RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI (terza puntata)

RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI (terza puntata)

 RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI

(terza puntata)

Sottotitolo:
L La fine del comunismo era già segnata dal  superamento della teoria
marxista, una teoria elaborata a metà dell’Ottocento, sotto gli influssi di una
scienza impregnata di determinismo meccanicistico.

Il comunismo,
con le sue punte massimalistiche, ha influito negativamente anche sulla nostra
società.

 

 

Il comunismo è crollato. Il fatto
che il comunismo sia stato realizzato per primo in Russia, uno stato enorme
avente la struttura di un impero, ne ha favorito senz’altro la diffusione, ma
lo  ha pure vincolato a un modello  funzionale a quello stato, più in linea con
la tradizione organizzativa di quello stato, che con la teoria marxista. Quel
modello diventò ben presto, agli occhi del mondo, il comunismo tout court. Ed il
legame fra Russia e comunismo divenne così profondo,  che anche il loro destino
si è fatto comune.

 

Che sarebbe avvenuto se quel
legame non ci fosse stato? Se il  comunismo  non si fosse  identificato così a
lungo con un modello così grossolanamente sbagliato?

 

Riandiamo alle origini del
comunismo, alla teoria marxista. E proviamo ad estraniarci  da quella
realizzazione storica che ha finito per segnarne (definitivamente?) il
destino.        

Il marxismo nasce verso la 
metà dell’Ottocento. Proprio quando,  sui  campi tradizionali della cultura,
prende il sopravvento, in modo  decisivo, la scienza. La scienza è una materia
che per millenni ha vivacchiato ai margini degli interessi degli intellettuali.
A partire  invece dal Seicento, quasi all’improvviso, comincia a crescere a
crescere con un ritmo di sviluppo via via più veloce fino a divenire frenetico.
Già nell’Ottocento è in grado di ammaliare, coi suoi metodi e coi suoi
risultati, l’universo culturale. Essa parte da dove l’antichità classica si era
fermata. I Greci erano stati maestri insuperabili nell’edificare rigorose
costruzioni di pensiero. Basta pensare,  ad esempio, all’opera di Euclide, in
geometria: il più bel monumento creato dal genio umano alle proprie capacità di
raziocinio. Euclide,  partendo da una premessa costituita da  una manciata di
affermazioni,  ha sviluppato, con pure inferenze mentali, un sistema  che dà
spiegazione di tutte le proprietà delle figure: il disordine e la 
frammentarietà in cui venivano proposte, in precedenza, le conoscenze in questa
materia, vengono sostituiti da una costruzione razionale in cui ogni frammento
di quelle conoscenze,  trova una precisa  collocazione ed una  oggettiva
giustificazione, dimostrata con chiarezza e rigore  inusitati.

 

La scienza, per un
intellettuale dell’Ottocento, si presenta come una costruzione di pensiero quasi
altrettanto  solida e suadente, come un sistema di proposizioni coerente ed
efficace, in grado di descrivere e  spiegare i fenomeni della natura, in modo
ritenuto esaustivo e definitivo. Non solo. La scienza fornisce all’uomo la
possibilità concreta di dominare i fenomeni della natura. In conclusione, cadono
i segreti, cadono i misteri che hanno accompagnato l’uomo dai primordi, e  si
affacciano potenzialità nuove, concrete, immense.  L’uomo si sente  dio. “Dio?
Un’ipotesi inutile” diceva Laplace.

    

Che c’entra la scienza col
marxismo? Il marxismo fa da subito riferimento alla scienza. Fonda ogni
affermazione su  un richiamo continuo e martellante al cosiddetto “metodo
scientifico”. Si propone all’attenzione delle genti in stretta simbiosi con la
scienza quasi che con essa fosse un tutt’uno, quasi che  rifiutare il marxismo
significhi automaticamente rifiutare la scienza e quindi rifiutare il progresso
e quindi assumere un ruolo antistorico perciò perdente.

 

 

Digressione sulla scienza    

Allora soffermiamoci ancora
un po’ ad analizzare la scienza ed il modo di  procedere della scienza, vista 
questa stretta attinenza col nostro argomento. La scienza sorge nel Seicento,
quando si comincia a descrivere la realtà fisica con il linguaggio della
matematica: osservare un fenomeno, individuarne le entità in gioco, agganciare a
quelle entità  dei numeri procedendo alla loro misura, scrivere il legame
matematico che lega questi numeri, cioè la formula. Quella formula  è
interpretata come “legge” scientifica:  in pratica è (soltanto) una 
affermazione in linguaggio matematico.

 

A poco a poco la scienza esce dai
circoli ristretti della cultura,  fino ad interessare anche l’uomo comune,
attraverso le innovazioni prodotte dalla tecnica.


 

La tecnica,  nell’antichità, è
stata  snobbata dagli intellettuali, alla pari di tutti i lavori manuali,
disprezzati come servili. La tecnica nasce, in pratica, nel Medioevo, e si
sviluppa poi, con  rapidità, nel Rinascimento.  Ma rimane ancora  confinata nel
laboratorio dell’artigiano, figura a mezzo fra l’operaio e l’artista.

E’ con l’avvento della scienza che
si verifica il grande salto. La tecnica  entra nello studio dell’ingegnere.
Assurge, cioè, a speculazione intellettuale: progettazione  e calcoli poggianti
sulle leggi fornite dalla scienza. Di lì verranno le macchine. Le macchine, nel
giro di qualche secolo, liberano l’uomo dalla fatica fisica del lavoro muscolare
– una maledizione biblica – e poi  anche dalla fatica mentale del calcolo
numerico. Va da sé che, in concomitanza col progredire della scienza e della
tecnica, si assiste pure a una crescente – e comprensibile – enfatizzazione del
metodo scientifico. Ed è pure ovvio che quel metodo, rivelatosi così produttivo
nello studio della natura, si tenti di trasportarlo un po’ ovunque nei vari
settori della cultura, ovunque si eserciti la speculazione dell’uomo.

 

Nell’Ottocento soprattutto.
Di fronte a quella enorme accelerazione del progresso, sull’onda di quei
successi, il metodo assurse a teoria applicabile dovunque e comunque. Si diffuse
insomma la tendenza  a considerarlo come  infallibile strumento di conoscenza. 
In quel contesto culturale,  sotto l’influsso dell’idealismo hegeliano, sorsero
teorie, come il marxismo, che avevano la presunzione di aver individuato le
regole in base alle quali  organizzare le comunità degli uomini per assicurare
agli  uomini la “felicità”: un ritorno alla mitica età dell’oro, non più oziosa
fantasia di poeti, ma obiettivo concreto di un processo da portare avanti
seguendo una “legge scientifica”, cioè un percorso ritenuto “infallibile” come
infallibile è ritenuta in quei tempi la scienza.

 

 

Limiti del metodo
scientifico

In effetti il modo  di
procedere messo a punto per lo studio della realtà fisica non  può essere
applicato sic et simpliciter in altri campi  di indagine e di ricerca dell’uomo.
Intanto non è applicabile nei campi ove si lavora con enti non suscettibili di
misura (è con la misura che si ricavano i numeri, senza numeri non c’è
matematica e quindi non c’è legge scientifica cioè non c’è scienza).  Non solo.
Anche nei campi ove le misure sono possibili l’applicazione del metodo non è
automatica. Si tratta di un’operazione complessa. Perché la realtà – quella 
reale, non quella pensata – è comunque complessa.  Per applicare il metodo
scientifico, occorre  ridurne la complessità, procedere ad un’operazione di 
semplificazione, costruire un modello. E’ quel modello che viene matematizzato.
In pratica, nell’applicare il metodo scientifico occorre fare delle
semplificazioni, delle scelte sulle entità coinvolte. Scelte e semplificazioni
che possono pregiudicare la validità dei risultati. Cioè il modello potrebbe non
rappresentare compiutamente la realtà in oggetto. Di conseguenza le affermazioni
ricavate dal modello vanno interpretate e passate al setaccio del riscontro
oggettivo della realtà prima di accettarle come affermazioni sulla
realtà.

In conclusione, la verifica
attraverso l’esperimento diventa essenziale, come, del resto, la ripetibilità
dell’esperimento.

 

La scienza, in pratica, per non
compiere errori, si autolimita. Restringe il suo campo. Dichiara di essere in
grado di rispondere solo a domande che si possono porre come risultato di un
esperimento (e  questo esperimento deve essere  ripetibile).

La revisione parte  dalla fisica,
agli inizi del Novecento (d’altra parte era stata proprio la fisica, nel
Seicento, a segnare l’inizio concreto della scienza). I fisici si accorsero ben
presto che il loro sistema non descrive la realtà, ma un modello della realtà e
che le leggi fisiche non hanno un valore assoluto, ma il loro campo di
applicabilità è limitato al campo di validità del modello. L’evolversi delle
conoscenze comporta, in genere,  la creazione di nuovi modelli, e quindi la
enunciazione di nuove teorie.

 

In conclusione ci si accorge che
anche le leggi scientifiche sono un prodotto della storia. Ne deriva che  gli
scienziati  non pensano più in termini di verità assolute e definitive: 
costruiscono modelli interpretativi basati su scelte sostanzialmente ipotetiche
che necessitano di una verifica sperimentale che le confermi o le smentisca. Si
tratta di una svolta di enorme rilievo nella storia del pensiero, rispetto alle
pompose sicurezze dell’Ottocento: non esiste una conoscenza stabile e
assolutamente sicura, mediante la quale l’uomo può scoprire l’assoluto,
raggiungere  verità incontrovertibili e definitive, toccare la struttura
immutabile della realtà. Chi lavora in campo scientifico, a partire almeno dal
Novecento, ne ha piena consapevolezza: avanza con lo stato d’animo di chi ha
bisogno di essere rassicurato ad ogni passo attraverso  una  verifica
sperimentale che lo confermi o lo smentisca. 

 

Un anacronismo
colossale

 Il marxismo è nato prima di
quella svolta. E’ nato nella prima metà dell’Ottocento, quando era diffuso quel
primo (enfatico) modo di vedere la scienza. E si è proposto come teoria
incontrovertibile, come conoscenza assoluta, addirittura, non della realtà
fisica ma  della storia, dei rapporti umani, campo nel quale il metodo
scientifico inteso come strumento di indagine, è certamente inadeguato, in
quanto mancano le condizioni fondamentali per la sua applicazione. Ad esempio è
difficile individuare le entità necessarie e sufficienti a una descrizione
completa ed esauriente, e quelle entità, spesso, sono di ardua o improbabile
misurazione. Marx, quando formula la sua teoria, in accordo coi suoi tempi, non
è mai nel dubbio, non dice mai “forse”, mai “probabilmente”, come ha fatto
recentemente osservare Lucio Colletti. Non pensa certo, Marx,  di sottoporre la
teoria  a esperimento. Marx da  una parte riconosce il carattere storico della
realtà, ma dall’altra enuncia una teoria come conoscenza incontroverbile e
assoluta delle leggi che regolano la storia.

 

Meraviglia non il fatto che Marx
abbia quel concetto  di scienza e che elabori tale teoria. Meraviglia piuttosto
che quella teoria, frutto di una cultura dominata da  una siffatta  concezione
di scienza sia stata attuata  quando nel mondo scientifico quella concezione di
scienza era stata già sostituita. Il comunismo, insomma,  ha continuato a
riferirsi a un metodo scientifico  che nel mondo scientifico non c’era più.

Sotto questo aspetto il comunismo
‘reale’ è risultato essere un enorme anacronismo.   Come si spiega? Quella nuova
impostazione della scienza è recepita dai non scienziati non subito, cioè
impiega  tempo a diffondersi negli altri campi della cultura.  Alla base ci sono
difficoltà oggettive che danno ragione di quella lentezza. Dopo il Seicento le
idee passano con più difficoltà che in precedenzada un campo all’altro della
cultura, proprio per la divisione delle culture cominciata  allora. Insorgono le
specializzazioni.

 

Nel caso dell’Italia si può
parlare di ritardo. In Italia la scienza è relegata dall’idealismo a un ruolo di
subordine rispetto  alle altre forme di cultura. Allora l’uomo di cultura,
privato di una  riflessione critica ed aggiornata sulla scienza,  tagliato fuori
dal dibattito che, oltralpe, invece si sviluppa, continua a macinare la vecchia
concezione di scienza positivista dell’Ottocento. Insomma perdura, in Italia più
che altrove,  un’idea di scienza fornitrice di verità assolute, un’idea di
metodo scientifico comunque infallibile in quanto scientifico. Ciò concorre a
far sì che gli intellettuali italiani aderiscano alla ideologia marxista in
numero ben maggiore che oltralpe, e  con un atteggiamento mentale assai meno
critico che oltralpe.

 

Certamente se il marxismo fosse
stato attuato, come prima volta,  “in via sperimentale” – magari in uno stato di
dimensioni più ridotte – non avrebbe  avuto poi tale drammatica risonanza il suo
fallimento. Si sa bene come è andata: il primo laboratorio, se così si può
dire,  fu una entità aggregativa umana dalle dimensioni di un impero. E lì si è
proceduto alla messa in pratica della teoria non come verifica cioè  non con la
mentalità dello scienziato moderno  che convive col dubbio ed è aperto ad ogni
risultato, ma all’applicazione  della teoria con la terribile e temibile
sicurezza  di chi ha scoperto finalmente il vero.

 

Mai, prima,  era capitato nella
storia dell’uomo che all’interno di uno stato venissero sacrificate tante vite
umane (20 milioni  di persone solo ai tempi di Stalin) per la realizzazione di
un progetto di organizzazione sociale elaborato a tavolino. Vittime, si badi
bene, non di guerre, di disastri naturali, di epidemie:  di un esperimento
semplicemente sbagliato. Dopo, sì, è capitato ancora. Basta pensare ai cumuli di
teschi della Cambogia. 

 

Il comunismo
nostrano
 

Anche nella nostra  realtà, il
comunismo ha influito e non poco. Ha influito attraverso il largo numero di
intellettuali che a quello schematismo ideologico hanno ispirato il proprio
agire civile e, talvolta, addirittura la propria condotta personale. Abbiamo
visto anche qui forze vive, vitali autoimprigionarsi  in quell’ideologia,
logorarsi nella ripetizione di slogan forgiati, spesso, su puri bizantinismi o
nella continua rincorsa di  nuovi modelli.

Abbiamo visto persone accanto a
noi aderire alla ideologia marxista,  come teoria globale ed assoluta per
l’uomo. E le abbiamo poi visto, quelle persone,  peregrinare alla ricerca di un
modello plausibile di realizzazione di tale teoria: dalla Russia alla Cina,
dalla Cina all’Albania, dall’Albania a Cuba, quando   il vecchio modello si
faceva insostenibile, quasi sempre a seguito di eventi tragici che mettevano
crudelmente a nudo la differenza fra il progetto-sogno e la drammatica realtà. 
Ed ogni volta  ripetevano la tragicommedia dell’autocritica e della pubblica
adesione con il consueto e (ormai rituale) corredo di entusiasmo fideistico. 

Differenze fra chi rimase
attaccato al primo modello, quello russo, o chi lo abbandonò per seguirne altri?
Negli uni e negli altri si ritrovava la stessa intolleranza, quasi il disprezzo
verso chi camminava per altre strade o verso chi, avendo scelto quella stessa
strada,  rimaneva indietro di qualche tappa.

 

Gli uni e gli altri  avevano
questo in comune:  si consideravano avanguardie di un nuovo mondo. Si erano
assegnati il ruolo di mai^tre-à-penser, nella presunzione di sapere dove sarebbe
andata la storia. Nel concreto? In concreto disdegnavano la fatica del risolvere
problemi  reali, i problemi della vita così come si presentano. Tanto da dare
l’impressione di rifugiarsi nella prassi comoda e facilona del “tutto o niente”,
per  nascondere, sotto la coperta del massimalismo, una sostanziale incapacità e
una strutturale pigrizia mentale a studiare ed affrontare la realtà. Di qui il
disprezzo per il concreto, per l’intervento sul quotidiano, il rifiuto della
esperienza da fare in proprio, di guardare le cose  che si vedono e si toccano
per dedicare tutte le energie ai grandi, irrealizzabili piani strategici, alle
teorie che (in un futuro indefinito) avrebbero portato alla “città del sole”.
Come in tutte le ideologie, anche qui, essi amavano parlare di concetti generali
tipo “salvezza dell’umanità”, e trascuravano l’impegno di aiutare l’uomo
singolo,  concreto, quello  della porta accanto, fino, talvolta, a sfruttare,
con malcelato cinismo, il suo problema per accomunarlo ad altri problemi in modo
da accelerare l’avvento della trasformazione radicale dove tutti i problemi
avrebbero trovato soluzione.

 

La loro realtà non era quella
reale, quella vera che si acquisisce guardando direttamente nel canocchiale
galileano. La loro era una realtà mentale, frutto di interpretazioni di
interpretazioni. Come il Simplicio galileano si rifugiavano, pigramente, in
qualche  rassicurante e comodo “ipse dixit”.

Guardavano la società ma non lo
vedevano. O, meglio, la vedevano deformata dagli  schemi predefiniti dalla
teoria: teoria rigida, dogmatica,  assunta come una fede. Mentre il mondo si
avviava al superamento del lavoro manuale, ripetitivo, subalterno, per esaltare
la creatività individuale, l’imprenditorialità della intelligenza, essi
sognavano una società regolata dagli schemi propri dell’età della catena di
montaggio, quasi che i bisogni da soddisfare fossero ancora  quelli primari
della sopravvivenza, della quantificazione dell’orario di lavoro. E
pontificavano come depositari unici di una intelligenza da trasferire alle
“masse”, in termini di progetti, di valori per quella società da costruire
radicalmente nuova, tutta guidata da loro (disse giorni fa alla televisione una
donna albanese: “Abbiamo passato la vita senza  poter mai scegliere nulla,
nemmeno un paio di scarpe, un ciondolo…”). 

 

In effetti essi rifiutavano di
riconoscere alla gente una soggettività autonoma da quelle loro certificazioni
di “santoni della cultura”. Non si rendevano conto che la gente, la gente comune
era andata arricchendosi  di una quantità di beni, di informazioni, di
opportunità che aveva determinato una sempre più alta coscienza di sé, della
propria dignità e del proprio valore. Insomma la gente, la nostra gente,  era
ormai in grado di ragionare con la propria testa. La gente era pronta alla
democrazia (loro, i profeti della storia, hanno continuato a macinare
bizantinismi, a parlarsi addosso,  a perdersi in discussioni da sesso degli
angeli).

 

Certo la democrazia è più
difficile. Non c’è una strada già segnata su cui forzare il cammino degli
individui. Ogni decisione, in democrazia,  porta con sé il tormento della scelta
e il dubbio della reversibilità: tornarci sopra non è un dramma, perché la
storia non si svolge in una unica direzione (come avviene del resto proprio 
nella scienza, la scienza moderna, che non attribuisce alle proprie leggi un
valore assoluto, ma le enuncia e le accetta nella loro storicità, e di questa
storicità  ha maturato piena consapevolezza).

 

In una società democratica bisogna
partire dalla autonomia di giudizio dei singoli, dalla personalità dei singoli e
– perché no? – dagli interessi dei singoli ed attraverso la logorante fatica del
confronto costruire il consenso necessario perché i sentieri individuali
diventino strada, la strada comune che va nella direzione faticosamente scelta
in comune. La democrazia si esercita sui bisogni veri, cioè quelli attuali,
della società attuale. La società attuale è ben diversa da quella
dell’Ottocento. Basta pensare ai  bisogni diversi, ai diritti diversi. Ad
esempio il diritto di fruire pienamente della cultura, il diritto di realizzare 
la propria personalità anche attraverso le scelte libere dell’imprenditorialità
che fa leva sulla intelligenza e sulla creatività, cioè, in sostanza,  il
diritto di emergere per le proprie specifiche peculiarità senza necessità di
passare attraverso i canali del potere o i condizionamenti del
capitale. 

 

I guai del
massimalismo

Il comunismo non era in grado di
interpretare i nuovi bisogni, i nuovi diritti. Ed ha finito per rallentare  lo
sviluppo addirittura anche nel sociale. Infatti, bloccando tante forze
nell’attesa  di  una mitica rivoluzione (rivoluzione che come si è visto sarebbe
stata comunque da retroguardia), ha impedito a lungo il costituirsi di
maggioranze politiche riformatrici e quindi, di fatto, ha favorito la
conservazione.

 

Anche noi che ci siamo sempre
battuti per programmi di riforma, cioè per cambiare dal di dentro la società, 
ci siamo trovati minoranza. Avremmo potuto lottare assieme a loro. Avremmo
potuto, assieme,  costituire maggioranza. Non è stato possibile. Loro hanno
preferito, tutti presi dai loro miraggi, dileggiarci, accomunarci nel giudizio
ai  “reazionari”. Così che, quella dispersione di forze, ha finito per favorire
i reazionari veri. Lo diciamo non  per un becero “avevamo ragione noi”, ma come 
rammarico per l’occasione perduta, per il tempo perduto nell’evoluzione della
società.

Noi stessi siamo rimasti
emarginati all’interno  nelle nostre organizzazioni, fino al punto che abbiamo
preferito ritirarci – anche questo è stato un errore – per evitare di
comprometterci sul piano individuale in scelte che non potevamo
condividere.

 

Il danno arrecato dal massimalismo
inconcludente è stato gravissimo. Le conseguenze non sono finite. Sta
riemergendo un liberalismo anacronistico. Un liberalismo di preoccupante
strafottenza, da padrone del campo,  vincitore assoluto. Tanto che  qualcuno
comincia a dire che “la storia è finita”, perché il capitalismo ha vinto,
definitivamente. Qualcuno dice  che non c’è più contesa, che tutti devono
riconoscersi nel nuovo stato di cose. Il libro di Francis Fukuyama, “La fine
della storia e l’ultimo uomo”, è  best seller mondiale. Anche vecchi
massimalisti – e non pochissimi – si sono aggiunti al coro. Anzi nel nuovo coro
tendono a distinguersi (quante volte è avvenuto nella storia!), cantando più
forte. Come le monache e i frati dei racconti medioevali che, una volta usciti
dai conventi, si precipitavano nella lussuria più sfrenata, senza nemmeno i
vincoli, i ritegni del comune pudore naturale, così una volta vista crollare
quell’ideologia si sono buttati nel corrotto mondo degli affari con una sete di
guadagno inusitata, indegna di società civile. Il danaro è il nuovo dio cui
tutto sacrificare, il nuovo vitello d’oro (fra l’altro, più luccicante
dell’ideologia).

 

Ci si ritrova, così,  ad essere
dileggiati ancora una volta  da quelle  stesse persone,  convertite alla nuova
cultura. Persone che arrivano, talvolta, a fare un uso disinvolto  delle risorse
pubbliche e del potere politico. Ancora una volta  si meravigliano che non le
seguiamo, e si meravigliano che ci meravigliamo.

 

Il crollo del comunismo, avvenuto
sotto forma di fallimento totale, ha lasciato, fra l’altro, senza rappresentanza
e senza voce gli emarginati. Gli emarginati ci sono ancora. Sono quelli
impossibilitati a seguire il ritmo frenetico della corsa. La velocità  si è
alzata. I governi tendono a regolare la loro azione su chi è più veloce. Lo
sfruttamento e la ingiustizia rimangono. Anzi  si accentuano. I soliti 
problemi: l’emarginazione culturale e politica; la scuola insufficiente,
nonostante l’ubriacatura di risorse; le carenze nei servizi sociali (anziani,
bambini svantaggiati,   singoli o famiglie in difficoltà…); la strapotenza di
chi detiene il potere; il sindacato che continua a cogestire il potere, anzichè
esercitare funzioni di controllo;   il potere che vende favori, che vende come
favore anche il diritto. C’è una carenza assurda dei canali di informazione e di
comunicazione. C’è la mancanza di democrazia reale: le  alternanze al potere
sono più frutto di congiure di palazzo che traduzione di una volontà politica
espressa dalla gente. Manca  la individuazione di valori  da additare ai
giovani. Per i più fragili c’è la tentazione dell’alcol, della droga. Per tutti
quella del guadagno facile, del guadagno non frutto di lavoro,  che  ottunde le
menti.

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