Repubblica di San Marino, 12 giugno 2008.
Sono Marco Severini e, dall’agosto dello scorso anno sono vittima di un caso di mala-giustizia che mai avrei immaginato potesse concretarsi nella civile Europa del ventunesimo secolo.
Proprio da qui occorre prendere le mosse: il sistema penale sammarinese è un coacervo di norme che si pongono in insanabile contrasto con la Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché col patto ONU sui diritti civili e politici.
Quanti sammarinesi sanno che la Repubblica ha subìto un pesante richiamo e sanzioni dal Comitato del Consiglio d’Europa sin dal 2005 e che, nonostante le rassicurazioni fornite a quell’organo, il sistema penale sammarinese non è mai stato adeguato alla normativa sovranazionale? E solo parzialmente ora con l’approvazione della norma del c.d. ‘’giusto processo’’.
Inoltre, nella presente circostanza prassi processuali fuori dalla legalità del sistema, incurie gravi per gli apparati giudiziari (tali devono intendersi il totale quanto inspiegabile perdurante silenzio sulle richieste istruttorie avanzate dalla difesa – quali, in particolare la richiesta di accedere ad un confronto con il proprio accusatore nonchè di accedere alla documentazione amministrativa che sottende alla vicenda penale – e, quel che è più grave, l’omissione di qualsivoglia delucidazione in ordine all’auspicato – in quanto obbligatorio – esercizio dell’azione penale nei confronti del preteso “agente provocatore”) oltre all’evidente vulnus al diritto di difesa dello scrivente hanno dimostrato una inquietante capacità di produrre effetti di sempre maggiore inefficienza e dequalificazione della giurisdizione.
Tali rilievi appaiono poi, ove possibile aggravati alla luce della recente nuova normativa recante disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo che – con dubbia logica di sistema, attesa l’evidente inconferenza di contenuto rispetto alle finalità indicate nel prologo della norma – ha introdotto all’art. 374 bis c.p. il reato di “istigazione alla corruzione”.
Nella “nuova” stigmatizzazione punitiva della condotta tentata si conferma – sia pure indirettamente – la fondatezza dell’assunto difensivo inerente l’indifferenza del sottoscritto all’epoca dei fatti, in riferimento all’ordinamento sammarinese, circa eventuali condotte instigatorie (circa le quali, peraltro, si ribadisce, sia pure incidenter tantum, la propria assoluta innocenza ed estraneità). In altri e più semplici termini, diviene difficilmente plausibile e – di certo – empiricamente non giustificabile che lo scrivente sia stato privato della libertà personale per la pretesa commissione di un reato all’epoca non previsto!
Fa pensare, e non poco, il fatto che la nuova norma (reato di istigazione alla corruzione) sia stata introdotta nella nuova normativa recante disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo; francamente non si capisce perché e che cosa c’entri la tentata corruzione con il riciclaggio ed il terrorismo – si veda nella stessa legge l’art.79 – comma II.
Ciò per tacere della incriminazione di pretese inosservanze di tipo amministrativo. L’ammissibilità di siffatte fattispecie, per loro stessa natura più compatibili con tecniche di controllo sociale di tipo amministrativo appunto – in ossequio al canone della extrema ratio dell’intervento penale – in un diritto penale ispirato al principio costituzionale di offensività dovrebbe essere circoscritta a casi eccezionalissimi, in cui il bene finale da salvaguardare sia di elevato rango (preferibilmente primario), sempre a condizione che l’effettiva idoneità preventiva della fattispecie non sia presunta, ma empiricamente suffragabile. Di tale che ulteriormente incomprensibile appare l’agire dell’Organo dell’accusa nella presente circostanza. Certo non ci si può esimere dall’osservare che, in una materia come questa, ricca di complesse implicazioni burocratico-amministrative – quindi dalla disciplina extrapenale, sottesa all’incriminazione, di difficile conoscibilità – è facilmente ipottizzabile l’errore sulla norma extrapenale che determina un errore sul fatto, escludendo quindi il dolo.
Un tale stato di profonda crisi richiede l’avvio improcrastinabile dell’elaborazione di una riforma organica della giustizia: senza una tale opera, che veda coinvolte in modo costruttivo tutte le componenti del mondo della giustizia, è illusorio e politicamente miope pensare di uscire da una situazione tanto degradata quale quella che lo scrivente sta da quasi un anno provando sulla propria pelle.
L’impegno di riformare le istituzioni non può – a maggior ragione in quella che si definisce la terra della libertà – ignorare l’amministrazione della giustizia.
Ed ancora, gli attuali tempi della giustizia e dei processi (quasi un anno – non tanto senza che sia resa sentenza ma addirittura – senza che ancora si possa conoscere in cosa si sostanzino le singole accuse nei confronti di chi scrive!) sono inaccettabili per un Paese civile e per uno Stato di diritto. La lentezza nel rendere giustizia nuoce non soltanto al livello di civiltà giuridica di un Paese ma all’effettività dei diritti più sacri ed inviolabili di ogni essere umano.
Infine, non si può non notare come il rapporto tra mass-media e magistratura sia arrivato – seguendo il cattivo esempio del vicino italiano – a livelli patologici intollerabili: nel mio caso ne è prova la puntuale pubblicazione sulla stampa di elementi di indagine che a me – accusato – sono ancora oggi formalmente ignoti. Ed invero, si ha spesso a che fare con un perverso intreccio tra informazione e giustizia, che trasforma un’indagine o un processo in una gogna mediatica, che nei suoi effetti reali azzera di fatto le garanzie processuali (magari formalmente salve) di tutte le parti coinvolte. Occorre tornare sul punto con una visione d’insieme, che inquadri la questione in un contesto più ampio, in cui si tenga conto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in indagini (diritto alla privacy) e delle esigenze di riservatezza delle attività investigative.
Credo allora che il caso giudiziario che mi ha visto protagonista riproponga l’irrinunciabilità della emanazione di un nuovo codice penale e di procedura penale, perché solo intorno ad essi va progettata l’identità del diritto penale di una democrazia liberale, del tipo di quella delineata dalla Carta fondamentale della Repubblica: un diritto penale che sia ispirato a criteri di certezza e prevedibilità delle regole dei comportamenti che punisce ed i cui contenuti rappresentino la formalizzazione di scelte politico-criminali affidate alla capacità selettiva delle sede parlamentare
Per riflettere su questi temi convoco conferenza stampa Murata presso il mio studio di Via Del Serrone, 107 – MERCOLEDI’ 18/06/2008 alle ore 11,00 precise.