Dopo aver posto l’accento sul diverso livello di istruzione tra occupati del settore pubblico e privato, la CSdL (Confederazione Sammarinese del Lavoro) torna a denunciare un’altra forte diseguaglianza: quella tra titoli di studio e riconoscimento professionale.
Se da un lato il settore pubblico appare più coerente nella valorizzazione delle qualifiche, nel privato persistono dinamiche penalizzanti, specie per i giovani e le donne. Il comunicato che segue analizza numeri, situazioni reali e proposte operative, sottolineando le cause profonde della crisi demografica e della crescente insoddisfazione lavorativa.
In precedenza abbiamo messo in rilievo il differente grado di istruzione degli occupati tra settore pubblico e privato. Ora valutiamo se ai titoli di studio consegue un corrispondente riconoscimento professionale. La tabella fotografa in maniera inequivocabile il fatto che, ancora una volta, il primo settore è virtuoso, a differenza del secondo.
Nel settore pubblico, i dipendenti inquadrati con le massime qualifiche sono quasi corrispondenti al numero dei laureati. Anche le proporzioni di genere sono rispettate, con l’eccezione dei dirigenti. Il 60% di questi ultimi, infatti, è di genere maschile, mentre gli uomini occupati sono circa un terzo del totale. I ruoli dirigenziali vengono assegnati per scelte politiche che, evidentemente, paiono discriminatorie.
Nel settore privato, va decisamente peggio, se consideriamo che i titoli di studio dei lavoratori frontalieri non vengono registrati: si può ipotizzare che siano proporzionati a quelli riportati dai Bollettini di Statistica. I dati confermano quanto affermiamo da tempo, ovvero che le imprese non riconoscono qualifiche adeguate ai titoli di studio posseduti dai lavoratori, anche quando corrispondono alle professionalità richieste.
Troppe volte ci sentiamo dire che alla laurea deve seguire un ulteriore periodo di formazione “sul campo”. Se sul piano teorico questo può avere un fondamento, purché tale periodo sia breve, la riprova dei fatti è che, invece, spesso la “gavetta” è lunghissima e altrettanto spesso l’ambito riconoscimento professionale non arriva mai, specialmente per le donne, come si evince confrontando i dati con la tabella pubblicata lo scorso 9 aprile.
Sappiamo che molti giovani, prima di decidere di avere figli, aspirano a raggiungere un’occupazione coerente con i tanti anni spesi nel conseguimento del titolo di studio. È una scelta comprensibile, in particolare per le donne, tenuto conto delle discriminazioni che ancora sono costrette a subìre a causa della maternità.
Abbiamo già denunciato il caso finito in Tribunale, che ha dato ragione alla lavoratrice, ma la gran parte delle situazioni analoghe non vengono alla luce, così come non emergono quasi mai i casi di donne che, dopo l’assenza dal lavoro per puerperio ed aspettativa, al loro rientro in servizio subiscono pressioni affinché rientrino a tempo pieno, oppure vengono adibite a mansioni diverse da quelle precedenti, spesso meno qualificate.
Se per un consistente numero di imprese la maternità viene vissuta come una colpa, in quanto crea problemi organizzativi, non ci si può stupire se le nascite crollano vistosamente.
A questo proposito, riconoscendo il fatto che, in particolare per le piccole imprese, tali problemi possono sorgere, abbiamo condiviso con UNAS, nell’ambito dell’ultimo contratto recentemente firmato, il fatto che i costi relativi alla retribuzione differita (ferie, festività, tredicesima e TFR) siano posti totalmente a carico della Cassa Ammortizzatori Sociali, piuttosto che dell’azienda, come avviene oggi.
Siamo inoltre concordi nel riconoscere ulteriori incentivi per far fronte alle assenze ed alla eventuale necessità di sostituzioni temporanee ma, dall’altro lato, occorre monitorare e sanzionare pesantemente i comportamenti discriminatori prima evidenziati.
CSdL