Pa, in caso di condanna penale, incostituzionale il licenziamento automatico

Pa, in caso di condanna penale, incostituzionale il licenziamento automatico

Pa, è incostituzionale il licenziamento automatico

in caso di condanna penale

I Garanti dichiarano contraria ai principi di ragionevolezza ed equità la legge in materia sul pubblico impiego

Antonio Fabbri

Il caso è quello di un agente della polizia civile che nel gennaio 2018 era stato condannato per omissione di atti di ufficio ad una pena di 6 mesi di interdizione dai pubblici uffici, con pena sospesa per due anni. Il fatto riguardava delle irregolarità nella tenuta della contabilità di cui era all’epoca responsabile. 

Dopo che in primo grado era stato assolto, in appello, in seguito al ricorso della Procura fiscale, l’assoluzione era stata ribaltata in condanna, seppure lieve commisurata alla tenutà degli episodi contestati. A seguito della definitività della condanna penale, e in funzione della legge che regola la Pubblica amministrazione, l’agente era stato licenziato in automatico con provvedimento della Commissione di disciplina, ma si era appellato alla decisione giungendo in secondo grado amministrativo. Qui il Giudice di appello ha sollevato la questione davanti al Collegio Garante di Costituzionalità delle norme affinché valutasse, appunto, la possibile incostituzionalità della legge sul pubblico impiego, la numero 106 del 2009, nella parte in cui all’articolo 13 prevede l’automatismo del licenziamento per il dipendente pubblico, laddove sia intervenuta una condanna penale definitiva per reati contro la pubblica amministrazione, a prescindere dalla gravità del reato commesso, per chi “abbia riportato condanna definitiva ad una qualsiasi pena restrittiva della libertà personale o di interdizione dai pubblici uffici”.

La normativa, dunque, non lascia spazi di valutazione alla Commissione di disciplina che deve in sostanza procedere agli adempimenti per il licenziamento entro 15 giorni dalla comunicazione della condanna penale del dipendente da parte del Capo del personale.

In sostanza il Collegio Garante in composizione collegiale con il presidente Giovanni Nicolini e i membri Giuseppe Ugo Rescigno e Nicola Lettieri, è stato chiamato a valutare la legittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede la sanzione del licenziamento “come conseguenza ineludibile della condanna definitiva” per reati contro la Pa, valutando anche se la condotta della quale il dipendente è stato ritenuto responsabile in sede penale sia “radicalmente incompatibile con la conservazione del pubblico impiego”.

Ebbene, il Collegio Garante, accogliendo le questioni sollevate dal Giudice di appello amministrativo, e condivise anche dall’avvocato Edoardo Grandoni legale della parte ricorrente, ha dichiarato con sentenza del 2 luglio, pubblicata ieri, l’incostituzionalità della norma. Norma che, spiegano i Garanti, si pone in contrasto con l’articolo 4 della Dichiarazione dei diritti sotto l’aspetto della ragionevolezza e proporzionalità, ma anche in contrasto con il principio di uguaglianza.

“Nella prospettazione del giudice remittente – scrivono i Garanti nella sentenza – la violazione del canone di ragionevolezza sarebbe particolarmente evidente nella specie sottoposta a giudizio, in cui l’espulsione automatica del dipendente è conseguente ad una condanna per una lieve omissione d’atti d’ufficio, che aveva indotto lo stesso giudice penale ad irrogare la sola misura interdittiva per sei mesi, per di più sospesa a testimonianza di una prognosi favorevole a vantaggio del ricorrente”.

I Garanti ritengono che solo eccezionalmente l’automatismo potrebbe essere giustificato, “segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio nel caso di fattispecie sanzionata con una lunga pena detentiva o di diverse fattispecie sanzionate con più periodi di interdizione dai pubblici uffici, che equivalgono ad una sostanziale estinzione del rapporto di impiego”.

Spiegano infatti i Garanti che “a causa dell’ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l’automatica cessazione dal rapporto di impiego, le disposizioni impugnate non possono validamente fondare in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell’interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare così grave come la definitiva cessazione dal servizio. L’automatica interruzione del rapporto di impiego è, infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito”. Oltre all’irragionevolezza della norma, il Collegio Garante evidenzia anche la violazione del principio di uguaglianza “in quanto sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore il pubblico impiegato condannato ad una tenue pena non detentiva per un misfatto contro la pubblica amministrazione, connotato da lieve disvalore, rispetto ad altro dipendente dello Stato o di altre amministrazioni pubbliche, condannato per un misfatto o delitto – non contro la pubblica amministrazione ma comunque di maggiore disvalore – e ad una pena più grave”. In sostanza, insomma, i Garanti sostengono che comunque, anche qualora vi sia una condanna definitiva per reati contro la pubblica amministrazione, la Commissione di disciplina debba valutare il caso concreto e applicare la sanzione disciplinare più confacente alla gravità dell’episodio contestato. Allo stesso tempo sottolinea che l’automatismo possa anche essere previsto, ma per casi specifici e ben delineati e non, come è ora, in maniera generica come conseguenza di qualsiasi sentenza definitiva di condanna per reati contro la Pa, a prescindere dalla gravità del fatto.

Una pronuncia che, quindi, imporrà al legislatore un adeguamento normativo della legge 106 del 2009 relativa alle sanzioni disciplinari dei pubblici dipendenti.

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