“L’invasione degli asterischi”: una riflessione sul linguaggio

“L’invasione degli asterischi”: una riflessione sul linguaggio

Riceviamo e pubblichiamo una lettera a firma di Elena Guidi.

L’INVASIONE DEGLI ***

Dopo quella degli ultracorpi, e più devastante ancora di quella degli Unni e delle cavallette, ecco fare la sua comparsa una nuova invasione. La piaga sta dilagando inarrestabile, forte della sua aura politically correct, in tutte le missive ufficiali e istituzionali, ma anche nelle chat di gruppo, laddove il rapporto non sia strettamente confidenziale. Il terrore di risultare incivili e obsoleti sta producendo risultati tragicomici, come quello in cui mi sono imbattuta stamattina: un testo di 10 righe con ben 7 asterischi a sostituire le vocali del peccato. La vocale più peccaminosa di tutte è senza ombra di dubbio la “i” del plurale maschile inclusivo, la quale pare essere diventata imbarazzante in quanto responsabile di soprusi psicologici intollerabili nella nostra società arcobaleno, e va quindi, se non estirpata, almeno nascosta per pudore. L’asterisco in pratica è una mutanda, la foglia di fico sotto cui nascondiamo il nostro neonato (e neo-indotto) senso di colpa per essere stati finora talmente trogloditi da non accorgerci che l’idioma italico celava insidie di matrice diabolica. Così la lingua italiana, fisiologicamente strutturatasi su criteri ergonomici (minima spesa, massima resa), in questi tempi balordi di moderna Inquisizione si ritrova sul banco degli imputati, accusata di sessismo, chiamata ad abiurare e a convertirsi a linguaggio davvero “inclusivo”, al fine di non urtare le nuove sensibilità collettive. 
Del resto le urgenti e fondamentali sfide e pseudoansie del XXI secolo vanno affrontate senza indugio: dunque la Sirenetta l’abbiamo abbronzata un po’, i requisiti per partecipare a Miss Olanda li abbiamo modificati, la signora Ministro è diventata la Ministra,… ma come risolvere il problema del plurale maschile, anzi maschilista, che affligge la nobile lingua di Dante? Il primo tentativo in tal senso ha visto comparire in ogni frase il plurale femminile accanto a quello maschile (a tutte le ragazze e i ragazzi, le colleghe e i colleghi, carissime e carissimi), ma ci si è accorti subito che questa modalità appesantiva l’oratoria, senza peraltro essere risolutiva: perché allora non “ragazzi e ragazze”? Vorremo mica discriminare al contrario? Perché prima il femminile? 
In un’atmosfera di cotanto zelo intellettuale, ci si aspettava che qualcuno imponesse la prassi di anteporre il plurale maschile nei giorni pari e quello femminile nei giorni dispari. O di stabilire che gli uomini (ovviamente solo se e quando si sentono tali, senza voler forzare nessuno) debbano usare prima il plurale femminile, mentre le donne prima il maschile; oppure viceversa. Invece no, abbiamo adottato l’asterisco. Quello che si usa comunemente nel social-turpiloquio per oscurare, appunto, le lettere della vergogna (ca**o, f**k). 
Quello che, se mai ci capitasse di doverlo leggere ad alta voce, ci porrebbe di fronte a un enigma epocale irrisolvibile al pari di “il coccodrillo come fa?!” , gettandoci nel panico. 
Ma prima di essere tacciata di cinismo vorrei aprire una parentesi e sbloccarvi un ricordo: chi di voi signore, fino ad un decennio fa, si sentiva esclusa o offesa quando il sacerdote si rivolgeva agli “uomini di buona volontà” o il professore diceva “ragazzi, la lezione è terminata”? Non è forse vero che il problema nemmeno sussisteva, in quanto era ovvio che si stesse rivolgendo al gruppo di “esseri umani” che aveva di fronte? Mentre oggi, nel momento in cui ci troviamo a dire “colleghi” ci sentiamo subito in dovere di aggiungere “…e colleghe”. Sicure che sia un progresso? Si tratta di un atto di individuazione perché finalmente ora ci accorgiamo di essere donne? O in realtà è un senso di maggiore separazione che viene prodotto? Avevamo davvero bisogno di questa riforma linguistica? Non sarà che, con un procedimento molto in voga ultimamente, viene artificiosamente creato un problema per poter poi propinare la soluzione desiderata? In questo caso opacizzare, confondere, spostare l’attenzione e ancora una volta dividere et imperare, per poter infine “neutralizzare” (l’asterisco di fatto introduce la forma neutra) il senso di identità? 
(Piuttosto – parlando di rispetto a partire dal linguaggio- faremmo meglio a concentrarci su tutti quei termini denigratori nei confronti delle donne che vengono serenamente utilizzati con il ghignetto sulle labbra in nome della goliardia, mentre declinati al maschile nemmeno esistono. Ma questo sembra interessare meno.) 
Nonostante sia intervenuta pure l’Accademia della Crusca a sottolineare l’inconsistenza del problema, spiegando come il genere grammaticale non coincida affatto con quello naturale, e come nella nostra lingua esistano altri fenomeni apparentemente sessisti (per citarne uno, come la mettiamo con il Lei di cortesia che rivolgiamo anche agli uomini?), non c’è storia: quando un’idea è intelligente quanto la società in cui viene concepita, nulla la può fermare. Nemmeno il senso del ridicolo. E così eccoci, chi soddisfatto e chi rassegnato, a vivere nella favolosa era green degli asterischi, dove l’italiano – già sofferente e quotidianamente maltrattato da un’ignoranza sempre più estesa – viene vandalizzato alla stregua dei monumenti delle sue città d’arte, bucherellato e imbrattato di stelline che ci aiuteranno a rendere il mondo un posto migliore. 
Elena Guidi 
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