscerlo come  repubblica.
Ovviamente il termine porta con sé  entrambi i significati.  Il secondo significato, quello di autonomia totale, fa sì che  dall’esterno dello Stato Pontificio si  cominci a  considerare San Marino  come un territorio ‘indipendente’,  e   perciò da proteggere nell’eventualità che  qualcuno, Stato Pontificio compreso,   attenti  alla sua sicurezza.
 

Proprio l’appellativo di  repubblica, cardine della  strategia culturale-politica  del Corbelli e del Valli, contribuirà  a salvare San  Marino dall’Alberoni.  Gli stati europei rispondono al grido di aiuto dei sammarinesi ed  intervengono presso il papa, che è costretto a recedere.  Sarà ancora quell’appellativo  a
svolgere un ruolo di primo piano al momento della discesa in Italia di Napoleone Bonaparte: un San Marino già repubblica, cioè democratico al suo interno,  sembra aver anticipato la stessa rivoluzione francese. L’atteggiamento di Napoleone I indurrà poi anche Napoleone III° ad ergersi a protettore di San Marino nel  delicato momento dell’unificazione politica della penisola italiana.

Poi,  per farsi accettare dalla nuova Italia,  San Marino imbastisce  la singolare operazione che si concluderà con l’inaugurazione del  Palazzo Pubblico.

 

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Oggi si rimette mano al Palazzo. Nessuno ha proposto  di demolire e ricostruire. Si è  ben consci, ora, che  la scelta  dello stile del Palazzo fatta un secolo fa, è stata sì funzionale alla politica,  ma    ha finito pure per sconvolgere i parametri ordinariamente più modesti  dell’architettura del ‘paese San Marino’. Le costruzioni ‘autoctone’ di allora,  nella loro povertà ed  essenzialità, costituivano una testimonianza di quanto fosse stata  dura e severa la strada che ha portato alla concretizzazione di quell’ideale. Invece il Palazzo realizzato è ostentazione.  Il suo  splendore  non è di  questo sito. Il Palazzo è indubbiamente  ‘comunale’, ma di altro luogo, di altra parte d’Italia. Viene da città retta da mercanti, non da paese di montagna o comunque da paese del
Montefeltro, che ha nell’agricoltura la principale fonte di reddito, ed in cui miseria e ricchezza non raggiungono, fra la gente, le punte estreme dei  luoghi
ove si sono costruiti  palazzi di quel tipo.

A fine Ottocento, per ragioni politiche, occorreva una scenografia che parlasse anche alla gente comune.  Le case, il vecchio palazzo demolito ed  i resti delle fortificazioni, dialogavano, ormai,  solo con gli specialisti,  come scrisse Corrado Ricci:  Allo studioso infatti e all’artista, la rocca ruvida e solitaria, le mura ineguali e dirute che cingono la Fratta appariranno sempre le sole sincere, legittime, autentiche rappresentanze dell’antica repubblica.

           

Oggi si rimette mano al Palazzo Pubblico, per renderlo più funzionale all’interno. Il Palazzo rimane com’è. Ormai è un simbolo noto, diffuso, accettato, amato. I simboli  non valgono  per  il valore intrinseco, in materia o  forma, ma per quel che significano. Il Palazzo Pubblico, così com’è,  è  il simbolo della sovranità  di San Marino ormai conclamata nel mondo. Le tappe di questo ulteriore successo: la nomina dei primi ambasciatori   a  partire dal 1971,  poi  l’ingresso  nel Consiglio d’Europa e  nella Conferenza per  la Sicurezza e la Cooperazione Europea ed infine,  il 2 marzo del 1992, nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il più alto consesso di tutti gli Stati del mondo. 

La ristrutturazione del Palazzo avviene in un momento storico in cui un altro processo di riorganizzazione politica è in corso, quello del ‘villaggio planetario’.

Quando la riorganizzazione politica riguardò le zone circonvicine al Titano (affermazione dello  Stato Pontificio e  fine del  frazionismo feudale),  il sammarinese Corbelli  solleticò la Curia romana a lasciare sopravvivere San Marino con questa argomentazione: chel Papa si deverebbe tener gloria conservare così quel luogo, per meraviglia de tutto il resto d’Italia. Il suggerimento  fu raccolto. Papa Clemente VIII, nel 1606, dice di  voler preservare illesa ed intatta la libertà di San Marino per dimostrare che la Santa Sede si comporta in modo differente da tutti gli altri potentati, che piu tosto sanno di tirannie

Quando fu la penisola italiana ad essere oggetto di una profonda  ristrutturazione politica, San Marino si salvò perché  riuscì a dimostrare di rappresentare per l’Italia unita non una contraddizione, ma  un motivo di orgoglio:   il fiore della libertà italiana. 

Ora   il puntino sammarinese  spicca sulla carta del mondo. Ha  già su di sé  la simpatia che gli deriva dall’essere uno stato  piccolo. Già attira  curiosità per essere,  fra le  repubbliche, la più antica. Ci sono le migliori premesse per far conoscere anche la sua  storia. Attraverso la storia  si   darà nuovo vigore alla sua identità e, quindi, più vivacità al colore del puntino.

La storia di San Marino, infatti, ha i  caratteri della originalità e della eccezionalità, nel panorama delle umane convivenze. In genere si è portati a pensare che gli stati piccoli siano un frutto casuale delle vicende umane. Che derivino da una concessione estemporanea di un potente della terra, papa, re o imperatore. Insomma che  siano il prodotto di una stravaganza  o di   una dimenticanza.  Alcuni  piccoli stati sorgono per la frantumazione di stati più grandi. Altri   sono stati creati artificialmente, ad esempio gli ‘stati cuscinetto’. Qualcuno   è opera di un personaggio che  in qualche modo   ha acquisito un possesso,  trasformato poi  in sovranità:    alla figliolanza di quel personaggio  rimane legata la speranza di sopravvivenza di quello stato.

 

San Marino non è il prodotto di altri stati. Non è  il regalo di un potente. Non è opera di  un personaggio eclatante. San Marino è  il risultato dello sforzo plurisecolare di una comunità che, nel suo isolamento, concepisce un ideale di libertà e poi lo difende con ogni mezzo e verso tutti fino ad avere il riconoscimento di tutti. Un fenomeno unico, dice l’Aebischer, una vicenda che impone ammirazione e soprattutto rispetto.

San Marino, dunque, anche nel nuovo contesto mondiale, si presenta non come  un rudere storico   né come  una utopia antistorica, ma come   una testimonianza preziosa  per originalità e  singolarità.

 

Una serie di pubblicazioni accompagnerà la ristrutturazione del Palazzo. Saranno dati alle stampe i verbali del Consiglio Grande e Generale,  i documenti più importanti del  nostro e di altri archivi  per dare la possibilità concreta al maggior numero di persone di conoscere (anche con l’ausilio delle nuove tecnologie della comunicazione) quell’ideale  e di conoscere come, storicamente,  quell’ideale ha potuto concretizzarsi.

Marino Cecchetti

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Guarda il video NEMINI TENERI (prima parteseconda parte). Ovvero la storia della Repubblica di San Marino in 23 minuti, tratta dal libro IL CAMMINO DI UNA IDEA di Marino Cecchetti, San Marino 1991

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