LIBERE OSCILLAZIONI DELLA MENTE Riflessioni del tutto personali e private sul Pendolo di Foucault

LIBERE OSCILLAZIONI DELLA MENTE  Riflessioni del tutto personali e private sul Pendolo di Foucault

LIBERE OSCILLAZIONI DELLA MENTE

Riflessioni del tutto personali e private sul
Pendolo di Foucault

   (TRIM, Anno
III, nn. 8 e 9, febbraio-luglio 1989)

  (Didattica
delle scienze e informatica nella scuola, Editrice La Scuola, Brescia, Anno
XXVI, novembre 1990)

 

Ci sono tanti
modi di leggere un libro, specie un libro di Eco.

Specie un libro
di Eco come il Pendolo di Foucault.

Ne sono rimasto
stupito!

Non solo per
quel trovarsi, da subito, dentro il teatro, in piena azione. Teatro in cui
cerchi invano di capire dove finisce il palcoscenico e comincia la platea.
Sempre un po’ traumatico per noi educati a paragonare ogni incipit a quello
manzoniano.

Nemmeno per
l’impianto dell’opera: quel mescolarsi di farneti­canti  sfoggi di erudizione 
anche linguistica, e di scar­ni dialoghi, scheletrite descrizioni in cui
ciascuna parola è nodo essenziale  della struttura.

Nemmeno per le
oscure iscrizio­ni.

Nemmeno per quel
“68. Certo, per me, di provincia, questo è il miglior resoconto su quegli anni:
anni importanti per leggere la nuova Italia. Per me, di provincia, che ho colto
di riflesso i bagliori di quella voglia di fuoco dilagante per le città che
contano. Tema recente, attuale. Tutto il libro è attuale. Come è attuale (solo
attuale?) l’inquietudine che osses­sivamente co­stringe a cercare nuovi punti
fissi che, sistemati­camente, dimostreremo essere tali solo nella nostra mente.
Siste­maticamen­te la nostra mente, come per un gioco per­verso, ce lo rivelerà.
Tenteremo di barare scrivendone il nome con la iniziale maiuscola: maiuscola
destinata presto, ormai ben sappia­mo, a divenire min­uscola ancora una volta,
come sempre.

Il gioco è
scoperto. Le regole sono chiare. Eppure non è possi­bile non giocare. Quelli di
Parigi arriveranno, ci troveranno. Ci hanno già trovati. Sono dentro di noi. Non
si può non pensare che una volta per queste colline c’erano i dinosauri e che
oggi non ci sono più. Forse sarebbe stato diverso se fossimo rimasti sulle
colline a sentire sotto i piedi nudi la terra buona, a godere dei tralci che si
rinnovano ad ogni stagione. Forse ci saremmo accon­tentati di punti fissi più
semplici, meno sofisticati e perciò più dura­turi… quasi eterni. Ma
chiaramente è un altro modo di tentare di barare.  

Si può barare,
senza conseguenze mentali, in un solitario?

Forse la storia
(come la vita individuale?) è un susseguirsi di intervalli fra un nome scrit­to
con l’iniziale maiuscola e lo stesso nome riscritto con la iniziale minuscola.

                               * * *

 Esiziale,
tragico per l’umanità l’imposizione di un particolare punto fisso sul piano
collettivo. Dalle lotte tribali in cui il vincitore imponeva il proprio dio, ai
fanatismi religiosi, ai fanatismi ideologici nazisti  o a quelli tipo Khmer
Rossi, figli culturali del ’68.

Il fanatismo
accieca. E’ indice di irrazionalità. E’ indice di insicurezza sul piano
psicologico. Chi è pieno, trabocca. Non erge barriere, tracima. Chi è pieno è
disposto a mettere in gioco il suo contenuto, per un altro contenuto, tanto è
sicuro di sè. Chi è vuoto non può e non vuole mettersi in gioco. Non può
permettere che gli si guardi dentro. E’ solo un contenitore, non vuole che si
accorgano. Qualsiasi cosa è meglio del vuoto. Tutti potrebbero essere tentati di
mettergli dentro ciascuno il proprio feticcio.

I tre
protagonisti principali di Eco, passato quel periodo di esaltazione, ormai sono
solo patetici. Giocano con i computer ed hanno bisogno dello sciamano. Conoscono
le moderne teorie della comunicazione e annaspano, maldestri, nel simbolismo
cabalistico del mondo prescientifico o ascientifico. In effetti non conoscono la
scienza. Adoperano con disinvoltura gli ultimi ritrovati della tecnica alla
stregua di un aruspice che si serva della sala chirurgica d’avanguardia. La
mascherina, si sa, pro­tegge dal puzzo.

C’è da
meravigliarsi? Proprio davanti a noi, non vediamo la fila dei saccenti, alla
porta del fattucchiere casereccio? E non si sa che quando una software house si
trova in difficoltà, si mette a vendere oroscopi?

Ma si dirà: i
protagonisti di Eco non sono contadini con la Mercedes, sono intellettuali, sono
prodotti della cultura scola­stica ordinaria. Non c’è da meravigliarsi. La
cultura, troppo spesso, non è sinonimo di solida, matura concezione di vita, è
sinonimo di erudizione. Spesso erudizione scolastica. E l’erudi­zione scolastica
più diffusa ignora la scienza, soprat­tutto la scienza del  nostro secolo. 

                              * * *

Fino a
quarant’anni fa la scienza veniva considerata dalla cultura italiana dominante
come un insieme di “pseudoconcetti”, come un arsenale di tecniche senz’anima, e
senza rilievo per la compren­sione dei grandi problemi.

In effetti la
scienza è nata da un atto di umiltà. Invece di continuare la millenaria
discussione sui massimi sistemi, qual­cuno si è messo a guardare il lampadario o
la mela. Invece di continuare a indagare sulla perfezione delle stelle, si è
sporca­to le mani con le imperfette, miserevoli, polverose, fragi­li, caduche
cose della terra. Ha rinunciato (momen­taneamente) a chie­dersi  “Come si è
formato l’universo? che cosa è la materia?”  per indagare “Come cade un sasso?”.
Eppure dal modo di cadere di un sasso, si sono individuate le leggi che regolano
il moto delle stelle! Cioè dall’esame di piccole questioni ben circoscritte e
limi­tate sono state ricavate risposte a que­stioni generali.

Non si vuol certo
dire che la scienza è in grado di fornire punti fissi. Certamente no. C’è stato
un momento in cui lo si è pensa­to. Acqua passata. Passata almeno da un secolo.
Anche la fisica, scienza di riferimento per tante altre scienze, ha limitato il
suo campo di indagine (proprio in questo secolo) alla descri­zione di “modelli”
della realtà, ritenendo trop­po impe­gnativo e foriero di possibili errori
cercare di descrivere la “real­tà og­gettiva”, così come pensava Galileo.

D’altra parte non
esiste la possibilità di raggiungere un punto fisso nemmeno con pure costruzioni
mentali: è stato dimostrato, già cinquant’anni fa. Non è possibile distinguere
(stando all’in­terno di una teoria o sistema di pensiero) fra errore e verità.
E’ stata una scoperta traumatica. La logica, che incarna uno dei miti
fondamentali della nostra  civiltà, la civiltà  occidentale, sinonimo di
pensiero limpido e rigoroso, non basta per compren­dere il reale, per darci
delle garanzie, delle certezze.

                               * * *      

Siamo sempre lì.
Vorremmo volare, sollevarci sulla palude aggrap­pandoci ai nostri capelli.
Scoprire di non avere un punto fisso è come non poter disporre più del seno
materno, a cui ritornare dalle nostre prime sor­tite. A volte, nel nostro
incedere traballante,  ci rassicuriamo serrando le manine al nostro stesso
grembiule.

Ma la ricerca non
può non continuare. La ricerca di sicurezza è più forte di noi, perchè è dentro
di noi. Come il rumorino  ne “La tana” di Kafka.

                                         * * * 

 Ma allora che
differenza c’è fra chi sa di scienza e chi non sa?

Chi lavora con la
scienza dà la scalata alle idee più generali, passo dopo passo, partendo dal
campo base. Avanza per ipotesi, ma anche ipotesi a corto raggio, che servono a
individuare il punto d’appoggio per il prossimo passo: se non regge, si riporta
indie­tro il piede. E’ una ascesa lenta, ma stimolan­te, gratificante, che
impegna le migliori fa­coltà dell’uomo. Tutti gli uomini sono invitati a
concorrervi, generazione dopo generazione. Senza segreti. Le op­portunità di
avanzamento si moltiplicano con la partecipazione. La scienza più si diffonde e
più ha possibilità di rendere solida la costruzione e di avanzare. Ha dato
l’esempio Galileo, scriven­do in vol­gare.

I personaggi di
Eco si muovono (e malamente) con un’altra menta­lità. Sono fra quelli che
cercano le scorciatoie, le scorciatoie furbesche. Si lanciano su per strutture
prefabbricate, agganciate  alla meglio,  con incerte, precarie connessioni. Si
avanza  in un equilibrio instabile, funambolesco. Il crollo è certo. Assai prima
di intra­vedere la cima. Benchè qualcuno urli di averla vista la cima, più o
meno in buona fede.Spesso lavorano in proprio, in segreto. Si circondano di
mistero. C’è un motivo: per molti di essi, la conoscenza si coniuga col potere.
Vale la legge dei vasi comunicanti: il livello si abbassa con l’aumentare dei
vasi collegati.

In fondo anche il
“68 era una scorciatoia.

   
                           * * *

Però i personaggi
di Eco sono patetici non tanto perchè non sanno di scienza, ma perchè sono
fermamente convinti di lavorare con  “metodo scientifico”. In questo non sono
certo una rarità!  Anzi rientrano nell’ordinarietà (il libro è una parodia?) del
fenomeno storico attuale, diffuso soprattutto in ambienti accade­mici, per cui
ogni corpo di dottrina, che non sia pura lettera­tura, deve comunque fregiarsi
dell’attributo “scientifico”. Non si aspetti che le loro asserzioni siano
accompagnate da prove sperimen­tali o logiche! Le loro prove consi­stono in
citazioni di qualche autori­tà: fanno un uso feticistico delle cita­zioni e
talvolta (scusate­mi!) delle bibliografie.

 

Vanno avanti
così. Per essi conoscenza vuol dire interpretazione di dati. I dati possono
essere a loro volta interpretazioni di dati. E così via, con alla base ancora
una interpretazione (per essi interpretazione significa ricerca di un senso non
palese). E quale interpretazione può essere migliore di quella in cui
l’in­terpretante assume l’habitus mentale dell’interpretando? Questo metodo così
efficace nello studio di uno scritto, perchè non applicarlo anche nello studio
dei fenomeni naturali, visti da una angolatura antropologica, come segni
organizzati di un discorso di Qualcuno? 

Siamo tornati
alla prescienza,  alla magia: “il Pendolo” domina la scena “con isocrona
maestà”, si avverte “l’incanto di quel placido respi­ro”.

Galileo
descriveva la natura con il linguaggio rigoroso della matematica, scoprendovi le
leggi che Dio vi ha immesso all’atto della creazione. E Dio permette di
conoscerle: per questo ha dotato l’uomo di cervello. Ogni scoperta è una nuova
lode a Dio. Tutto lo studio della natura è un atto altamente religioso, una
preghiera a Dio.

Prima di Galileo
c’era il panteismo, l’animismo o la magia. Indagare sarebbe voluto significare 
violare il divino presente nelle cose: un atto sacrilego.

I personaggi di
Eco affrontano il non noto con la pavida sfrontatezza del sacrilego. Riaffiora
un paganesimo ancestrale. Altra prova che la svolta del ‘600 non ha ancora
permeato in profondità  la ordinaria cultura.

                              * * *

I personaggi di
Eco sono prescientifici. Possiamo irriderli per  la loro ingenuità. I personaggi
di Eco sono areligiosi. E si sa che “quando gli uomini non credono in Dio, non è
che non credano più a nulla, credono a tutto”. Si danno arie da intellettuali
moderni, smali­ziati, irriverenti. Sembrano occuparsi solo di costruzioni
rigo­rosamente logiche, sembrano volersi muovere nella razionalità di uno spazio
scandito da un trasparente reticolo di cristalline inferenze mentali. In pratica
finiscono per annaspare, avvilup­parsi, autostrangolar­si nel ciarpame, in un
groviglio di corde senza capo nè coda, in una stupida orripilante mescolanza di
significato e  simbolo, che ricorda il medioevo di Raimondo di Lullo (loro,
agnostici, pastrocchiano  ancora con significato e simbo­lo, quando, ad esempio,
la Chiesa, senza traumi, sosti­tuisce “Hoc est enim corpus meum” con le
prosaiche espres­sioni dei vari volgari della terra).

Qualcuno
(romagnolo) potrebbe dire: ” I s’è avrucid!”, e scoppiare in una risata.  Ma, a
pensarci, la risata si spegne ben presto. In effetti la loro inquietudine è la
nostra inquietudine. Essi non sono che la personificazione grottesca della
nostra inquietudine, dell’in­quietudine dell’uomo che ha valicato le Colonne
d’Ercole, coniu­gando la frenesia di Ulisse con la fredda, drammatica lucidità 
della Sfinge.   

Così abbiamo
visto (teoremi della logica) che le nostre verità mentali sono raggiungibili
attraverso processi che non possono preservarci dall’errore. Così abbiamo visto
(principio di banalità) che non occupiamo un punto privilegiato dell’uni­verso:
siamo su un  granello, che ruota attorno a un granello appena un po’ più grande,
che ruota attorno a un altro granello sperduto nell’anonima periferia di un
ammasso di pol­vere, in mezzo a tanti altri ammassi in cui non ha più senso
nemmeno ipotizzare un centro, un confine.

Ci siamo
demoliti,  sadicamente,  anche la speranza di un punto fisso!

                              * * *

Attorno a noi,
dentro di noi tutto si fa confuso, incerto. Anche il (sacro) confine fra vita e
non vita abbiamo scompaginato. La testa ci duole: l’aggiungere protesi ai sensi
ci sta sovraccaricando  il cervello di dati. Il computer, protesi della mente,
ci aiuta a conservarli, a tenerli in ordine, a riaggregarli. Ma il resto? 

E poi: “Ma perchè
il capire non mi dà pace?”

Quanto siamo
lontani dalla serena, appassionante ricerca  galileana che aveva altrove, fuori
di noi e delle cose, il Punto Fisso, e ricavava da quel Punto Fisso linfa e 
significato per  quella stessa ricerca! 

                              * * *

A me, di
provincia, da tanti anni non capitava di leggere pagine così. Specie le prime
tre del libro: mi piacerebbe chio­sarle, passo passo, per gustarle tutte d’un
fiato, pienamente, assieme, in una più larga cerchia di amici.

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