IlSole24Ore, Sara Monaci: Tercas, arresti e accuse di bancarotta Coinvolti 19 banchieri e imprenditori

IlSole24Ore, Sara Monaci: Tercas, arresti e accuse di bancarotta Coinvolti 19 banchieri e imprenditori

Il Sole 24 Ore

Le accuse della procura alla Banca commissariata

Tercas, arresti e accuse di bancarotta Coinvolti 19 banchieri e imprenditori

Custodia cautelare per l’ex direttore generale Antonio Di Matteo per inquinamento delle prove Le accuse a Sarni e Samorì

Sara Monaci

Un gruppo di diciannove imprenditori ha segnato la fine di Tercas, la cassa di risparmio di Teramo, commissariata dal 2012. Una banca piccola, ma importante per il territorio della costa adriatica, con 700 dipendenti e 2 miliardi di credito erogato. Una banca il cui default è stato impedito dal fondo interbancario, intervenuto con 220 milioni di finanziamento.

Ieri è finito agli arresti – in custodia cautelare per rischio di inquinamento prove – l’ex direttore generale Antonio Di Matteo (in carica a Teramo dal 2005 al 2011), accusato di ostacolo alla vigilanza, associazione a delinquere, riciclaggio, appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta. Reati che, in misura diversa, vedono coinvolti anche altre 18 persone, tra cui la stessa compagna di Di Matteo, Cinzia Ciampani, l’ex presidente della Tercas Lino Nisii e alcuni manager locali e non, tra cui i nomi più noti sono Raffaele Di Mario (gruppo Dimafin), Giampiero Samorì, Francescantonio Di Stefano (impegnato nel settore televisivo), Antonio Sarni (attivo nella ristorazione autostradale con l’omonimo gruppo).

L’inchiesta giudiziaria coordinata dal procuratore romano Nello Rossi e dagli uomini del Nucleo valutario della Gdf, ha messo in luce una complessa rete di malaffare. Innanzitutto ci sono i reati societari, primo fra tutti l’ostacolo alla vigilanza, commesso nel 2010, quando Tercas acquisì per oltre 200 milioni Caripe, la banca di Pescara, permettendo così alla cassa di Teramo di ingrandirsi e dare ai vertici bancari l’”allure” di manager di spicco. L’operazione avvenne però su presupposti fittizi, oggi svelati dagli inquirenti. Come altre indagini hanno messo in evidenza altrove (per esempio a Siena, col Monte dei Paschi) i manager bancari mostrarono a Bankitalia un livello di patrimonializzazione diverso da quello reale. Il sospetto è dunque che la comunicazione di dati societari falsati sia stato un malcostume piuttosto diffuso nell’ambiente bancario.
Nel caso di Tercas mancavano all’appello 70 milioni di attività: questo vuol dire che la struttura patrimoniale della banca non era abbastanza solida da potersi permettere l’acquisto di Caripe. Di Matteo sarebbe quindi, per gli inquirenti, responsabile di aver messo in piedi un meccanismo truffaldino per taroccare i dati. Avrebbe cioè messo in piedi una vera e propria «associazione a delinquere» con imprenditori e manager amici, che avrebbero formalmente acquisito azioni (per 30 milioni) e obbligazioni (per 40 milioni) in modo da far entrare liquidità immediata nelle casse della banca, da restituire però nell’arco di due anni alla banca stessa. Una sorta di vendita con l’elastico, che doveva tornare indietro all’acquirente non appena l’operazione fosse stata completata, congeniata solo per abbellire forzatamente il bilancio.

L’acquisizione di Caripe sarebbe servita a tenere in piedi Di Matteo nel suo ruolo, rafforzando la sua immagine e permettendo alla Tercas di continuare ad elargire favori agli stessi imprenditori accondiscendenti. Perché infatti il sistema dei favori non finiva qui. Se Di Stefano, Di Mario, Samorì, Sarni, Nisii, Pierino Isoldi e Pancrazio Natali si sono prestati alle operazioni di “portage”, le finte acquisizioni di titoli appunto, tutti gli imprenditori indagati hanno invece usufruito, secondo procura e Gdf, di finanziamenti ingiustificati, privi dei requisiti di garanzia. Da qui l’accusa di appropriazione indebita: un sistema di favori che serviva a mantenere rapporti e supporto “politico”, ma anche a dare dei ritorni monetari cospicui allo stesso Di Matteo. Coloro che ottenevano crediti, infatti, poi giravano anche denaro allo stesso Di Matteo, su conti correnti in paesi offshore. Sono ad esempio a lui attribuiti 2 milioni depositati a Singapore, già sufficienti a giustificare la contestazione di riciclaggio. Ma non solo: lo stesso dg autorizzava finanziamenti a società a lui riferibili, di cui altri facevano da prestanome, sulla base di una sorta di “autofinanziamento” arbitrario, come se la banca fosse di sua proprietà. Nel mezzo a tutto questo, anche la bancarotta fraudolenta. C’è stato anche chi, come Di Mario e Gabrio Caraffini, hanno causato il fallimento di società per supportare la rete di scambi. Secondo gli inquirenti, Di Mario avrebbe acquisito tramite la Dimafin dei terreni a prezzi gonfiati di proprietà di Caraffini, per poter dare un tornaconto anche a Di Matteo, che doveva essere “ripagato” del finanziamento concesso dalla Tercas. Cosa, questa, che però avrebbe contribuito a far fallire la Dimafin. Complessivamente l’inchiesta ha evidenziato 3,5 milioni provenienti da riciclaggio e bancarotte fraudolente.

Un capitolo a parte merita l’acquisizione della Smib, la banca di San Marino, da parte della Tercas. Anche qui il reato è di ostacolo alla vigilanza, perché, spiega l’ordinanza, «Di Matteo ha comunicato l’inesistenza di rapporti economico patrimoniali tra Tercas e la banca sammarinese». Formalmente infatti l’acquisizione, per 10 milioni, è stata realizzata da Di Mario, Di Stefano e Cinzia Ciampani, ma per gli inquirenti i rapporti erano direttamente tra Tercas e San Marino.

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