Gianfrancesco Turano, L’Espresso. Indagine Chalet: Serenissima cricca

Gianfrancesco Turano, L’Espresso. Indagine Chalet: Serenissima cricca

L’Espresso

 Serenissima cricca


Le grandi opere del Veneto, Mose in testa. Una pioggia di fondi pubblici. Un giro di fatture false. E ora tre arresti eccellenti

Gianfrancesco Turano

Dighe e arresti sono arrivati insieme il 28 febbraio. Giustizia a orologeria? A Venezia avranno usato un cronometro da gara. Nello stesso giorno in cui sbarcavano a Porto Marghera le prime paratoie anti-inondazione del Mose, l’acqua alta giudiziaria ha messo in crisi l’ecosistema politico-affaristico che per venticinque anni ha governato la laguna e buona parte del Veneto grazie ai finanziamenti pubblici per il Mose (5,7 miliardi di euro), realizzato dal Consorzio Venezia Nuova (Cvn), e per altri grandi opere.
L’inchiesta per associazione a delinquere e frode fiscale è stata battezzata “Chalet”, traduzione beffarda del cognome dell’arrestato più in vista, Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, l’azionista di riferimento del Cvn, e uomo forte del consorzio presieduto da Giovanni Mazzacurati.
L’ingegner Chalet, 64 anni, è sopravvissuto alla prima Repubblica, alla Democrazia cristiana che lo ha lanciato, agli arresti e ai processi di Tangentopoli. Ha prosperato durante il lungo regno alla Regione di Giancarlo Galan (1995-2010). Ha brindato alle infinite inziative promozionali dell’opera insieme a Silvio Berlusconi, all’ex ministro Altero Matteoli, al veneziano Renato Brunetta, ai sindaci di centrosinistra che hanno amato il Mose, come Paolo Costa, o che ci si sono rassegnati, come Massimo Cacciari. Per rafforzare il consenso ha distribuito sponsorizzazioni e sostegni finanziari a pioggia tra il teatro della Fenice e la Reyer di basket, tra una tornata di Coppa America di vela (5 milioni di euro) e un milione versato al Marcianum, il centro studi della Curia voluto dall’ex patriarca di Venezia Angelo Scola.
Baita ha vissuto grandi stagioni sotto la protezione di Gianni Letta ma si è adattato molto bene al successore di Galan, il leghista Luca Zaia che, colmo di meraviglia per quanto accade sotto gli occhi di tutti da anni, adesso vuole allestire una commissione di inchiesta sui metodi della Mantovani e delle imprese sue alleate.
Sulla metodologia di questo gruppo di potere che in poco tempo è diventato dominante sulle infrastrutture venete si è dilungata anche Claudia Minutillo, 48 anni, arrestata assieme a Baita e al faccendiere bergamasco William Ambrogio Colombelli, ex consigliere della Nuova Garelli di Paolo Berlusconi con villa a Santa Margherita Ligure, barca a Portofino e “cartiera” a San Marino, dove la sua Bmc consulting emetteva fatture false intestate al Consorzio Venezia Nuova in cambio di una provvigione ragionevole: su 10 milioni di euro, lui se ne teneva 2. Il resto veniva ritirato da Minutillo nelle sue frequenti visite al Titano e distribuito.
Distribuito a chi, hanno chiesto i giudici. A differenza del molto taciturno Baita, difeso dall’avvocato Piero Longo (lo stesso di Silvio Berlusconi ), Minutillo ha risposto nel corso di sei ore di interrogatorio secretato e – si presume – in modo convincente, visto che è tornata a casa agli arresti domiciliari.
Il carcere femminile della Giudecca, per quanto dotato di una sua aura romantica, non faceva per la manager abituata all’eleganza nel vestire e allo shopping di qualità nelle boutique di Venezia e Padova. Da quello che Minutillo ha dichiarato dipende il futuro dell’inchiesta. L’acqua alta ordinaria degli inverni in laguna potrebbe diventare uno tsunami considerato che Minutillo è stata segretaria di Galan per cinque anni dopo che nel 2001 la precedente factotum, Lorena Milanato, era stata spedita a Montecitorio dove tuttora si trova.
Nel 2005, su precisa richiesta della signora Galan, Minutillo è stata spostata al servizio di un altro potente locale, Renato Chisso. Ex socialista transitato nel Pdl, Chisso è stato assessore ai trasporti e alle infrastrutture sotto Galan e tale è rimasto sotto Zaia. Il suo potere, semmai, si è accresciuto e la continuità con il governo locale precedente è stata garantita.
Chiusa l’esperienza da Chisso, Minutillo è stata promossa amministratore delegato di Adria Infrastrutture, una società creata a sua misura grazie ai capitali della Mantovani nel 2006, lo stesso anno in cui la giunta regionale, il Consorzio e Mantovani incominciavano a foraggiare la Bmc di San Marino («Io creo carta straccia, capito?», urla al telefono Colombelli alla Minutillo, «in sei anni vi siete portati a casa otto milioni!»).
Adria va subito alla grande. Conquista gli appalti regionali per la superstrada Treviso-Mare e per il passante Alpe Adria. Ma anche prima di fare il salto di qualità il soprannome di “dogaressa” la diceva lunga sulla reale influenza di Minutillo nelle vicende politico-affaristiche del Veneto.
Questo spiega perché il toto-nomi dell’interrogatorio alla Giudecca tiene sveglia parecchia gente. Nessuno, a cominciare dai magistrati, crede che la cresta complessiva sia stata di soli 10 milioni. E nessuno crede che l’unica cartiera per creare i fondi neri sia stata la Bmc consulting che Colombelli, prima dell’arresto, ha tentato invano di vendere a Baita per 3 milioni di euro (risposta eloquente di Baita a Colombelli: «Io non posso come gruppo prendere una società che produce carta, è pericoloso»).
A dirla tutta, nessuno crede alla tesi con cui gli enti locali, il Consorzio, le imprese e i sindacati tentano di arginare l’allagamento dell’operazione Chalet. Questa tesi collettiva è: se Baita ha sbagliato, ha sbagliato per suo conto. E soprattutto, non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca, visto che si può sempre non sapere.
Così la famiglia padovana Chiarotto, che controlla la maggioranza della Mantovani attraverso Serenissima Holding e che è stata arricchita da Baita (100 milioni di euro di utili a riserva), ora minaccia azioni di responsabilità contro l’ingegnere che è anche azionista dell’impresa con il 5 per cento, anche se la Finanza ha proposto il sequestro della quota. Galan dice di averlo appena conosciuto e Chisso tace. Persino la Cgil locale ammonisce che i 900 posti della Mantovani vanno salvaguardati e che, arrestato il doge Baita, il Mose deve andare avanti. Tanto più che sono in arrivo altri 250 milioni di euro di finanziamenti tra il denaro dello Stato e il contributo anticipato dalla Banca europea degli investimenti (Bei).
Eppure l’intraprendenza dell’ingegnere Chalet ha lasciato tracce evidenti. Il “tavolino” degli appalti lagunari è una fetta consistente di prodotto interno lordo regionale e si può solo tentare di ipotizzare una stima. Il perno, si è detto, sono i lavori per il Mose gestiti dal Cvn. È un progetto varato un quarto di secolo fa con il sistema degli affidamenti interni. Significa che le imprese socie del Consorzio, cioè la Mantovani, la Condotte di Duccio Astaldi, la Fincosit del veronese Alessandro Mazzi, la Ccc (Lega coop) e altre minori, ricevono dallo Stato il denaro per realizzare il Mose e appaltano i lavori a se stesse, con una quota di gare minima che l’Ue ha più volte e invano contestato.
Il Mose, e i suoi prezzi in continua espansione rispetto a preventivi e a prezzi fintamente bloccati, ha consentito ottimi margini di guadagno alle imprese soprattutto perché, a differenza di altri grandi opere sbandierate nel libro berlusconiano delle illusioni, le dighe mobili hanno ricevuto le rate di finanziamento dal Cipe con una puntualità senza uguali.
Il terzetto alla guida del Cvn, ossia Mantovani-Condotte-Fincosit sotto la guida di Baita, ha reinvestito gran parte dei suoi utili in iniziative infrastrutturali in Veneto e in qualche partecipazione monetizzata dagli enti locali in ristrettezze finanziarie, come la quota dell’autostrada della Venezia-Padova.
Il cerchio magico, di cui faceva parte anche Adria Infrastrutture guidata da Claudia Minutillo, si è aggiudicato commesse per centinaia di milioni di euro con il timbro altrettanto magico del project financing: i privati mettono i soldi al posto dello Stato al verde e, in cambio, incamerano affitti e pedaggi legati all’opera.
Sotto l’insegna del project financing Mantovani & friends si sono assicurati la realizzazione dell’ospedale e del passante stradale di Mestre, la sublagunare che dovrebbe collegare le isole veneziane con l’aeroporto di Tessera, gestito dagli amici della Save-Finint Enrico Marchi e Andrea De Vido. Il flusso di denaro consentito dalle delibere del Cipe ha permesso agli amici della Serenissima di guadare l’Adda e di inserirsi nell’appalto per la “piastra” di Milano Expo grazie alla continuità politico-territoriale con l’ex governatore Roberto Formigoni e all’assenso del sindaco di centrosinistra Giuliano Pisapia, che ha confermato la sua fiducia alla Mantovani anche dopo l’arresto di Baita.
Ma il territorio di riferimento resta a Nordest. L’ultima perla della collezione è un colosso da 2,5 miliardi di euro progettato nelle acque di fronte a Venezia. Insieme all’autorità portuale, presieduta dall’ex sindaco ed ex presidente della commissione Infrastrutture dell’Ue Costa, Mantovani è in prima fila per costruire il porto offshore otto miglia a largo di Chioggia. La nuova struttura è pensata per le navi portacontainer che adesso vanno a Marghera mettendo a rischio l’equilibrio della laguna, mentre le navi passeggeri che attraccano in piazza San Marco potranno continuare le loro crociere fino al centro storico. Il porto offshore prevede un meccanismo di finanziamento misto. Ci sono fondi della Mantovani, che si incarica dei lavori, e soldi in arrivo dal Cipe, cioè dalle casse dello Stato.
Con Baita fuori dai giochi, il progetto andrà avanti con un nuovo manager da designare nei prossimi giorni. Si parla di una successione in famiglia con il timone della Mantovani affidato a Giampaolo Chiarotto, 46 anni, figlio del patriarca Romeo, classe 1929.
Ma la caduta di Baita, l’uomo degli equilibri tra politica e impresa, ha già provocato il primo intoppo grave nel quieto vivere lagunare. Poche ore dopo gli arresti, la Mantovani e il sindaco Giorgio Orsoni sono entrati in guerra, con minacce di azioni di risarcimento incrociate, per l’operazione che avrebbe cambiato faccia al Lido di Venezia. In sostanza, il Comune aveva ceduto l’area dell’Ospedale al Mare al fondo Real Venice 2, gestito da Est Capital dell’ex assessore alla Cultura cacciariano Gianfranco Mossetto e partecipato dal trio Mantovani-Condotte-Fincosit. Al posto dell’ospedale doveva sorgere un quartiere residenziale con una megadarsena per diportisti da oltre 1500 posti e un investimento da 250 milioni di euro.
Il fondo ha versato una caparra di 32 milioni al Comune che, con questi soldi, avrebbe provveduto a costruire il nuovo palazzo del Cinema.
Poi sono sorte discordie su chi doveva bonificare l’area dell’ospedale. La nuova darsena è saltata e il palacinema è stato sostituito dal progetto di un palazzo dei congressi che Est capital avrebbe realizzato con la caparra rispedita al mittente da Orsoni.
Ancora due giorni dopo l’arresto di Baita, l’accordo tra le parti era dato per fatto. Invece, niente. La parola torna al giudice civile che darà il suo verdetto sulla controversia entro dieci giorni.
Prima, però, verrà il turno del tribunale penale che, in sede di riesame, stabilirà se Baita può tornare libero o se l’inchiesta “Chalet” è appena incominciata. Di sicuro, non sarà un lavoro facile come dimostra la scelta di un nome in codice che, di solito, si riserva a operazioni contro il crimine organizzato. In questo caso è stato necessario perché gli inquisiti, dopo le prime perquisizioni della Guardia di finanza risalenti a due anni fa, avevano attivato una manovra di controspionaggio attraverso due ex agenti segreti per sapere a che punto erano le indagini.
Stavolta non è stato sufficiente ma basta a spiegare il livello delle protezioni di cui godeva e gode la cricca lagunare. Quella che per bocca di Baita si vantava: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua».

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