“L’ultimo cane che arriva alla ciotola”, così si sente Billy Bean, general manager che deve assemblare, con pochi soldi, una squadra di baseball: lo aiuterà un neolaureato in statistica. Questa, all’osso, la trama de “L’arte di vincere” di Bennett Miller, in prima visione sabato 18 (ore 21) e, in replica, domenica 19 (ore 16.30 e 21) e mercoledì 22 febbraio (ore 21)
Tratto da una storia vera, il film depura il genere sportivo, nel cui filone pur rientra, da ogni ridondanza, eccezionalità e trionfalismo.
Di baseball giocato se ne vede poco e tutto ha luogo in interni dozzinali, lungo corridoi angusti: di quello che accade sul campo o tra gli spalti arriva solo un’eco fuori quadro.
È un film sulla caparbietà, sulla fiducia nelle proprie intuizioni, sul talento sprecato, sulla necessità di fare gruppo e di accettare i propri limiti.
Miller, già regista di “Truman Capote”, scandisce, a forza di dialoghi acuminati e divertenti, le tappe di una rivoluzione interiore, l’affermazione di un modo alternativo di essere e di pensare che diventa metafora (e speranza) di un nuovo tempo.
Eccentrico film hollywoodiano, prodotto da una major come la Warner e pluricandidato a diverse statuette nell’ormai prossima notte degli Oscar (domenica 26): miglior film, miglior attore protagonista (Brad Pitt), miglior attore non protagonista (Jonah Hill), migliore sceneggiatura non originale (di Aaron Sorkin, lo stesso di “The Social Network”), miglior montaggio e miglior missaggio sonoro.