San Marino, vale a dire San Pechino. Camilla Conti, L’Espresso

San Marino, vale a dire San Pechino. Camilla Conti, L’Espresso

Espresso.

Economia. Paradisi Fiscali

San Marino, cioè
San Pechino

Camilla Conti

 

 Da un lato ci sono i cinesi.
Dall’altro le aziende legate a Cl. Sulla via del rilancio oggi la Repubblica del  Titano è a un bivio.

 Il 16 maggio arrivano
i cinesi per festeggiare quarant’anni di relazioni diplomatiche. E il 19 giugno
è atteso il Papa in visita pastorale. II diavolo e l’acqua santa fanno tappa
nell’ex paradiso (fiscale) della Serenissima Repubblica di San Marino.

Il Dragone o il Vaticano: chi scegliere per rilanciare
l’economia sanmarinese assediata da Giulio Tremonti? Perché la crisi ha colpito
duro anche questo piccolo Stato (31.887 residenti) indipendente dal 1296. Le
banche e le finanziarie locali, con circa 13 miliardi di depositi (italiani per
oltre il 60 per cento) alla vigilia della recessione, non sono state certo
aiutate dalla stretta globale sulle regole della finanza, resa ancora più aspra
dalla fermezza del ministro dell’Economia. La svolta internazionale è iniziata
un paio d’anni fa quando il G20 si riunì a Londra per combattere i paradisi
fiscali ed eliminare il segreto bancario. Poi è cominciato il giro di vite
italiano culminato con le nuove regole introdotte nel “decreto
incentivi”: le aziende del Titano di fatto non possono più partecipare ad
appalti pubblici tricolori e chi ha in casa fatture superiori ai 5 mila euro targate
San Marino rischia l’accertamento della Guardia di Finanza. Eppure il governo
locale sta facendo molto per togliersi di dosso l’etichetta di Stato off-shore.
Ha istituito un sistema di controlli sulle attività economiche, con un ufficio
che collabora con la Guardia
di Finanza. Ha creato un nucleo antifrode. Ha introdotto norme sui capitali più
severe di quelle italiane. Ha superato l’esame del Moneyval, il comitato di
esperti per la valutazione delle misure contro il riciclaggio, e ha portato lo
Stato fuori dalla lista grigia dell’Ocse.

Ma la strada è ancora lunga. L’Ocse deciderà in ottobre se
confermare la Repubblica
nella “white list” dei Paesi trasparenti e che hanno cancellato il
segreto bancario. Alla patente di idoneità di San Marino manca infine il
protocollo di modifica del trattato con l’Italia contro le doppie imposizioni
fiscali, che Tremonti non intende sottoscrivere perché non ritiene che  il Titano si sia adeguato agli standard
internazionali. Uno stop che rallenta altri  accordi e che lascia San Marino nella black
list italiana. Il problema è che, per riconvertirsi, il sistema bancario
sanmarinese ha bisogno di liquidi. E le casse, al momento, sono quasi vuote.
Vani i passi del ministro Renato Brunetta, arrivato a proclamarsi
“l’agente all’Avana” di San Marino. Sfortunati anche quelli di
Claudio Scajola, mossi poco prima delle dimissioni. Di recente, dopo che  la Repubblica ha abolito l’anonimato societario e
approvato una legge di bilancio piena di tagli di spesa, nuove aperture sono
arrivate dal ministro Paolo Romani, con cui sono stati siglati accordi
dall’energia all’autotrasporto e alle frequenze tv. Ma all’appello manca sempre
Tremonti.

Il prezzo pagato dal Titano è salato. In 61 chilometri
quadrati San Marino ospita 12 banche e 35 finanziarie nelle cui casse erano
custoditi 13,6 miliardi. Poi con lo scudo fiscale è arrivata una mazzata da 4,7
miliardi. Una parte è stata solo regolarizzata, ma quasi 3 miliardi sono
rientrati in Italia. L’apparato prosciuga risorse e la Rocca ha cominciato a
vacillare sotto il peso di un deficit statale di 40 milioni. Per non crollare
le autorità locali hanno cominciato a guardare alla Cina. Nel 2010 San Marino
ha partecipato all’Expo di Shanghai e ha concluso una serie di intese
economiche. Dal 2007 è stato abolito l’obbligo di visto di ingresso fra i due
Paesi. Ma per approfittarne appieno l’aeroporto di Rimini andrebbe trasformato
in scalo internazionale, con un’area doganale extra Schengen legata a San
Marino. L’obiettivo del governo è creare un ponte, soprattutto per le merci, e
riprendersi anche le dogane, che sono tuttora gestite dall’Italia. Oggi il
Titano vive una situazione ibrida: è in unione doganale con l’Europa, ma ha
facoltà di affidarne la gestione ad altre dogane europee, come l’Italia. Ciò
comporta l’incasso solo di una parte dei dazi, perché l’altra spetta ai Paesi
che forniscono il servizio.

Intanto a giugno 2010 l’associazione degli imprenditori ha
stretto un accordo di cooperazione con i colleghi cinesi e a settembre alcune
aziende hanno concluso un’intesa con la Camera di commercio di Shanghai. Fonti locali
parlano inoltre di possibili ingressi di capitali cinesi in istituti
sanmarinesi e secondo le stesse fonti sarebbero già due le banche che hanno
attirato l’attenzione del colosso asiatico Icbc. «Non c’è nulla di concreto»,
commenta il segretario di Stato all’Industria, Marco Arzilli, «ma il nostro
sistema bancario deve evolversi. Ci sono progetti già aperti anche se non
ancora definiti».

Ma perché la
Cina dovrebbe puntare sul Titano? «Noi non abbiamo il
territorio», risponde Arzilli, «ma possiamo garantire velocità, rapporto
diretto con le istituzioni e fiscalità agevolata. Potrebbero venire qui piccole
e medie imprese cinesi che fanno fatica a stabilire relazioni con altri Stati».
Di certo, l’ambasciatore della repubblica popolare cinese Ding Wei è favorevole
a uno sviluppo dei rapporti. «I nostri Paesi hanno molto in comune, a partire
dalla difficoltà nel comunicare all’estero», ha detto Ding Wei: «Ci sono grandi
potenzialità».

San Marino può infatti offrire alla Cina la possibilità di
posizionarsi in un punto strategico per l’Europa, a basso costo. Un’attrattiva
per le aziende cinesi, che potrebbero importare semilavorati senza dazi Ue e
vendere in seguito il prodotto finito come società della Repubblica. Tradotto:
il prodotto entra cinese ed esce sanmarinese. La stessa strada può essere
percorsa da una società di capitali. Oggi un hedge fund cinese che vuole
operare in Europa deve fare i conti con trattenute fiscali che arrivano al 50
per cento e con la stretta normativa imposta da Bruxelles a fine 2010. I fondi
alternativi e off-shore potranno operare e raccogliere capitali in tutto il
continente solo se avranno ottenuto una sorta di passaporto europeo che impone
precisi paletti a chi viene da fuori.

Del resto la
Cina ha utilizzato Hong Kong per proiettare la propria
economia all’estero mantenendo una barriera monetaria attorno al confine della
Repubblica del Dragone e al tempo stesso sfruttando la fiscalità della
città-Stato. In sostanza, ha attuato un’attenta politica di triangolazioni
societarie invece che un progetto di annessione che avrebbe causato danni
all’ex colonia britannica senza dare vantaggi a Pechino.

Ma non tutti sono pronti ad aprire le porte al Dragone. Il
governo non è compatto: il referendum per l’adesione all’Unione europea è stato
bloccato mentre il 92 per cento dei sanmarinesi ha detto sì al ripristino della
maggioranza qualificata per la cessione dei terreni pubblici, che il governo
voleva invece ridurre con l’obiettivo di venderli più facilmente.

Le resistenze più forti alla sindrome cinese arrivano però
dalla Chiesa. Il vescovo di San Marino Montefeltro, Luigi Negri, vicino a Cl, è
impegnatissimo nei preparativi per la visita del Papa. E teme che i cinesi da
salvatori si trasformino in conquistatori, considerando l’interesse già
manifestato per le frequenze rv e le telecomunicazioni sanmarinesi. Meglio
dunque creare un governo di unità nazionale con l’obiettivo di completare le
riforme senza cambiare troppo la sostanza dei rapporti economici con il
territorio limitrofo. Altri imprenditori che orbitano nella Compagnia delle
Opere, il braccio armato di Cl, sarebbero invece più disponibili a stringere
accordi con il Dragone.

Come disse Paolo VI, la storia della Repubblica di San Marino è quella
di «un piccolo popolo che parla ai grandi’ . Basta solo trovare l’interlocutore
giusto. Per restare in qualche modo un paradiso.

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