(seconda puntata)
zariLLo zarismo assolutista,
nato dal connubio fra la ferocia tartara e le elucubrazioni sottili dei
bizantini, ha trovato nell’ideologia comunista, proclamata con la certezza e la
rigidità di una fede in fase primordiale, lo strumento raffinato e
terrificante per la oppressione totale e per un progetto di conquista
planetaria.
Cambiamenti pilotati
dall’alto
La Russia zarista, come si è visto
nella puntata precedente, ha le dimensioni e la struttura di un impero con una
rigidissima fissità all’interno. La conservazione è eretta a sistema. Sulla
massa dei contadini tenuti completamente al di fuori della politica, grava una
nobiltà anch’essa non in grado di elaborare e propugnare progetti. Nobiltà e
Chiesa Ortodossa godono di enormi privilegi concessi a loro dallo zar,
detentore di ogni potere.
In questo stato di cose non
ci può essere cambiamento. A meno che sia lo stesso zar a promuoverlo, il
cambiamento. In effetti, nella storia russa, i cambiamenti più significativi
sono avviati ed attuati dagli stessi zar. Ovviamente gli zar procedono a modo
loro cioè scegliendo, per quei cambiamenti, anche tempi e modalità. Pietro I,
ad esempio, regola dall’alto, a suo piacimento, la vita dei Russi fino a
precisare il taglio dei capelli, la lunghezza della barba, la foggia degli abiti
(ovviamente i contadini devono distinguersi nettamente, anche nell’aspetto
esterno, dai non contadini: per essi barba lunga e costume tradizionale).
Fra gli zar riformatori
merita un posto particolare, ai fini della nostra riflessione, Caterina II.
Ella favorì la diffusione della cultura occidentale, compresi i modi di vita
occidentali. Ovviamente solo fra i nobili di più alto lignaggio. A corte si
imitava Versailles: si parlava francese, si discuteva di Voltaire, si passavano
serate con Diderot, si citava Montesquieu. Le idee degli enciclopedisti
liberarono il nobile (di alto lignaggio) dai pregiudizi derivanti dalla
tradizione, lo fecero frammassone, volterriano o materialista, lo armarono dei
ferri della dialettica e dell’ironia, gli fecero aprire gli occhi sul suo stato
di schiavo nei confronti dell’assolutismo dello zar e, per converso, di regnante
assolutista nei confronti dei suoi schiavi contadini. Ma tutto si fermò lì. Non
ci furono conseguenze nel sociale. Anzi. Il distacco fra l’alta nobiltà e la
gente comune si accentuò. Caterina estese la servitù della gleba anche a regioni
che fino ad allora ne erano rimaste escluse: la sua famosa prodigalità a favore
di favoriti ed amanti, presenta quest’altro men noto e lodevole
risvolto.
Con Caterina comincia ad
acquistare importanza e consistenza quella letteratura russa europeizzata di cui
si diceva all’inizio della precedente puntata. Letteratura che raramente è stata
l’espressione del popolo russo nella sua interezza, ma piuttosto la voce di uno
strato sociale, staccato nettamente dalla gente comune, strato “libero” di
pensare e di esprimersi non a seguito di una lotta, di una conquista di diritti,
ma per concessione del regnante che rimane regnante assolutista e che apre e
chiude a suo piacimento e secondo una logica di conservazione quei fiotti di
libertà espressiva che comunque non possono arrivare al popolo comune, tanto
profonda, antica e consolidata è la frattura fra quegli scrittori ed il popolo
comune. Ciò non toglie che non passi in quella letteratura quanto di più
caratteristico, genuino ed originale c’è nell’animo russo: proprio tali
peculiarità faranno di quegli scrittori personalità singolarissime nella
letteratura mondiale, personaggi sommi, eccezionali, di valore universale.
Con Caterina prende
consistenza l’intelligencija, un gruppo di persone colte (ovviamente nobili)
“libere di pensare”, anzi un gruppo di persone “deputate a pensare”.
I cambiamenti provocati
dall’alto, si sa, anche se orientati nella giusta direzione, spesso non
arrivano a tempo debito, per cui gli effetti sono diversi da quelli auspicati
o previsti a tavolino. Prendiamo il caso dell’abolizione della servitù della
gleba. Vi si arriva con lo zar Alessandro II, nel 1861. Il ritardo è enorme
rispetto ai tempi della storia. Se ne sbagliano per giunta le modalità di
attuazione. Sicché, praticamente, nessuno ne rimane soddisfatto. Non i
proprietari terrieri, per ovvi motivi. Non i contadini: dall’oggi al domani
dovettero tirar fuori i soldi per comprare la stessa casa e lo stesso orto di
cui da sempre avevano usufruito gratuitamente. Contadini e proprietari
terrieri, per giunta, proprio in quel periodo, assieme, cominciano ad
addebitare allo zar di privilegiare sfacciatamente la burocrazia e la
industrializzazione a scapito del mondo agricolo. Dell’abolizione della servitù
della gleba rimasero scontenti anche i servi che lavoravano in città: si
ritrovarono di colpo liberi, sì, ma senza mezzi, privi dei tradizionali punti
di riferimento. Contadini e servi si sentirono insomma abbandonati a se stessi.
Poteva andare diversamente? Non è pensabile che individui addestrati per secoli
alla passività improvvisino poi, a comando, la capacità di provvedere in modo
autonomo al proprio vivere.
L’abolizione della servitù
proprio perchè decisa solo nel 1861 e realizzata con quelle modalità, finì per
irritare la stessa intelligencija. Eppure da tempo essa sollecitava il
provvedimento: la servitù della gleba faceva vergognare l’intellettuale russo
nei suoi rapporti coi colleghi dell’Europa liberaleggiante, con cui, per
privilegio, gli era concesso di dialogare. La intelligencija criticò quel
ritardo, criticò quelle modalità di attuazione. Assumerà ben presto un
atteggiamento di distacco dallo zar, gli si farà a poco a poco ostile:
comincerà insomma a voltare le spalle allo zar e allo zarismo, comincerà ad
“andare verso il popolo”, secondo una scelta intrisa più di utopia che di
razionalità politica.
Un altro esempio di riforma
dall’alto: la concessione di piccoli “spazi di libertà”, mediante l’allentamento
del controllo interno. Più volte gli zar-imperatori ci hanno provato. Ma ogni
volta non appena si avverte una riduzione nella intensità della forza
repressiva centrale, ecco che comincia la diaspora delle zone periferiche,
esplodono i nazionalismi, si accende il fanatismo religioso o etnico, per cui in
tutta fretta si deve ricreare il gelo della repressione. Insomma la cappa
dell’oppressione sembra essere l’unico rimedio al disordine politico-sociale.
Solo l’oppressione, esercitata da un centro sempre in forza, placa il timore,
perenne ed angosciante, della frantumazione dell’impero. Preoccupazione
tutt’altro che infondata. Perchè? Perchè la pax zarista, imposta con la forza
bruta alle nuove regioni, alle nuove province dell’impero a mano a mano che
queste vengono acquisite, imposta con la forza bruta a chi ha altra religione o
a chi la pensa diversamente o a chi pensa semplicemente con la sua testa, non
soffoca, non riduce, non annienta le diversità: congela quelle diversità. Lo
zarismo non ha un progetto di civiltà in cui chiamare i popoli a riconoscersi,
come invece, ad esempio, avevano i Romani. Lo zarismo congela l’esistente.
Quindi conserva. Per cui appena si allenta la morsa del gelo ecco che le
diversità riaffiorano, anzi riesplodono con i caratteri del passato. Come
animali preistorici che si risveglino da un letargo, in ritardo con i tempi
dell’evoluzione. Per capire quei fenomeni è necessario leggerli con la cultura e
la mentalità del passato, dei tempi in cui è avvenuto il congelamento.
Altro esempio di cambiamento
dall’alto: la industrializzazione. La industrializzazione della Russia deriva
da una precisa scelta del potere zarista che non vuole rimanere staccato
dall’Occidente nell’industria pesante (soprattutto per ovvi risvolti militari).
E’ una industria superprotetta, in netta condizione di privilegio, concentrata,
quasi interamente, in un’area ben delimitata, ristretta.
Arriva il
comunismo
Proprio quei pochi operai
costituiranno il nerbo delle avanguardie rivoluzionarie comuniste, proprio
quell’intellighencija le guiderà, approfittando del disagio e del malcontento
che, agli inizi del Novecento, alcune innovazioni, ovviamente pilotate
dall’alto, stanno producendo nel tessuto sociale russo. L’occasione contingente
è fornita dai disastri subiti dall’esercito russo sul fronte della prima guerra
mondiale, disastri così gravi che sembrano preannunciare lo sfaldamento
dell’impero. Lenin ed il comunismo salvano quell’impero (non si salverà invece
l’impero austriaco). Lenin ed il comunismo hanno dalla loro parte, nella
conquista del potere, ovviamente gli operai ma anche e soprattutto
l’intellighencija tutta presa, galvanizzata dalla prospettiva di raggiungere
anzi superare l’altra Europa attraverso quella accorciatoia che permette di
saltare la rivoluzione borghese. Anzi l’altra Europa, a loro avviso, si sarebbe
ben presto impantanata nelle contraddizioni e negli sperperi del capitalismo,
cosicchè proprio la Russia sarebbe diventata, ben presto, a loro avviso, il
battistrada della storia, punto di riferimento e per l’Europa e per il mondo.
Il resto del paese? Il
comunismo è imposto. Come in Russia si sono imposte le innovazioni, da sempre.
La gente comune lo subisce come una qualsiasi altra trasformazione che viene
dall’alto. Potrebbe essere diversamente? La massa dei contadini, che, in quanto
a numeri, costituisce pressochè la totalità della popolazione, e che è sempre
stata tenuta fuori da ogni forma di partecipazione politica, come avrebbe
potuto parteciparvi? Non è certo la prima volta, come si è visto, che viene
imposta dall’alto una innovazione. I contadini ci sono abituati.
I contadini sono rassegnati,
da sempre. Molto spesso i proprietari terrieri agiscono nei loro territori
come principi, padroni assoluti di anime, che vendono, comprano e tormentano
pure in sperimentazioni che hanno origini le più diverse: ubbie religiose,
utopie socializzanti, riorganizzazioni cervellotiche, frutto di letture
frettolose, di teorie aberranti o semplicemente della schizofrenia.
Cosa cambia per il contadino
il fatto che alla struttura sociale che fa perno sul proprietario terriero si
sia sostituita la grande cooperativa statale? Forse che quei dirigenti, quei
funzionari non si comportano ben presto come i famigli dei nobili o comunque
come dei privilegiati? Essi vivono in dacie ben distinte da quelle del popolo
comune, frequentano loro circoli, si servono di loro negozi, hanno un loro
gergo incomprensibile per chi non appartiene a quei circoli cioè, in sostanza,
per chi non ha la tessera del partito. Danno buon esempio di comportamento
sociale riverendo ed elogiando in modo sbracato, in pubblico, chi detiene, al
momento, il potere. Più di prima del comunismo. Si teme di più, ora, e quindi ci
si mostra ancor più servili verso il potere. Sì, perchè adesso è più complicato
vivere. Non basta non oltraggiare il prete, non sparlare dello zar ed osservare
le sante tradizioni, per essere lasciato in pace. Adesso si pretende ben altro,
da tutti, anche dal povero contadino. Si pretende, anche da lui, una
partecipazione convinta, cieca, totale alle decisioni che piovono dall’alto, da
centri di potere lontani anni luce. Solo quei privilegiati, ovviamente,
conoscono le parole magiche che vanno dette al potente del momento per
ingraziarselo, per far carriera, cioè le parole d’ordine lanciate a Mosca
dall’onnipotente di turno. Loro sono i primi a sostituirle quando devono essere
sostituite (perchè a Mosca si è deciso di sostituirle), ed ovviamente si
assicurano così il mantenimento di quei privilegi che li differenziano sempre
più dalla massa.
Il contadino è sempre più
povero. Spogliato anche del campicello che il principe-proprietario terriero gli
ha sempre lasciato gestire privatamente, è ridotto in totale balia e dipendenza
dei privilegiati: solo l’aria non si è trovato il modo di somministrarla per
concessione, si dice nelle barzellette (in Cina si arriverà a regolamentare
anche i sentimenti, a precisare quando i mariti possono incontrare le loro
mogli, dalle quali vivono separati, come si vive separati dai figli). Un’altra
imposizione: non vogliono che si vada in chiesa. Una stramberia o poco più.
Come può essere visto quel divieto dal povero contadino, che solo alla domenica
può concedersi un attimo di respiro? Adesso anche la domenica, assai spesso, gli
viene imposto di lavorare: lo chiamano “lavoro volontario”.
Anche la ferma militare
continua, ovviamente, terribile, lunghissima, a sacrificare i migliori anni
della gioventù. Sì, perchè, da subito, l’esercito torna ad essere enorme,
garante primo dell’ordine nell’impero, pardon, nell’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche, e sostegno concreto alla politica estera, una politica
di espansione che ha, ora, nell’ideologia una ulteriore nuova giustificazione.
L’esercito assorbe enorme risorse, le migliori risorse umane e materiali, come è
sempre avvenuto nella Russia zarista, a scapito dell’economia generale:
l’economia, come sempre, rimarrà molto fragile, per una cattiva organizzazione
interna, ma anche per quell’esercito che la dissangua, come sempre.
Comunismo ed
espansionismo
Col secondo conflitto
mondiale il comunismo russo realizza in un solo colpo le ambizioni imperiali
degli zar ed i piani internazionalisti di Lenin. Oltre ad inglobare nell’Unione
quattro nuove Repubbliche (Estonia, Lituania, Lettonia e Moldavia), ad annettere
alla Repubblica della Russia e alla Repubblica dell’Ucraina, rispettivamente,
grosse fette di Finlandia e Polonia, a strappare al Giappone le isole Curili,
usa le baionette dell’Armata Rossa per allargare il suo dominio fino all’Elba e
fino alle spiagge dell’Adriatico, imponendo a mezza Europa regimi totalitari
ricalcati sul suo modello organizzativo interno. Per controllare quella zona
enorme, quella congerie di popoli diversi per etnie, religioni e civiltà, si
instaura un regime poliziesco, basato su una estesa, capillare struttura segreta
che non ha l’equivalente in nessun altro stato moderno o antico: si dice che vi
facesse parte, in varie forme di collaborazione, fino un adulto su otto. E’
giustificato, quel sistema di polizia, da una ragione suprema: difendere il
socialismo dal capitalismo e nello stesso tempo difendere la ortodossia
ideologica. Ovviamente il sistema poliziesco ha a Mosca il suo centro. Perchè
Mosca è il centro propulsore dell’ideologia. Da subito l’uomo che comanda a
Mosca, è l’interprete assoluto ed indiscutibile dell’ideologia, da subito
l’ideologia è un tutt’uno con la sua linea politica. Non sarà tollerata
nessuna eresia, cioè, in concreto, nessun dissenso dalla linea politica fissata
a Mosca: né in Russia, ovviamente, né nei paesi “satelliti” né (e questo è
meno ovvio) nei partiti comunisti dei paesi capitalisti. Ciò che Mosca afferma è
sacro per ogni comunista, deve essere fideisticamente accettato da ogni
comunista. Per decenni sarà così. Anche decisioni del tutto normali, banali se
non, talvolta, ridicolmente becere, devono essere esaltate, inneggiate, perfino
oggetto di poesia.
Come è potuto avvenire? Lo
zarismo assolutista, nato dal connubio fra la ferocia tartara e le
elucubrazioni sottili dei bizantini, ha trovato nell’ideologia comunista,
proclamata con la certezza e la rigidità di una fede in fase primordiale, lo
strumento raffinato e terrificante per la oppressione totale e per un progetto
di conquista planetaria.
L’espansionismo russo, col
comunismo, può spingersi ben oltre i tradizionali ambiti segnati in Europa ed in
Asia dalla – modesta! – ambizione degli zar: la strategia diventa
planetaria. All’interno della Russia, dei paesi satelliti e di tutti i
paesi comunisti, qual è l’organizzazione politica? Il modello rimane la Russia
zarista: ovunque è rigida, rigidissima la distinzione fra governanti e
governati. E’ la tessera del partito che discrimina. Non si può arrivare a
svolgere certe funzioni o solo aspirare a certi posti senza la tessera del
partito: soldati, insegnanti, burocrati ecc. a partire da un certo livello,
devono necessariamente essere iscritti al partito. Gli uomini che sono ai più
alti vertici dello stato vivono anche in zone ben distinte da quelle del popolo
comune, in tante “città proibite”: hanno preso come modello, per questa
innovazione non gli zar, ma gli imperatori cinesi. La gente comune, con i
bisogni della gente comune, è al di là di quelle mura, al di là di quei
giardini, di quelle biblioteche, di quella selva di antenne. I bisogni della
gente, ancora una volta, come sempre, vengono sacrificati: le maggiori risorse
sono destinate agli armamenti, alla sovvenzione di rivoluzioni e di partiti
“fratelli”, cioè alla consueta politica espansionistica, al mantenimento della
burocrazia di partito (che è anche di governo) da subito classe privilegiata,
gretta, opprimente, parassita. Solo ai figli di quei privilegiati ad esempio è
aperto l’accesso ai livelli più alti degli studi. Come sempre in Russia, anche
in tutti i paesi detti del “socialismo reale” è considerato pazzo chi osa
contrastare l’autorità, chi esprime opinioni diverse dalla versione o
dall’interpretazione fornita dall’autorità.
Il comunismo spegne, in
Russia, appena conquistato il potere, anche la intellighencija. Il popolo viene
schiumato degli elementi portati in superficie dalla ebollizione del periodo
rivoluzionario. L’intellettuale, in Russia, nei paesi satelliti o in quelli che
si ispirano al comunismo e negli stessi partiti comunisti dei paesi capitalisti,
deve essere un intellettuale organico, cioè funzionale alla causa ideologica,
cioè funzionale all’onnipotente del momento, a Mosca. La sua sudditanza verso
l’onnipotente di turno è totale. Ripiomba, sulla immensa Russia, il silenzio
cupo del più antico zarismo, che si estende ora anche ai paesi satelliti ed
anche ai partiti comunisti dei paesi capitalisti.
Gli onnipotenti, a Mosca, come
si succedono uno all’altro? La procedura, come del resto nella Russia zarista, è
quella della congiura. Ed ogni onnipotente, appunto perchè onnipotente, appena
giunto al potere si sostituisce al predecessore in tutti i quadri, in tutte le
statue, in tutti gli slogan e riscrive le pagine della storia dell’intero
movimento comunista, e dà un suo giudizio, ovviamente insindacabile e definitivo
sui suoi predecessori, specie sull’ultimo, cui si è sostituito.
La fine del comunismo
russo
Al crollo dell’impalcatura
comunista concorrono diverse cause. Accenniamo ad una in particolare, una fra le
più neglette: il ruolo diretto ed indiretto svolto dalle nuove tecnologie,
quali l’elettronica e l’informatica. Esse hanno consentito, come è noto, alle
informazioni e alle idee di superare i reticolati ed i muri dei confini,
rendendo materialmente possibile il confronto a distanza fra i modi di vita ed
i tenori di vita, dentro e fuori il mondo comunista, confronto che si è
rivelato dirompente. In effetti il loro ruolo è stato più vasto. Le nuove
tecnologie, si sa, hanno messo (o stanno mettendo) fuori gioco, nei paesi più
evoluti, tutti i sistemi di produzione che hanno come modello, per intenderci,
la catena di montaggio. Nella catena di montaggio l’uomo è, in pratica, un
elemento della struttura, in quanto è bloccato in operazioni ripetitive,
prevedibili e quindi regolabili fino al dettaglio, e svolge un ruolo
sostanzialmente passivo rispetto alla struttura. Il modo nuovo di
produrre invece ha l’uomo come perno, un uomo considerato nella sua interezza,
con la sua intelligenza, la sua inventiva, la sua cultura e soprattutto la sua
creatività. Cioè vengono esaltate – e sfruttate – al massimo le capacità
individuali dei singoli: le operazioni ripetitive e faticose, vengono svolte da
macchine via via più sofisticate cui quell’uomo dà intelligenza
operativa.
Il mondo comunista è
necessariamente ancorato alla catena di montaggio, ingessato in una concezione
meccanicistica dell’uomo e della società secondo cui la struttura è prevalente
sull’uomo e non viceversa. Il comunismo rivela, anche nel settore produttivo –
quello che dovrebbe rappresentare il clou del sistema – il suo enorme ritardo
con la storia, per la incapacità di evolversi e per quell’essere costretto a
rimanere ancorato all’Ottocento, il secolo in cui quell’ideologia è stata
concepita. Ne derivano, nel mondo comunista, delle assurdità che sfiorano il
ridicolo. Ad esempio il divieto dei personal computer. Il personal computer è
considerato tabù. Poteva essere diversamente? Informatica vuol dire trattamento
automatico delle informazioni. In una società che per vivere – o sopravvivere –
deve impedire la circolazione delle idee e quindi delle informazioni,
l’informatica non può che essere relegata a un ruolo di subordine ed il personal
computer che esalta la capacità del singolo di gestire in modo autonomo e
“personale” le informazioni è un aggeggio da rogo.
Un sistema produttivo arretrato
e distorto
Il sistema produttivo del mondo
comunista, cioè ad economia pianificata, basato sul centralismo, il dirigismo,
la burocrazia, i regolamenti puntigliosamente minuziosi, non può reggere il
passo dei nuovi tempi, che impongono quell’altro modo di produrre. Per giunta,
la pianificazione è spinta fino a suddividere il sistema produttivo in comparti
rigidamente separati fra loro: lo scambio di informazioni, il trasferimento
delle invenzioni e delle applicazioni da un settore ad un altro, possibile
sulla carta attraverso – previsti – percorsi burocratici, è di fatto impedito
dalla impraticabilità di quei percorsi, appunto perchè troppo burocratici.
Emblematica, ad esempio, è
la separazione fra i settori produttivi civili e militari, che esiste, un po’ in
tutti i paesi: nel mondo comunista quella separazione raggiunge tale livello di
rigidità da sfiorare, talvolta, la cretineria, ed induce uno sperpero, uno
sperpero così colossale di risorse umane e materiali che, a quel mondo sistema,
sarà fatale. Nei paesi capitalisti il costo economico di una innovazione
(comunque, in genere, enorme) messa a punto nell’ambito della ricerca militare o
scientifica, spesso, almeno in parte, è recuperato attraverso una pronta
applicazione in ambito civile: ad esempio, la tecnologia dei tubi di calore
progettati per il raffreddamento dei satelliti ha trovato applicazione nei
comuni forni da cucina, per cuocere in modo uniforme il pollo. Nel sistema
comunista invece, quanto di nuovo e di moderno viene prodotto in settori
strategici, e perciò avanzati, come quello militare o spaziale (a costi
economici pure enormi) non può essere trasferito nel settore ordinario
dell’industria o del commercio, ammesso che lo si voglia, per i tempi
assurdamente dilatati della burocrazia: cosicchè il costo di quelle innovazioni
non può, in pratica, essere recuperato.
Proprio la produzione degli
armamenti, organizzata in quel modo, determina, come causa contingente, il
collasso dell’impalcatura comunista. Per tutto il periodo della guerra fredda,
praticamente dalla seconda guerra mondiale in poi, il mondo comunista (e
soprattutto la Russia) ha investito somme enormi negli armamenti, per quel
confronto serrato e senza tregua con l’Occidente. Ma mentre nell’Occidente la
corsa agli armamenti non ha frenato lo sviluppo economico, anzi, in un certo
senso, ne ha favorito i processi di innovazione, nell’Unione Sovietica e, in
parte, nei paesi satelliti, quei costi, costi puri, senza pratica ricaduta
sull’economia, finiscono per dissanguare, strangolare l’economia. Lì infatti
anno dopo anno quei costi salgono fino a raggiungere un livello insopportabile:
i militari arrivano a spendere il 30% del prodotto nazionale lordo del loro
paese, si accaparrano perfino il 70% dei quadri tecnici del loro paese.
A un certo punto, nel mondo
comunista, la situazione si fa insostenibile. Ci si comincia a render conto. In
ritardo ovviamente. Troppo tardi. Come quasi sempre del resto, quando ogni
trasformazione deve venire dall’alto. Come uscirne? Si tenta la strada più
facile, quella che sembra essere meno dolorosa. Vista la impossibilità di far
crollare il sistema capitalistico o di acquistare nei confronti di quello una
superiorità militare che non lasci dubbi sul risultato di un eventuale
conflitto, si pensa di guadagnare tempo venendo a patti. In effetti l’Unione
Sovietica si trova (forse) in stato di superiorità militare nel settore degli
armamenti tradizionali, ma anche, secondo alcuni esperti, in quello
missilistico e nucleare (almeno in termini quantitativi).
Da notare che anche il modo
di armarsi è diverso nelle due parti che si fronteggiano. Mentre in Occidente
costruita un’arma, la si modifica e rimodifica in continuazione investendo gran
parte delle risorse nella ricerca, in Russia prevale una logica di quantità.
Quantità spaventose, che appaiono, talvolta, derivanti da scelte cervellotiche.
Ad esempio col quantitativo di armi nucleari stivato negli arsenali russi si
potrebbe distruggere la terra intera, non una ma quaranta volte.
La Russia, quando anche i
militari sono stati costretti (costretti dai fatti) a prender atto che
l’economia generale del paese ha il fiato corto e non consente più il
mantenimento di quel ritmo nella corsa, la Russia propone il negoziato: un
disarmo parallelo. L’Occidente accetta il dialogo. Con scarsa convinzione. Le
difficoltà relative ai controlli sembrano insormontabili. Dicendosi ingannato, a
un certo punto l’Occidente cambia strategia: comincia a sbandierare ai quattro
venti la intenzione di investire somme enormi in armamenti sofisticati e
costosissimi per creare uno scudo spaziale che lo protegga da un eventuale
attacco missilistico: in pratica l’Occidente dice di volersi assicurare la
possibilità di “sopravvivere” ad un primo eventuale attacco e quindi la
possibilità di contrattaccare. La Russia che ha impostato tutta la sua
strategia militare su un primo decisivo attacco offensivo non sarebbe più in
grado di distruggere il nemico e, d’altra parte, non potrebbe dotarsi, di un
analogo sistema di protezione perchè il suo sistema economico ha già il fiato
corto, è ormai vicino al collasso.
La Russia che ha sacrificato
per decenni il benessere del suo popolo per costruire quegli armamenti, di
colpo si trova quasi “disarmata”. Di qui l’inizio della fine come
superpotenza militare: vacilla il sistema di controllo, si ammorbidisce la
forza repressiva, tutto il sistema si squaglia e con esso quel comunismo e, con
quel comunismo, anche il comunismo tout court che con quel modello si è
identificato.
Da notare, per inciso, che
l’Occidente, in effetti, ha “bluffato”: lo scudo spaziale non era nemmeno un
progetto, era poco più di una enunciazione fantascientifica in quanto a
fattibilità ed a costi economici.
La fine del comunismo segna la
fine della Unione?
Crollerà col comunismo anche
l'”impero russo”, dato che non è più pensabile la restaurazione della cappa del
terrore e si è ormai definitivamente sbriciolato il cemento
ideologico?
Quello che spaventa l’Europa
ed il mondo è un processo di destabilizzazione che induca fenomeni di violenza,
di intolleranza, che riporti in Europa tensioni e scontri che da più di un
mezzo secolo si ritenevano ormai relegati alle aree dei paesi sottosviluppati.
Mentre nel mondo occidentale
il mito della nazione Stato è caduto da tempo ed ha preso forma una cultura in
cui la individualità prevale sull’identità collettiva (si sono perdute sì le
certezze ma con esse anche le rigidità che le accompagnano) nell’impero russo,
col disgelo è il passato che ritorna, un passato che si presenta, per molti di
quei popoli, con il fascino del nuovo. Ritornano le comunità chiuse. Potrebbe
essere diversamente? Molte di quelle genti non hanno mai conosciuto la
rivoluzione borghese, non sono mai state nazione, non hanno disciolto nella
ragione, nel diritto e nella politica il legame primordiale della collettività,
ed i costumi, gli antichi costumi conservati integri nel congelamento, impongono
ancora all’individuo regole che hanno una forza ancestrale: sono regole che
pietrificano l’individuo fino ad indurlo a sacrificare la sua sopravvivenza a
favore di quella collettiva.
Gli imperi non costituiscono
più una risposta alla ricerca della sicurezza e del benessere. Gli imperi sono
giunti al capolinea della storia. La sicurezza ed il benessere oggi sono
ricercati nell’ambito di intese e di strutture create su nuove basi, come è
realisticamente possibile auspicare nell’era del villaggio planetario. Anche la Russia deve cominciare a riconoscersi in una immagine più realistica
di sé: come è già avvenuto per la Gran Bretagna, come è già avvenuto per
l’Austria. Potranno l’Unione Sovietica e tutta l’ex-area comunista trasformarsi
senza la violenza che in genere accompagna il dissolvimento delle aggregazioni
imposte con la forza?
Il problema principe è quello
delle frontiere. Le frontiere esistono: le ha create la storia. Sono una realtà.
Non si può che prenderne atto, accettarle. Accettarle perchè sono giuste?
Diciamo: le frontiere non esistono perchè sono giuste, ma “sono giuste” perchè
esistono. Il tentare di modificarle per renderle “veramente giuste” sarebbe
riprecipitare nella vecchia logica: quella delle guerre, dei pogrom, delle
distruzioni ecc. che hanno in continuazione ridisegnato la geografia politica
senza mai creare frontiere “giuste”.
C’è un’altra strada: prendere
atto di quelle frontiere, lasciate così come sono e, da subito, darsi da fare
per creare le condizioni che rendano permeabili, lievi quelle frontiere, fino,
in pratica, ad annullarle – come oggi succede nell’Europa occidentale –
esorcizzando così gli antichi demoni catastali. Sarà un’operazione lunga. Si
tratta di cambiare un modo di ragionare, un’abitudine di pensiero: non lo si
fa “per decreto”. Il processo, al contempo politico, culturale e sociale, non
può non essere lento, faticoso, graduale. Occorre tempo dunque, ma anche mezzi
politici ed economici perchè quei popoli possano fronteggiare, da subito e con
un approccio selettivo e realistico, le varie emergenze. Quei mezzi li dovrà
fornire l’Occidente. Nel frattempo in Occidente, conosciuti meglio quei popoli,
si farà strada una nuova fiducia, acquisterà consensi nelle menti e nei cuori
un processo di unificazione europea più vasta, prolungata oltre i vecchi
steccati, fino ad inglobare la stessa Russia. Davanti ad una concreta
prospettiva trasnazionale, i nazionalismi si stempereranno e perderanno la loro
rigidità a favore di una convivenza fondata su regole nuove, quelle del
villaggio planetario, anzichè le regole del passato, frutto tipico delle
comunità chiuse.
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