San Marino. Mazzocchi: radioline a Podeschi e Baruca, assolto in appello.

San Marino. Mazzocchi: radioline a Podeschi e Baruca, assolto in appello.
L’informazione di San Marino
Soddisfatta la difesa. Decadono anche le pene accessorie e la condanna al risarcimento del danno 
Il fatto non costituisce reato assolto il gendarme Mazzocchi 
In primo grado era stato condannato a due anni e due mesi per aver fornito radioline e aver consentito di colloquiare fra loro Podeschi e Baruca contravvenendo l’ordine del giudice
Il giudice non esamina i fatti, ma non ritiene comunque che il comportamento, pur definito gravissimo, integri la fattispecie di reato contestata
Antonio Fabbri

Assolto in appello perché il fatto non costituisce reato. Questa la decisione del giudice David Brunelli letta ieri mattina in aula alla presenza del legale di Mazzocchi, Maria Selva, soddisfatta e commossa all’esito della lettura del dispositivo. In primo grado Mirco Mazzocchi, gendarme guardia carceraria, era stato condannato dal giudice Gilberto Felici a due anni e due mesi per favoreggiamento, pena che dunque decade così come le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e il risarcimento del danno che era stato stabilito in primo grado a favore dell’Eccellentissima Camera, parte civile. Il giudice Brunelli, seppure i fatti siano richiamati, non entra nel merito di questi, ritenendo che il comportamento dell’ex gendarme, nonostante possa rilevare sotto il profilo disciplinare e amministrativo e pur definendolo grave o gravissimo avendo violato le disposizioni dell’inquirente, non integra tuttavia la fattispecie di reato contestata di favoreggiamento. Di qui l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

“Sono molto soddisfatta. E’ una vicenda che mi ha coinvolto anche personalmente – ha commentato l’avvocato Maria Selva apprendendo con emozione la sentenza – ho sempre pensato e sperato che si potesse giungere a una pronuncia di questo tipo”, ha affermato. Era presente alla lettura della sentenza anche l’avvocato Fabio Di Pasquale che aveva seguito il caso nelle prime battute, durante la custodia cautelare di Mazzocchi durata 64 giorni. 

Le motivazioni della sentenza La decisione del giudice Brunelli parte dalla premessa che “non è necessario esaminare nel dettaglio i passaggi argomentativi contenuti nella sentenza di primo grado concernenti la ricostruzione dei fatti e le conclusioni cui essa previene in ordine al loro accertamento, così riassumibili: così riassumibili: a) che la sera dello agosto 2014 Podeschi e Baruca hanno svolto per circa un’ora una conversazione per il tramite di apparecchi ricetrasmittenti, onde concordare la linea da tenere per far cessare la custodia cautelare in carcere; b) che analoghe conversazioni, in spregio al divieto imposto dal Giudice, hanno tenuto nei giorni precedenti, parlando a viva voce a distanza; c) che in entrambe le occasioni ciò è accaduto per l’aiuto prestato loro dal Mazzocchi, il quale il l0 agosto ha addirittura consegnato ad entrambi gli apparecchi ricetrasmittenti in suo possesso; né occorre confrontare tali passaggi – aggiunge Brunelli – con le serrate specifiche critiche formulate nell’atto di appello, assumendo determinazioni in ordine agli approfondimenti istruttori richiesti”.

Dunque i fatti sono ricostruiti, ma non è necessario esaminarli secondo il giudice di appello, che poi compie una analisi del reato di favoreggiamento come previsto dal codice sammarinese, definendo la norma più “ristretta” rispetto alla stessa fattispecie italiana, seppure comunque confacente alla ipotesi di reato del caso specifico.

Nonostante questo, però, per il giudice Brunelli quanto premesso “non equivale ad affermare che qualunque violazione di un provvedimento del giudice che sia a preservare il quadro probatorio, raccolto o da raccogliere, integri automaticamente gli estremi dell’aiuto punibile. Sul punto occorre, infatti, attentamente distinguere i casi integranti gli estremi del reato, da quelle condotte cui la legge riserva una rilevanza soltanto disciplinare-amministrativa”.

In sostanza anche se il giudice inquirente aveva espressamente vietato che i due indagati in custodia cautelare comunicassero fra loro per evitare l’inquinamento delle prove, e nonostante questa comunicazione sia stata consentita dal gendarme o in via diretta o tramite le famose radioline, “non può incriminarsi la mera inosservanza di un divieto – dice il giudice Brunelli – senza che dalla stessa possa derivare in concreto, una possibilità di incidenza sul materiale probatorio oggetto di tutela”. E aggiunge: “Una siffatta situazione non può desumersi automaticamente dalla violazione del divieto, perché un conto è affermare che il divieto ha esattamente quello scopo, un altro stabilire che quella finalità è stata concretamente messa a repentaglio – o poteva esserlo – in conseguenza della condotta disobbediente”. Un concetto che poi il medesimo giudice sembra contraddire in conclusione, pur optando per l’assoluzione ritenendo che la condotta di Mazzocchi non integri la fattispecie di reato contestata: perché il fatto non costituisce reato, appunto.

La conclusione del giudice di appello Secondo Brunelli, dunque, mancano elementi “da cui trarre la sussistenza dell’estremo del pericolo per la raccolta delle prove a carico, richiesto per la punibilità del favoreggiamento, e sui cui – tra l’altro – dovrebbe convergere il dolo dell’agente, si deve ritenere che il fatto ascritto al Mazzocchi non costituisce di per sé un reato, e tale rilievo in diritto, assorbe qualunque altra questione afferisca la sussistenza del fatto e alla commissione del medesimo da parte dell’imputato”. Allo stesso tempo, però, il giudice dice che il pericolo c’era. “All’imputato è dunque ascritto un fatto – aggiunge infatti in conclusione – che, mentre in prima battuta ha indubbiamente imposto la massima cautela essendo espressivo di potenzialità lesive e consistendo comunque in una gravissima violazione dei doveri funzionali del gendarme, si è poi dimostrato, tuttavia, non costituire reato, nonostante l’intrinseca sua gravità e la sua astratta pericolosità. Ne consegue che si deve riformare l’appellata sentenza, traendo in iure le conseguenze dell’indicato riscontro”, conclude il giudice delle appellazioni. 

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