Lo ha annunciato ieri ufficialmente lo stesso Fidel Castro attraverso il giornale del Partito comunista Granma: il 24 febbraio, in seno all’Assemblea nazionale, non si ripresenterà per la presidenza di Cuba. Al suo posto sarà invece nominato il fratello Raul Castro, a cui aveva già ceduto la direzione ad interim del Paese dal 31 luglio 2006, a causa della propria malattia.
Fidel, 81 anni, ha guidato il paese per 49 anni, dopo che con l’aiuto di un movimento guerrigliero mise in atto la cacciata di Fulgencio Batista, dittatore sostenuto dagli Usa.
Il “leader maximo”, comunque, rivestirà probabilmente il ruolo di segretario del Partito Comunista, oltre a continuare a scrivere articoli politici.
Il presidente statunitense George W. Bush dice di sperare in un ritorno della democrazia a Cuba, rimanendo tuttavia una mera probabilità la cessazione dell’embargo Usa, che “soffoca” l’isola da 40 anni. Alle dichiarazioni di Bush hanno aderito anche i governi europei. In particolare, l’Ue ha annunciato che tenterà nuovi contatti diplomatici con Cuba, sospesi dal 2003 dopo l’arresto da parte del governo cubano di 73 dissidenti.
Sostegno a Cuba è arrivato dal presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha anche sottolineato come la rinuncia alla presidenza da parte di Fidel è la risposta a quanti lo hanno sempre criticato di essere attaccato al potere.
APPROFONDIMENTO
Si riporta di seguito un articolo di approfondimento tratto da
www.giannimina-latinoamerica.it
FIDEL CASTRO HA DETTO BASTA
Alessandra Riccio (20 febbraio 2008)
La grande attesa era per domenica 24, il giorno indicato per l’apertura del lavori del nuovo Parlamento eletto nella consultazione di gennaio, ma ancora una volta Fidel ha sorpreso tutti: di primo mattino il Granma pubblicava un messaggio del Comandante in capo con la rinuncia agli incarichi dell’uomo che per più di 50 anni ha pensato, organizzato, rischiato, diretto tutti gli eventi che hanno portato quest’isola dei Carabi di circa 11 milioni di abitanti ad assumere una rilevanza mondiale negli eventi della seconda metà del ‘900 e oltre. Da quando circa un anno e mezzo fa ha rischiato di morire e ha dovuto cedere il bastone del comando al fratello Raul e ai ministri, Fidel ha mantenuto un contatto costante con il paese attraverso le sue “riflessioni” pubblicate con grande rilievo dalla stampa locale e lette in televisione, ha ricevuto capi di stato amici in maniera informale, in un letto di ospedale o in poltrona. Con Lula ha mantenuto recentemente una conversazione particolarmente lunga e importante di cui ha dato conto in tre lunghe “riflessioni”. I video che lo hanno mostrato insieme al Presidente del Brasile ce lo hanno fatto vedere in buone condizioni di salute e di animo mentre nei suoi ultimi scritti si è dilungato a spiegare chi è davvero il candidato conservatore Mc Caine e nello stesso tempo insisteva nell’avvertire che la sua salute non era esente da rischi.
Eppure, per quanto probabile, la rinuncia di Fidel non era scontata. Nel messaggio sul Granma Fidel riconosce di aver goduto sempre di tutte le prerogative necessarie per portare avanti il progetto rivoluzionario, compreso l’appoggio del popolo; grandi responsabilità che ha assunto nella convinzione di compiere il proprio dovere fino in fondo. La malattia che lo ha colpito non lo ha messo fuori gioco: ha recuperato le sue piene facoltà intellettuali, ha riscoperto il piacere di leggere e di riflettere, di meditare, ha cominciato a scrivere e si è preoccupato di preparare il paese alla sua assenza. Intanto veniva ricandidato e rieletto nelle scorse elezioni. Ancora una volta la gente si manifestava a suo favore. La sua candidatura e la sua rielezione avevano suscitato critiche (più fuori che dentro Cuba); oggi il senso di quella prova appare più chiaro, in vista di una rinuncia che doveva venire da un gesto di volontà del leader maximo e non da un rifiuto popolare o, peggio ancora, a seguito delle pressioni di Washington. Così lo spiega lo stesso Fidel: “La mia era una posizione scomoda contro un avversario che ha fatto tutto l’immaginabile per disfarsi di me e che non mi faceva affatto piacere accontentare”. Il signor Bush è servito, ma dal suo giro in Africa fa sapere che adesso bisogna che a Cuba arrivi la “vera” democrazia e Negroponte sentenzia che il blocco non si toglie. La gente, all’Avana, è tranquilla, il Granma va a ruba e qualcuno si commuove, altri apprezzano l’eleganza con cui Fidel esce di scena, quasi tutti guardano con simpatia la figura di Raul, l’eterno secondo, che nel suo interinato ha dimostrato di essere molto vicino ai bisogno della gente e ragionevolmente flessibile. La gente si aspetta da lui alcune cose necessarie per una vita quotidiana meno tesa, come l’abolizione del visto di uscita, la possibilità di acquistare liberamente beni di consumo come computer e automobili, la libertà di poter ospitare gli amici. Ma nel suo messaggio Fidel ha anche avvertito di diffidare dei “sentieri apparentemente facili della apologetica o della autoflagellazione come antitesi” ed invita a “prepararsi sempre per la peggiore delle varianti. Essere prudenti nei successi quanto fermi nelle avversità è un principio che non può essere dimenticato”.
Ricorda che l’avversario da combattere è forte ma che Cuba lo ha mantenuto a distanza per 50 anni e conclude dicendo che da adesso vuole combattere come “un soldato delle idee” e per questo le sue riflessioni si chiameranno da ora in poi “Riflessioni del compagno Fidel”.
Il Leader maximo rinuncia, dunque, ma non è morto né è fuori gioco; non rinuncia alla sua instancabile tempra di combattente e non rinuncia alla sua battaglia, la adegua però, agli anni, alla salute, ai tempi che cambiano.
Intanto le televisioni del mondo si scatenano sulla notizia. La Cnn raccoglie le dichiarazioni di Bush e dei candidati alla presidenza, a Miami però non si esulta come un anno e mezzo fa. Forse, adesso che Fidel esce di scena, temono che apparirà chiaro a tutti che il problema di Cuba non era Fidel.
Il portiere d’albergo che mi ha consegnato questo numero storico del Granma, commenta: “Dicevano che il problema della Palestina era Arafat e tre anni dopo tutto è peggiorato; ci accusano di perpetuare dinastie e lì c’è la dinastia dei Bush e adesso dei Clinton; prima o poi dovranno pur smetterla di usare falsi argomenti”.