La classe dirigente della Repubblica di San Marino sta portando a fondo il Paese per difendere l’indifendibile, cioè il sottobosco politico affaristico: una macina al collo.
Così facendo, sta pregiudicando l’ultima chance, l’ultimo caposaldo della sua passata economia: il differenziale fiscale.
Il differenziale fiscale di per sè sarebbe sufficiente a sostenere nella Repubblica di San Marino una economia sana, fatta di aziende vere che operano alla luce del sole. Cioè di aziende che non hanno bisogno di nascondere i nomi dei soci dietro il paravento dell’anonimato societario, fatto sopravvivere furbescamente (in questo Paese
per furbi vietato agli onesti) anche dopo l’eliminazione della società anonime.
Questo è il punto. Le imprese sammarinesi non arrivano a pagare sugli utili di bilancio più del 17%. Vale a dire un terzo delle concorrenti situate oltre confine, come si deduce da un lancio Ansa: Nel 2010 la pressione fiscale sull’economia ‘regolare’ e’ oscillata tra il 51,1 e il 51,9% del Pil: oltre 8 punti percentuali in piu’ rispetto al dato contabilizzato dal ministero dell’Economia. Lo sostiene la Cgia di Mestre. ‘Chi in Italia e’ conosciuto dal fisco – afferma il segretario Giuseppe Bortolussi – subisce un prelievo fiscale ben superiore al dato statistico ufficiale. Per questo e’ assolutamente improrogabile una seria lotta contro il lavoro nero e l’evasione fiscale’.