RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI (come la Russia ha segnato il comunismo)

RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI  (come la Russia ha segnato il comunismo)

RUSSIA, COMUNISMO E DINTORNI

(come la Russia
ha segnato il comunismo
)

Nella nostra prima gioventù ci
siamo attaccati alla letteratura russa con l’ingordigia di chi finalmente può
succhiare a sazietà. Ci spingeva una interna tormentosa  voglia di crescere. Ci
eravamo accostati ad essa quasi di sotterfugio, quasi in atteggiamento di chi
compie un atto dal sapore trasgressivo (come cambiano i tempi!). I classici
scolastici ci andavano stretti. Della letteratura moderna italiana o straniera
non c’era quasi traccia nelle nostre paesanissime biblioteche. Oggi quei libri
di autori russi, Dostoevskij, Gogol, Cechov, Tolstoj, sono, nel nostro studio,
nella fila dietro. Ci riappaiono, fanno capolino col discreto inconfondibile 
colore della BUR, quando preleviamo il libro davanti: libro certamente più
decoroso, dalla copertina telata. Anche davanti c’è qualche libro russo. Ma di
altro tipo, anche se degli stessi autori. Libri che ci erano sfuggiti, che non
ci avevano interessato in quella stagione della vita. Libri che abbiamo
cominciato ad amare più tardi. Ormai sempre più spesso ci sorprendiamo a 
riaprirli per gustarli e rigustarli  con un piacere sottile che non si addice
all’età giovanile: “La steppa”  di Cechov, “La morte di Ivan Il’ic” di Tolstoj.

Attraverso la letteratura dunque
cominciammo a conoscere  la Russia. Ad amare la Russia. I più recenti “Il dottor
Zivago” di Pasternak ed “Una giornata di Ivan Denisovic” di Solzenicyn  non ci
hanno meravigliato. Non  hanno aggiunto gran che a quel che già sapevamo sotto
l’aspetto letterario. Ma una profonda tristezza, questo  sì. Ci hanno fornito la
prova, la drammatica prova che in Russia ben poco  era cambiato. Che ancora la
gente era costretta a vivere e pensare come secoli prima. E ciò nonostante il
comunismo. Anzi proprio il comunismo ha determinato quel ritardo, ha inguaiato 
la Russia, come ha detto recentemente Boris Eltsin,  nelle  pastoie di una
ideologia ormai vecchia di più di un secolo. 

Come è potuto
succedere?

La responsabilità è 
riconducibile, certamente, alla cultura europea, a una frangia della cultura
europea. Quell’esperimento di società artificiale fu  teorizzato in un ottocento
in cui vigeva una certa concezione di scienza e si cominciò a realizzarlo, per
ironia della sorte, nei primi decenni del novecento, proprio quando quei
concetti di scienza, negli ambienti più avanzati, venivano già ritenuti superati
e ben presto furono definitivamente abbandonati anche dalla cultura ordinaria.
Il fallimento di quell’esperimento   segna una frustrazione per tutti, anche per
chi non vi ha partecipato, non vi ha creduto. Anche per chi lo ha osteggiato:
non ha  fatto abbastanza perché l’umanità non sciupasse un così grande capitale
di passione, di intelligenza, di fede, e  non sacrificasse tante vite, generasse
tanta sofferenza. Un intero popolo, quello russo, quell’esperimento lo ha
vissuto sulla propria pelle: oltre ad averne sofferto direttamente il disastro
del fallimento rischia ora, proprio a causa di tale fallimento, addirittura di
pregiudicare la sua stessa identità di popolo o, meglio, di stato, quale
sembrava ormai definitivamente consolidato alla fine del secolo scorso con la
struttura di un impero.

Come è potuto accadere che
un’entità politica dalle dimensioni di un impero si sia prestata a un
esperimento di tal fatta? Che un popolo  in grado di esprimere intellettuali
della levatura prima ricordata, abbia sposato una ideologia già allora
anacronistica, già allora fuori da quella Storia di cui  essa voleva essere
l’interprete  più rigoroso,  fuori dalla Scienza di cui essa aveva idealizzato
il metodo?

Se il marxismo ha segnato
profondamente questo secolo lo si deve proprio al fatto che fu assunto come
teoria  assoluta, fideistica, definitiva  da uno stato gigantesco dalle
dimensioni di un impero e che per giunta quello stato, dopo aver guadagnato, a
seguito della seconda guerra mondiale, un ruolo di potenza planetaria, potè
sfruttare e sfruttò, con logica macchiavellica,  la conseguente  spartizione in
aree di influenza per propagandare o imporre quella bandiera
ideologica.

Di qui la domanda: come è arrivata
la Russia alla scelta del marxismo? Ed anche: perchè il comunismo, in Russia,
venne realizzato in quel modo?

Il modo è importante:  anche le
altre esperienze a quello hanno fatto riferimento, e assieme a quello oggi
stanno crollando, sino a trascinare nella rovina addirittura il kibbutz, che
certamente, al marxismo e al comunismo russo  non ha mai fatto riferimento
.

Dedicheremo proprio alla storia
della Russia, anzi della Russia antecedente la stessa formulazione della teoria
marxista, la prima e la più lunga  parte di questa riflessione: lì stanno, a
nostro avviso, le chiavi di lettura del comunismo russo e quindi del comunismo
tout court.

Comunque il comunismo sta
crollando non tanto o non solo perchè è fallito il modello russo, in pratica
l’unico realmente realizzato. Cioè non sta crollando solo perchè è stato
identificato per troppo  lungo tempo con un modello sbagliato. C’è ben altro. Il
fatto è che  è superata ormai da tempo la filosofia che vi sta alla base, cioè
la stessa teoria marxista: una teoria nata in pieno ottocento, frutto di un
esasperato determinismo meccanicistico, caratteristico della scienza di quel
secolo. Di qui l’opportunità di soffermarsi anche sull’evoluzione del concetto
di scienza: vi dedicheremo un’altra piccola parte della nostra riflessione.

Infine qualche riga sul comunismo
più vicino a noi, quello nostrano, visto nei suoi rapporti e nei suoi riflessi
sulla società, una modesta società di paese.

 

Un po’ di geografia
storica

La Russia è sempre stata per
l’Occidente un pianeta a sé, un pianeta poco conosciuto, dalle caratteristiche
non ben definite se non contradditorie. In effetti, oggettivamente, vista da
Occidente sembra Asiatica, osservata dall’Asia sembra Europea. La stessa scelta
religiosa accentua, dal nostro punto di vista,  tale ambiguità: la Russia è
cristiana come l’Occidente, ma di un cristianesimo particolare, quello
bizantino, che è ben diverso dal cattolico o  dal protestante. Se la lingua
slava appartiene al ceppo indoeuropeo e non a quello indoasiatico,  la libertà
individuale invece  non è stata mai sviluppata come in Occidente: l’individuo,
già in antico, tendeva a identificarsi con la comunità del villaggio anche se,
certamente,  non arrivava a stemperarsi, come in Oriente, nella massa della
tribù o di una organizzazione ancor più vasta.

     Ma diamoci un ordine, 
partiamo dalla geografia, la geografia storica. Il paesaggio nostro e, in
genere, quello di tutta l’Europa Occidentale è, da un paio di millenni almeno,
profondamente segnato dalla presenza dell’uomo, dal patrimonio di lavoro
accumulato con fatica generazione dopo generazione: ponti, strade, acquedotti,
paesi. La nostra campagna  è un succedersi di siepi, muriccioli, piante come
termini, linee di filari, reticoli di piantate. E’ uno spazio scandito,
misurato, razionalizzato. Fin dal medioevo infatti la proprietà individuale e
familiare caratterizza il nostro sistema sociale e riduce l’area degli spazi
aperti, comunitari, del pascolo e del bosco. Le abitazioni o sono sparse nel
territorio, quando non sussistono preoccupazioni di sicurezza, o sono aggregate,
per una migliore difesa in una individualità appena più grande, quella
municipale. E sono di pietra. Le costruzioni in pietra sono prodotto di un
lavoro, concretizzazione di un progetto, espressione di una volontà che vuole
resistere nel tempo, vincere il tempo: forme di cultura la cui voce supera la
brevità della generazione che costruisce.

Nell’antico paesaggio russo invece
(che rimarrà sostanzialmente immutato fino a quasi tutto l’ottocento) i campi
sono indefiniti, aperti, a disposizione di tutti. Le abitazioni si addossano
l’una all’altra nel villaggio. Ma abitazioni e villaggio non hanno storia. Sono
fatti di legno, di paglia cioè di materiali marcescibili. Quando la costruzione
marcisce, la si rifa ancora di legno e di paglia. Non ha senso scrivere una data
su un legno, non si può trasmettere per questa via una esperienza, una conquista
come patrimonio definitivo ai propri successori, non si può metter mano a un
progetto da realizzare col concorso di più generazioni. Le città sono rare e non
si distinguono dai villaggi se non per una loro maggiore estensione e per la
loro cinta di legno (donde il nome gorod da gorodite cingere).

 

Il primo assetto

Mentre l’Occidente medioevale
subisce invasioni su invasioni in un rimescolamento di sangue e di razze che
crogiola civiltà e costumi per produrre una varietà di culture, la Russia si
popola di una stirpe omogenea, la slava, dispersa su un territorio estesissimo,
che rimarrà sempre scarsamente popolato. Si distinguono, nella piatta uniformità
della immensa regione, alcune città, poche città situate lungo le piste
commerciali che collegano il Baltico col Mar Nero (Smolesk, Rostov, Novgorod,
Kiev).

E mentre nell’Occidente si
sviluppano le particolarità municipali, tutta la Russia si organizza in una
struttura da subito centralizzata anche se con nervatura primordiale: una
stirpe, anzi forse  una unica famiglia principesca, di origine normanna
(varenghi), assume il controllo del territorio, dando vita a una specie di
“federazione” basata appunto sull’unicità della stirpe regnante, stirpe
nettamente distinta dalla popolazione dominata che è slava. La popolazione slava
è sostanzialmente omogenea al suo interno, cioè non  divisa in classi o ceti, ed
è tutta  dedita  all’agricoltura su una terra coltivata e amministrata
comunisticamente.

Un altro fattore concorre a
segnare profondamente la storia della Russia, accentuandone lo stacco dal resto
dell’Europa, l’invasione mongolica, i cui effetti nell’organizzazione sociale e
politica sono paragonabili solo in piccola parte a quelli delle invasioni
barbariche subite dall’Occidente. I Tartari arrivano in Russia nella prima metà
del 1200. Come uno stormo di cavallette. Saccheggiano e derubano tutto ciò che è
possibile asportare e bruciano o distruggono il resto. Il giogo dei Tartari è
per la Russia pesantissimo. Dura ben due secoli. Le continue devastazioni
indeboliscono il tessuto sociale. La gente, abbruttita in una miseria bestiale,
tenuta  nel terrore, apprende le scaltrezze e la servilità degli oppressi. Lo
spirito pubblico decade. Si comincia a chiamare sventurati i condannati,  a
negare ogni cosa quando si viene interrogati, a giurare il falso. Si
affievolisce il coraggio della iniziativa, si comincia a considerare sprecato
ogni investimento di energia per una qualsiasi iniziativa individuale o
sociale.

 

Verso
l’assolutismo

I Tartari furono causa, sia pure
indiretta, anche di una trasformazione politica non meno grave, l’assolutismo
zarista.  Infatti, fu proprio sotto la loro dominazione, che, nel centro della
regione russa, nella parte più inospitale di essa, sperduta in profonde foreste
di abeti, lontana dalle vie di comunicazione con l’Occidente, crebbe e si
consolidò una città sostanzialmente nuova: Mosca. Essa, giocando un rapporto
ambiguo  con l’invasore mongolo, per conto del quale svolse a lungo anche il
compito di esattore, sfruttò dapprima la rovina delle altre città fino ad
acquistare la forza sufficiente per ergersi poi  promotrice della lotta contro
l’invasore, e proclamarsi, al contempo,  capitale di tutta la Russia. Per
giunta, da poco è caduta Costantinopoli: l’aquila bicipite dell’Impero
d’Oriente  prende casa  a Mosca. Stabilmente. E con essa il bizantinismo. Ormai
l’umile titolo di granduca non basta più: i principi di Mosca si autoproclamano
“zar di tutte le Russie”, e si arrogano potenza monarchica illimitata. Chi si
ribella, principe o città, viene piegato con feroce ed esemplare
crudeltà.

Ivan il Terribile spinge la 
centralizzazione del sistema fino a porre direttamente al servizio dello stato,
in una organizzazione corporativa obbligatoria, proprietari terrieri (nobiltà),
commmercianti e  artigiani, e, per converso, comincia a vincolare i contadini
alle terre dei proprietari, dando così origine alla tristemente famosa servitù
della gleba.

Fino agli inizi del 1500 due erano
i poli di attrazione per la formazione del nuovo stato russo, Mosca e Novgorod,
cioè l’assolutismo orientaleggiante e il comune che guarda a Occidente. Ma
Novgorod, rimasta fra l’altro fuori dalla invasione tartara,  deve cedere alla
forza delle armi. La campana della vietcia fu portata a Mosca come trofeo e
messa a tacere per sempre: un silenzio profondo si stese per tutta la Russia.

 

Uno Stato sui
generis

Mentre in Occidente cresce,  col
passare dei secoli, la cultura della proprietà privata e dell’iniziativa
individuale, ed acquista piano piano consistenza una classe nuova, la
borghesia,  in Russia si ha e si continuerà  ad avere, fino a quasi tutto
l’ottocento, da una parte lo zar ed i suoi nobili (spesso occupati in formalismi
letteralmente bizantini), e, dall’altra, la massa dei contadini in uno stato di 
semi schiavitù.

Ma non si pensi alla nobiltà russa
alla stregua della nobiltà dell’Occidente o comunque come una casta pressochè
chiusa.

Fin dai tempi di Pietro I la
nobiltà è un aggregato eterogeneo ed informe che viene alimentato, rimpinguato
con continuità e regolarità dal basso. Basta arrivare a ricoprire un qualunque
ufficio pubblico per diventare nobili. Sono nobili, praticamente,  tutti coloro
che non appartengono alla comunità rurale o municipale. Sono nobili anche il
soldato, a partire da un certo grado, ma anche il bidello, lo scritturale, il
figlio del prete, il figlio del contadino che, lasciato libero dal nobile o
dalla comunità, ha studiato,  anche l’artista, anche ogni persona decorata.
Magari dapprima si acquista la nobiltà personale e poi la nobiltà ereditaria. In
pratica viene aggregato alla nobiltà ogni nuovo elemento che esce dal popolo,
ogni elemento che in qualche modo si distingua in mezzo alla massa informe del
popolo.  Si schiuma in continuazione il popolo. Così si stronca sul nascere ogni
possibilità di cambiamento, si  taglia le gambe anche alla speranza del
cambiamento. Il popolo così è lasciato senza voce. Anzi non riesce nemmeno a
concepire, nemmeno a dare forma a  una richiesta: rimane il brontolio dei servi
che si coagula di quando in quando nell’esplosione irrazionale di sanguinose
rivolte, destinate, come sempre e come è ovvio, proprio per l’assenza di una
strategia, a disastrosi fallimenti.

In pratica nessuna idea politica
deve penetrare  fino al contadino, che deve restare mondo da ogni qualsiasi
partecipazione politica, in qualsiasi modo o forma.

Dall’altra parte la nobiltà. La
stessa nobiltà non è soggetto politico: non ha, non può avere una unità, proprio
a causa della sua composizione eterogenea. Come si fa ad aggregare attorno a una
iniziativa comune soldati, figli di preti, umili scritturati e proprietari di
centinaia di migliaia di contadini?  Anch’essa quindi non è in grado di
elaborare un progetto di cambiamento. Infatti, nemmeno rivendica, come spesso è
avvenuto in Occidente, un proprio status ben definito o tenta di strappare al
monarca assoluto, detentore di tutti i poteri, alcuni di quei poteri. La nobiltà
russa, anche quella vera, quella alta vive di privilegi, privilegi concessi
direttamente dallo zar: deve tutto allo zar. E fra la nobiltà alta con diritti
di trasmissibilità e la gente comune sta una folla sterminata di servitori dello
stato con nobiltà personale. In genere sono persone corrotte e senza alcuna
dignità. Persone spregiudicate, che interpretano la legge a loro piacimento: non
tengono mai d’occhio altro che la loro responsabilità personale; quando la sanno
al sicuro osano tutto. La legge stabilisce o sanziona ben poco. Il giurista
scompare nel rapporto fra contadino e nobile, perchè il rapporto  è sempre
sbilanciato a favore di quest’ultimo.

 

La conservazione eretta a
sistema

In queste condizioni, si ha
necessariamente uno stato bloccato, bloccato in una conservazione che non
ammette speranza di cambiamento, a meno che questo cambiamento non sia promosso
dallo zar stesso. Ma gli zar, anche i più illuminati e famosi, come Pietro I,
come Elisabetta o Caterina II sono interessati, ossessionati da una sola idea:
rafforzare lo stato per ingrandire lo stato.

Rafforzare lo stato significa
assicurarsi la fedeltà della nobiltà e della chiesa. Come? Comprandola, 
aumentandone in continuazione i privilegi  e, di pari passo, aggravando i pesi
dei contadini, una classe, da sempre, vinta e vinta  senza lottare. Al popolo si
rivolge lo zar solo per reclutarvi con la forza i soldati, carne da
combattimento, che blocca  con una ferma terribile, senza fine: agli inizi
dell’ottocento ben 22 anni, a metà del secolo scorso ancora 15 anni.

L’esercito ovviamente è
importante, diciamo così, per la politica estera, per continuare la costruzione
della Russia, della Grande Russia.  Un po’ tutti gli zar, come  Pietro I,
sognano una Russia gigantesca, uno stato colossale, che dovrebbe estendere le
sue braccia fino all’interno dell’Asia e divenire, al contempo, padrone di
Costantinopoli e del destino dell’Europa.

In effetti la storia russa può
essere vista come la storia della genesi e formazione dello stato russo. Uno
stato che non fa che ingrandirsi. I Russi sono slavi, come del resto altri
popoli. Ciò che li distingue dagli altri slavi (Bulgari, Montenegrini, Sloveni,
Cechi, Polacchi, Slovacchi ecc.) è questa tendenza tenace ed ininterrotta ad
organizzarsi come stato indipendente e forte. La si trova già nell’antica Kiev.
Tutta la politica estera ne è segnata per secoli senza interruzioni:
Costantinopoli, Polonia, Baltico sono mete fisse, obiettivi di espansione
perseguiti per secoli.

Questa della Grande Russia è
un’idea forte, radicata, diffusa, forse addirittura retaggio normanno penetrato
in profondità: si spiegherebbe così la tenacia e (perchè no) l’ardore popolare
mostrato ad esempio nel 1612 o nel 1812 o nel 1942, cioè le rarissime volte in
cui il potere politico di fronte a un pericolo esterno si è rivolto  al popolo. 
Tutto per espandere lo stato, per costruire l’impero. In continuazione vengono
inglobati nuovi territori, nuovi popoli anche diversi per etnia, religione
tradizioni, costumi, sino a costituire un impero che non ha pari nella storia
fra quelli che hanno la caratteristica della continuità territoriale.

Per secoli, da Pietro I in
poi,  uno degli uomini più importanti nella struttura statale della Russia,
garantita da un ferreo regime poliziesco,  è il capo della cancelleria segreta:
spesso è capitato, almeno così si dice,  che questi avesse occasione di
interrogare, torturare e condannare suoi benefattori, i suoi amici, i suoi
nemici.

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