Risposta a Giorgio Felici sulla crisi economica

Risposta a Giorgio Felici sulla crisi economica

Caro Felici, proprio così: la situazione è nera, l’occupazione diminuisce, la crisi finanziaria si riversa sull’economia reale… o forse la finanza si svela per quello che è?, cioè uno stratagemma con cui l’economia reale è sopravvissuta senza basi reali! Di questo parlano i più avveduti economisti e sociologi, di una crisi del sistema capitalistico liberale e del suo presupposto: la società del lavoro e della crescita continua. Tutto questo, dice Tiezzi dell’Università di Siena, non funziona per un semplice motivo: il pianeta è uno spazio finito, perciò non può dare una crescita infinita, e nemmeno un’occupazione adeguata. La finanza fino ad ora ha tenuto in piedi un castello privo di fondamenta, d’ora in avanti faticherà a farlo, e nel medio periodo, lo si voglia o no, il sistema imploderà. Si potrà solo decidere se costringere le imprese a non usare le tecnologie, e salvaguardare così il lavoro (ma non è certo una strada perseguibile, né auspicabile), oppure abituarsi ad una società in cui il lavoro del singolo individuo non sarà più indispensabile.
Di fronte a tutto questo il sindacato non dovrebbe chiedere al Governo, come fa Felici, di risolvere il problema: come potrebbe risolverlo il governo? Ha solo un’arma: tamponare l’emorragia versando (come succede ovunque) oboli milionari nelle casse degli imprenditori, in cambio dell’impegno a non chiudere (cioè in cambio di licenziamenti solo ridotti).
Cioè, che succede? Lo stato paga “tizio” per non chiudere un’azienda non più competitiva, perché se chiude i lavoratori perdono il posto, e quindi i soldi che gli da “tizio”. Pensateci su: non sarebbe meglio se lo Stato desse i soldi direttamente al lavoratore che perde il lavoro piuttosto che a “tizio”? Nulla, infatti, impedisce a “tizio” di licenziare in ogni caso, o spostare la produzione altrove, o nel migliore dei casi (è quanto succede in USA in questi giorni) continuare a chiedere oboli all’infinito, tenendone una buona parte per sé.
Oggi, sono tre le cose che un sindacato dovrebbe fare: 1) lo presagisce anche Felici: “tre contratti sono scaduti, la situazione economica è quella nota…” che sta a dire: come facciamo a ottenere aumenti dignitosi se le aziende chiudono? La risposta è: meccanismi automatici di rivalutazione legati all’inflazione e al PIL, proprio i referendum che la CSU, per ragioni di partito, ha contrastato. 2) vietare contratti capestro, perché tra i 1600 cassintegrati e i licenziati di ogni giorno, chi ha contratti co.co.pro. o interinale non è conteggiato, visto che a loro basta non rinnovare il contratto, e alla cassa integrazione non hanno proprio diritto. Anche questi referendum la CSU li ha contrastati per ragioni di partito. 3) come misura tampone – pretendere una riduzione oraria significativa (il sociologo De Masi parla di 25/30 ore) a parità di stipendi. Se lo Stato deve versare denaro della collettività, lo faccia per salvare i lavoratori, cioè persone in carne ed ossa, non per salvare l’economia, che è l’interesse di pochi. Invece di versare oboli agli industriali, li versi agli operai in cambio di una drastica riduzione oraria, e pretenda tetti massimi per le retribuzioni dei manager.
Chi persegue queste misure se non un sindacato? Se la cecità del modello turboliberista ha potuto trionfare in occidente, la colpa maggiore è da addebitare ai ripensamenti sindacali seguiti al 1989! Da noi il sindacato si è ridotto al teatrino di chi ha fatto fortuna dietro la scrivania, e ora, nonostante la crisi finanziaria, continua a chiedere l’istituzione del secondo pilastro pensionistico da mettere in bocca ai finanzieri stessi. Ora che ovunque i fondi pensione crollano. Per che motivo? Solo perché sono loro e i loro partner a volerli gestire? E allora, a cosa si riduce il ruolo del sindacato? A traditore e peggior nemico dei lavoratori e dei pensionandi?

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