San Marino. Elisabetta Ercolani, coordinatrice del Covid Team. L’intervista di Davide Pezzi

San Marino. Elisabetta Ercolani, coordinatrice del Covid Team. L’intervista di Davide Pezzi

“La cosa peggiore è stata vedere persone morire senza avere accanto i propri affetti”

Intervista a Elisabetta Ercolani, coordinatrice del Covid Team. “Il grande cuore di tutti ci ha consentito di allestire un nuovo reparto in 24 ore”. 

Davide Pezzi

All’indomani della chiusura del reparto Covid-19 dell’O- spedale e della notizia che non ci sono più malati rico- verati, abbiamo intervistato la coordinatrice del Covid Team Elisabetta Ercolani per farci raccontare come è stata affrontata al suo nascere l’e- mergenza.

“Questa storia inizia a fine febbraio e precisamente il 28, il giorno dopo aver ricoverato il primo cittadino sammarinese presso il reparto di malattie in- fettive dell’ospedale di Rimini. Stavano arrivando, al pronto soccorso del nostro ospedale, persone con sintomi importanti di tipo respiratorio; a quel punto ci siamo resi conto che l’Ospedale di Stato della Repubblica di San Marino doveva prendersi carico dei propri malati, non potendo contare sulla disponibilità delle strutture sanitarie del circondario.

Alle 17.30 del 28 febbraio sono stata chiamata dalla Direzione e insieme abbiamo programmato l’immediata apertura del reparto da me coordinato, la Day Surgery, e la sua trasformazione in un reparto per infetti. Alle 21 della stessa sera abbiamo accolto il primo paziente proveniente dal nostro pronto soccorso. Una grossa attenzione da subito, seguendo le indicazioni dell’ECDC europeo (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, Ndr), è stata data al protocollo da adottare per vestirsi e svestirsi in questo tipo di infezione: su ogni porta del reparto indicata la sequenza su come vestirsi, come svestirsi tra un paziente a l’altro, e come svestirsi alla fine”

Che cosa l’ha aiutata in quel momento di emergenza? “L’esperienza da me maturata presso la Terapia Intensiva dell’Ospedale Maggiore di Bologna, la mia conoscenza e la ricerca personale, fatta anche sul momento, circa le procedure e le indicazioni di come dovesse essere trattata una persona infetta da Covid 19 e quali dovessero essere le precauzioni da adottare per preservare il personale sanitario. Poi mi ha aiutato la grande disponibilità ed il grande cuore dei miei infermieri, permettendomi di trasformare in poco più di tre ore una degenza diurna a carattere chirurgico, in una unità assistenziale complessa per pazienti critici.

Ricordo la grande disponibilità incontrata nella persona del dirigente del Centro Farmaceutico il quale si è messo totalmente a disposizione per approntare e rifornire il reparto del necessario per l’emergenza incombente, tra l’altro con la sua lungimiranza il dottor Riccardi aveva da tempo ordinato materiali preziosi per quel momento. Materiali che tuttavia faticavano ad arrivare anche per problemi burocratici insorti con la protezione civile italiana. Ricordo infatti che, solo per citare le famose mascherine FFP2, indispensabile presidio per operatori che assistono pazienti Covid positivi, all’inizio dell’emergenza calcolavamo le ore di utilizzo per farle durare il più a lungo possibile.

Come ho già detto, tra la richiesta di approntare la Day Surgery per ricoverare i pazienti infetti e l’arrivo del primo paziente dal pronto soccorso, passano poco più di tre ore. Questo per far capire la disponibilità, la collaborazione e la professionalità che ho incontrato in quel momento. Per rendere bene l’idea di quei momenti, alle 21 abbiamo preso in carico il primo paziente e la prima volta che con Erika, che da tanti anni collabora con me, ci siamo guardate in faccia, erano le quattro del mattino. Sono state tante le volte in cui in qualche raro momento di pausa, ho dovuto incoraggiare e tranquillizzare le mie collaboratrici ed i miei collaboratori, perché accanto al coraggio, alla preparazione e alla professionalità, dobbiamo contemplare anche le preoccupazioni per se stessi e per i propri familiari che necessariamente scaturivano dal rapportarsi con una malattia assolutamente sconosciuta. Il reparto ha avuto da subito la guardia attiva di un medico e dal pronto soccorso sono arrivati pazienti già ben inquadrati, con indagini radiologiche opportune eseguite. Purtroppo i quattro posti letto della Day Surgery si sono saturati immediatamente, mentre al pronto soccorso continuavano ad arrivare ammalati con quadri di polmonite interstiziale e febbre alta. Quindi di conseguenza mi è stato ordinato di approntare in un’ala dell’ex casa di riposo, un nuovo reparto di isolamento. Sono state 24 ore incredibili dove il grande cuore di elettricisti, idraulici, informatici, artigiani ha creato dal nulla un reparto e dove tante figure sanitarie, dirigenti, coordinatori, infermieri, hanno fatto sì che queste stanze diventassero delle strutture assistenziali complete e complesse.

Si è presentata subito l’esigenza di formare altri infermieri, perché era impensabile gestire una simile situazione con le sole 4 infermiere del Day Surgery, anche perché l’assistenza ad ammalati di questo tipo richiede che ogni infermiere abbia vicino a sé quello che io ho sempre chiamato un “angelo custode”, il quale vigila sulle corrette manovre di vestizione e svestizione del collega: anche questo ha consentito di avere un numero estremamente ridotto di personale sanitario contaminato. Ho incontrato tanta disponibilità e professionalità da parte di questi ragazze e ragazzi ed io, in qualità di coordinatrice, ho cercato non solo di prepararli, ma anche di supportarli e di incoraggiarli. Sono state giornate veramente intense e con tante e tante ore di lavoro da parte di tutti”.

Avete preso stanze anche da altri reparti? “Sì, gli spazi di altri reparti sono stati reclutati quali isolamento per accogliere pazienti critici e quindi altri infermieri sono stati preparati, poiché l’epidemia era nella sua fase esplosiva. Di lì a pochi giorni, infatti, anche il reparto di geriatria è stato trasformato in isolamento e qui ho condiviso questa grande responsabilità con la coordinatrice della geriatria, Marcela Franco. Pensi che il nostro ospedale è riuscito a garantire assistenza qualificata a circa 80 persone contemporaneamente e con diversi livelli di gravità. E’ stata anche molto importante la collaborazione col Pronto Soccorso doveva chiamare in reparto prima di mandare un paziente, perché avevamo bisogno di sapere quanti anni aveva, come stava, se aveva fatto il tampone, e soprattutto dovevamo chiamare una ditta di pulizie per far sanificare tutto tra un paziente e l’altro.

A me, come ad altri colleghi, è stato richiesto un ruolo di coordinamento, di formazione rispetto a problemi fino a quel momento mai affrontati nel nostro ospedale e oggi, a distanza di tempo, posso dire che ci è voluta la giusta dose di preparazione, di umiltà, ma qualche volta anche di autorità. Ognuno di noi, specialmente dopo il lavoro, ha dovuto fare i conti con le proprie fragilità spesso ripensando alle scene dolorose a cui abbiamo dovuto assistere.

La cosa peggiore, è stata il vedere le persone morire senza avere a fianco i propri affetti e pensare ai familiari che hanno visto i propri parenti portati via in ambulanza senza più rivederli; sicuramente è un grande dolore. Erano momenti di riflessione intima che mi potevo permettere solo a casa, da sola, anche perché in ospedale le nostre forze erano necessarie per supportare, in ogni momento e in tutto, gli infermieri e i collaboratori.

Oggi posso dire di essere molto fiera dei colleghi infermieri che ho avuto il piacere e l’onore di guidare e coordinare e credo che ognuno di loro abbia lasciato una pagina importante in questa storia, di cui stiamo scrivendo la fine e che nessuno di noi può permettersi di dimenticare.

 

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