San Marino. Anni ’80, le ragioni del compromesso storico. Michele Bovi

San Marino. Anni ’80, le ragioni del compromesso storico. Michele Bovi

LA REPUBBLICA MONITORATA

DAL PETROLIO AL BACCALA’
ANNI ’80, LE RAGIONI DEL COMPROMESSO STORICO

C’è soltanto un termine che distingue il vocabolario sammarinese da quello italiano: forense. Nella lingua di Dante Alighieri significa “relativo all’attività giudiziaria”, in quella di Oddone Scarito – nel linguaggio comune ma anche in atti ufficiali – indica il non sammarinese, lo straniero, il forestiero (di qui l’assonanza etimologica). Un termine che a lungo ha dato il senso di un distacco prudenziale come quel “Noti a noi, ignoti agli altri”, motto che stava a rappresentare non soltanto una tattica da adottare in politica estera ma anche un collettivo criterio di circospezione nei confronti di chiunque tentasse approcci col Titano. Di tali consuetudini oggi è rimasto il ricordo.
A metà degli anni Ottanta cambiarono le regole: i politici sammarinesi abbandonarono la tradizionale diffidenza verso i “forensi” per aprirsi ad alleanze di diversa convenienza. Fino a poco prima anche i nomi più illustri della finanza e dell’industria italiana venivano considerati con cautela. I ravennati Ferruzzi, ad esempio, ritenuti in quegli anni un gruppo leader a livello internazionale, non riuscirono a stabilire con San Marino che contatti superficiali rispetto all’impegno che il loro manager Lorenzo Panzavolta andava prospettando. C’era riluttanza nel concedere ampi spazi a un’azienda che fatturava più del bilancio dello Stato. Già incuteva timori l’Alfalum del sammarinese Tino Bruschi: diverse centinaia di dipendenti, massicci rapporti di interscambio con l’Italia, persino una squadra professionista di ciclismo nel circuito internazionale, abbastanza per tenere sotto scacco il governo nel caso di minaccia di riduzione drastica del personale. Persino gli Agnelli erano guardati con ponderatezza. A San Marino già operava il conte Enrico Maria Pasquini, imparentato con la famiglia torinese. Le sue attività erano seguite con attenzione, soprattutto dopo che i servizi di informazione e sicurezza italiani avevano avvertito le autorità del Titano che quegli “oggetti di precisione”, nella ragione sociale di una società anonima che Pasquini aveva richiesto, potevano essere utilizzati nell’industria militare, un impiego proibito dagli accordi tra i due Paesi. A incoraggiare la svolta comportamentale fu la determinazione nel realizzare quell’esperimento-pilota politico chiamato compromesso storico. Se il Partito comunista sovietico seguiva con interesse il progetto tanto da diventarne sponsor, tramite uomini di vertice come Vadim Zagladin, anche il governo degli Stati Uniti ebbe un ruolo nella riuscita di tale soluzione che da un lato permetteva agli amici democristiani di tornare nell’esecutivo e dall’altro di mostrare un’America conciliante verso il tradizionale nemico russo in fase di storiche trasformazioni interne e non solo.
San Marino d’altronde si mostrava come il terreno ideale sul quale tentare esperimenti singolari agli occhi delle due superpotenze, ma anche a quelli di Inghilterra e Francia dieci anni prima molto preoccupate e attive nel monitorare proprio quell’accordo profilato da Enrico Berlinguer e Aldo Moro, poi naufragato nel sangue del politico democristiano. Ogni mossa di San Marino era da tempo sorvegliata, specie quando questa concerneva temi capitali come armi o petrolio. Alla fine degli anni Settanta il governo delle sinistre risolse il problema interno della crisi petrolifera proprio grazie a un accordo straordinario con l’Unione Sovietica. A chiedere aiuto al segretario generale del Partito comunista Leonid Bresnev fu il suo omologo sammarinese – nonché deputato all’Industria – Umberto Barulli, uomo di robusto credito Oltrecortina. Il Sì russo fu immediato: un incontro a Roma con l’ambasciatore Nikolai Lunkov e il suo assistente Leonid Popov (in seguito consigliere di Gorbaciov) produsse un’intesa più che vantaggiosa, curata poi nei dettagli dal segretario alle Finanze Emilio Della Balda con il suo direttore generale Raffaele Giardi. I russi proposero quantità di petrolio evidentemente superiori alle esigenze dei richiedenti che di contro non fecero in tempo a rifiutare l’eccedenza: il cane a sei zampe dell’ENI aveva buone orecchie e i suoi funzionari, messi tempestivamente al corrente dei fatti, suggerirono ai sammarinesi di accettare l’offerta, il petrolio in sopravanzo sarebbe andato all’Italia che avrebbe provveduto con l’ENI a raffinare la materia, sostenere ogni spesa e garantire il fabbisogno a San Marino usando come tramite lo stabilimento di Ravenna e per i risvolti amministrativi una ditta di Pesaro proprietaria di alcuni impianti in zona. Un accordo segretissimo che finì immediatamente sulle pagine di OP, l’agenzia giornalistica permeata di intelligence di Mino Pecorelli, che scrisse di traffici tra San Marino e l’URSS addebitati peraltro al segretario all’Interno Alvaro Selva. Ci fu una lettera di rettifica di Selva che Pecorelli pubblicò, poi nel numero successivo il giornalista ribadì baldanzosamente le medesime accuse: San Marino (con Alvaro Selva) e l’URSS trafficano in petrolio.
Informazioni che sollecitamente rimbalzavano Oltreoceano alimentando la percezione di una progressiva contrazione del controllo in un’area geografica minuscola ma strategica. Ciò comprensibilmente portò ad auspicare una modifica al quadro politico della Repubblica capace di ristabilire certi equilibri. Compromesso storico, Why Not?
Negli anni appena a seguire i diplomatici statunitensi incontrarono più volte i politici sammarinesi presso il consolato di Firenze e furono altresì determinanti nel convincere i socialisti italiani – in anni di Governo Craxi – a non reagire troppo severamente per la scelta del Titano che precipitava socialisti e socialisti unitari all’opposizione. L’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma era Maxwell Rabb, abile diplomatico vicino al presidente Ronald Reagan. E fu proprio Reagan a firmare un telegramma di congratulazioni all’indomani della costituzione del nuovo governo a San Marino. L’amicizia tra Rabb e il Titano era cementata anche dall’incarico di console a Washington per la Repubblica ricoperto dal 1982 da Sheila Rabb Weidenfeld, figlia dell’ambasciatore. La signora Sheila, ancora oggi prestigioso e prezioso elemento della diplomazia del Titano, era stata presentata a Palazzo Begni da un altro diplomatico sammarinese negli Stati Uniti, il barone Enrico di Portanova, miliardario e marito di Sandra Hovas, a sua volta miliardaria di Houston e componente della Fondazione per la salvaguardia della Casa Bianca. Una coppia da prime pagine nei magazine americani, soprattutto per la faraonica villa Arabesque di Acapulco, ritenuta una delle abitazioni più sfarzose del mondo (28 camere da letto, 26 bagni, 5 cucine, 4 piscine, un night-club per 200 persone, una torre con guardie armate di mitra, una piattaforma per l’atterraggio di elicotteri e molte altre amenità) inaugurata da un party in cui era presente davvero il Jet-set del pianeta: da Henry Kissinger a Luciano Pavarotti, da Paloma Picasso a Sylvester Stallone. Di Portanova si è sempre dimostrato attento e generoso verso le esigenze della piccola Repubblica che rappresentava: disponibile a finanziare a fondo perduto l’aeroporto o a partecipare personalmente alla realizzazione di eventi di estesa risonanza. Nel 1988, ad esempio, fu un pragmatico e brillante sostenitore del Simposio Internazionale sull’AIDS che suggellò la pace davanti ai Capitani Reggenti tra i due ricercatori che fino a quel momento si erano rabbiosamente contesi la paternità della scoperta del virus HIV: l’americano Robert Gallo e il francese Luc Montagnier. Così anni prima, Di Portanova dopo aver accreditato la figlia di Rabb aveva cominciato a prodigarsi per una soluzione politica che evitasse ragioni di disagio all’amministrazione americana. Nel marzo del 1982 il Consiglio Grande e Generale aveva deplorato l’azione intrapresa dagli Stati Uniti in El Salvador e persino autorizzato un contributo simbolico di 5 milioni ai ribelli salvadoregni: una loro rappresentanza era stata ricevuta dal segretario agli Esteri, il socialista Giordano Bruno Reffi. Insomma la coalizione democristiano-comunista del 1986 giungeva gradita ad ambedue le principali potenze mondiali. In un clima così diffusamente collaborativo non risultò difficile affossare il governo delle sinistre. Bastò uno scandalo che coinvolgesse quattro società anonime facendo gridare al malaffare e il ricambio fu servito: una campagna di stampa forcaiola, una commissione consiliare rovente, una favoleggiata preziosa valigetta, un poverocristo in manette. E tra i nomi degli addetti ai lavori delle due società che principalmente provocarono l’azione del magistrato – Titanfish (pesce seccato e congelato) e Falcon International (turismo) – anche quelli di un paio di presunti collaboratori di apparati di informazione e sicurezza, italiani e non. Va detto che quest’ultima fu una supposizione, un sospetto di alcuni protagonisti politici delle vicende, magari generati dal clima di spy-story cinematografica al quale lo stesso Enrico Di Portanova aveva contribuito: amico di Sean Connery e di Roger Moore, nel 1988 il miliardario americano e diplomatico sammarinese consentì addirittura di trasformare la sua spettacolare abitazione di Acapulco nel set del film della serie di James Bond “License to Kill”, tradotto in italiano “007 Vendetta Privata”. Ma Titanfish e Falcon International in quella pellicola non c’entravano nulla.

[Articolo di Michele Bovi pubblicato sul mensile Super]

 

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