CORRIERE DELLA SERA
Carlo Maria Martini
Martini e le polemiche sul fine vita: «Anch’io come Carlo Maria direi no a quelle terapie»
Il cardinale Sgreccia: «La Chiesa rifiuta l’accanimento Quando le cure non servono, si aggiunge solo dolore»
Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO – «Guardi, se qualcuno vuole stiracchiare le cose come se il cardinale avesse voluto evitare terapie che ancora si potevano fare, fatti suoi, la pensi come gli pare. Ma da ciò che ho letto e interpretato la scelta di Carlo Maria Martini e la sua morte sono avvenute secondo i precetti e i canoni dell’etica cattolica». Il cardinale Elio Sgreccia, 84 anni, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita e tra i massimi esperti di bioetica della Chiesa – un impegno che Benedetto XVI ha riconosciuto con la porpora – sorride tranquillo e aggiunge: «Io e altri, se ci trovassimo nella stessa condizione, dovremmo fare come lui».
Eminenza, si fa confusione tra il «no» all’accanimento terapeutico e l’eutanasia?
«Direi proprio di sì. L’accanimento terapeutico è rifiutato dalla Chiesa e da tutti i cattolici. Non solo è sconsigliato ma direi anzi che è proibito, come è proibita l’eutanasia. Così come non si può togliere la vita, allo stesso modo non la si può prolungare artificialmente».
E perché?
«Un credente accetta serenamente la morte perché sa che la vita non finisce lì. Certo non sta a noi anticipare il momento, non è lecito compiere alcun atto soppressivo. Ma quando la morte sta arrivando, quando la cura non ha più significato e si aggiunge solo dolore e tormento, allora bisogna rispettare il malato e la sua condizione con serenità».
Nessun problema, anche per i medici?
«Ma no, qualsiasi medico avrebbe potuto fare ciò che Martini ha chiesto. Il decorso del Parkinson è noto, arriva il momento in cui non ha senso né significato prolungare, accanirsi con terapie. Non si fece neppure nel caso, analogo, di Giovanni Paolo II. E qualsiasi cattolico, sacerdote o laico, compirebbe con serenità la stessa scelta».
Eppure è proprio ciò che si rimprovera alla Chiesa: di non rispettare la volontà del malato, l’autodeterminazione.
«Ricordare ai fedeli e a ogni uomo che la vita è un dono di Dio e va rispettata non è offendere la loro libertà, non va interpretato come un atto repressivo della libertà ma come ciò che la illumina. Ogni azione morale dev’essere illuminata dalla verità. Così rispettare la morte e saperla accogliere quando viene è un atto di grandezza dell’uomo, apre l’uomo alla visione di una verità stupenda: significa consegnare se stessi al Creatore».
Qui sta insomma la differenza tra eutanasia e rifiuto dell’accanimento?
«Certo. Decidere di togliersi la vita è un conto. Un altro è scegliere di non volere terapie che sono solo atti di turbamento della morte, di violenza sul morente. Sia l’eutanasia sia l’accanimento sono negativi».
Tuttavia ci sono casi controversi, no?
«Esistono casi da rimettere alla volontà del paziente, ad esempio per le terapie straordinarie: un intervento a rischio, per dire, con il cinquanta per cento di possibilità di successo. A quel punto è il paziente che deve decidere, l’incertezza non crea obbligo. Comunque non ha nulla a che fare con il caso del cardinale Martini».
E un caso come Welby? Lo stesso Martini aveva espresso dubbi, nei casi singoli le distinzioni sfumano…
«La situazione di Welby era affatto diversa. C’erano terapie che avrebbe potuto rifiutare all’inizio, quando ad esempio venne fatta la tracheotomia. Uno può dire: vado avanti seguendo la natura, non voglio un procedimento straordinario, essere attaccato a una macchina. Ma una volta che è accaduto e chiedi al medico di staccarti, allora la cosa cambia, gli chiedi di interrompere la vita, chiedi a un altro di farti morire».
Che ne pensa, eminenza, delle polemiche di queste ore?
«Ho la massima stima e venerazione per il cardinale Martini, il suo servizio alla Chiesa e la sua esemplarità di vita. E mi sembra pretestuoso e irrispettoso eccepire qualcosa intorno alla sua morte».
Gian Guido Vecchi