In Cina vale la “996”. Il lavoro ai tempi dell’high tech, da “Il Parlante” di Marino Cecchetti

In Cina vale la  “996”. Il lavoro ai tempi dell’high tech, da “Il Parlante” di Marino Cecchetti

«Nessuno ha mai cambiato il mondo impegnandosi 40 ore a settimana»

Cosi sostiene Elon Musk  dagli Usa. In effetti però  a cogliere il messaggio è la Cina dove vale le regola “996”.

996 significa lavorare dalle 9 del mattino alle 9 di sera, 6 giorni su 7

Guido Santevecchi, corrispondente a Pechino di Il Corriere della Sera: Dice Jack Ma, fondatore di Alibaba e profeta dell’ecommerce: «Lavoro ancora almeno da mezzogiorno a mezzanotte». Gli dà ragione Robert Liu di JD.com, il principale concorrente cinese: «Chi non si impegna dodici ore al giorno non è un fratello». Il miliardario Liu ama chiamare «fratelli» i suoi dipendenti. Le uscite dei due geniali capitani dell’industria tecnologica non sono casuali. Jack Ma e Robert Liu rispondono alla protesta dei lavoratori dell’hi-tech mandarino stanchi, stravolti, dai ritmi imposti. (…) I giovani programmatori informatici, finito il turno, hanno tempo solo per mangiare e crollare sul letto a castello di un dormitorio vicino all’ufficio. O su una brandina accanto alla scrivania (…) Musk sostiene di aver lavorato 120 ore a settimana per fondare Tesla e Space X e di aver ridotto a 80-90 dopo aver avuto «qualche problema di salute». (…) Jack ha corretto un po’ il ragionamento, insistendo che la prassi «996» è una «grossa benedizione» per il settore hi-tech affamato di innovazione continua, alla quale bisogna dedicarsi anima e corpo, ma aggiungendo che si «fa solo per amore del proprio impiego e dell’azienda». E senza amore è inutile lavorare, ha concluso il compagno miliardario Jack. Che è comunista e forse ha riletto a proprio vantaggio «Il Capitale» di Karl Marx. (…)

Il tema degli impegni di lavoro nel nostro periodo storico dominato dalla tecnologia informatica è presente anche in alcuni passi   (Capitolo 17  – La  ‘societas’ senza tempio)  del libro “Il parlante. Il linguaggio dalla comparsa al web Motore del successo degli umani“, di Marino  Cecchetti,  edito a San Marino nel 2018 (ISBN 1220024228, info ilparlante@libertas.sm). Il libro è in vendita al prezzo di euro 15, con invio a domicilio.  Per modalità e  condizioni clicca: UNILIBRO  (disponibile anche in lingua inglese).  

Star bene

‘Star bene’ in antico voleva dire che non si aveva bisogno di lavorare per vivere. Vivere agiatamente, s’intende. La poca quantità di tempo che la persona era costretta a spendere nel lavoro, era, insomma, considerata il vero indice di benessere. Una volta solo pochissimi potevano vivere senza lavorare, o quasi. Mentre erano tantissimi quelli che dovevano lavorare da mane a sera per sopravvivere. E non sempre ci riuscivano, a sopravvivere.
Lavoro, nella società, è sinonimo di produzione di beni e di servizi. Se tale produzione è ‘efficientizzata’ con la tecnoscienza, ne deriva un beneficio per tutti.
Henry Ford, in piena industrializzazione, aveva individuato una condizione di equilibrio con la suddivisione delle 24 ore del giorno in: 8 di lavoro, 8 di tempo libero, 8 di riposo. Quelle 8 ore – otto ore soltanto – di lavoro per molti sarà un sogno, anche se la catena di montaggio ti spremeva come un limone. Chi non ricorda Charlie Chaplin in Tempi Moderni?
Nella seconda parte del Novecento, con l’arrivo dell’elettronica e poi dell’informatica, le macchine producono molto di più che ai tempi di Ford. Nel 1956 Richard Nixon, lanciato verso la vice presidenza degli Stati Uniti, fece intravedere – promise? – una settimana lavorativa di quattro giorni. Una decina di anni dopo una sottocommissione del Senato statunitense diede spazio alla testimonianza di un esperto che andava sostenendo che nel 2000 si sarebbe lavorato solo 14 ore a settimana, contro le 40 del modello standard di quegli anni.
Non è andata così. Nemmeno negli avanzatissimi Stati Uniti d’A-merica è andata così. Anzi. I ritmi di lavoro di Tempi Moderni hanno sbordato dagli stabilimenti industriali e, con diverse modalità, hanno finito per contagiare ormai ogni tipologia di lavoro. In tanti settori si lavora a ritmi ‘indiavolati’. E non si lavora – questo è il punto – complessivamente per meno tempo. Perché nell’era dell’informazione chi ha impegni di responsabilità è costretto, in qualche modo, a essere sempre connesso alla rete. E, quindi, praticamente, sempre al lavoro. In gergo: ‘h24’, cioè 24 ore su 24. Addirittura: ‘24/7’, cioè 24 ore su 24 per 7 giorni su 7.
La tecnoscienza, potenziata com’è stata dall’informatica, ci ha liberati anche da gran parte del lavoro mentale di fare calcoli, ma non dal lavoro tout court. Non ci sta dando più tempo libero. O, comunque, il tempo libero è molto meno del previsto. Lo ‘star bene’ non si è esteso nonostante che alla catena di montaggio di Ford al posto di Chaplin ora ci sia un robot.
Nella società dell’informazione spesso non c’è un confine netto fra lavoro e non lavoro. Sono sempre meno le attività regolate, come un tempo negli opifici, dal suono della sirena. Nella società dell’infor-mazione si trattano ‘manufatti’ immateriali che escono da catene di montaggio dislocate nella mente.

‘Signore degli Anelli’

In antico, il luogo fisico ove si potevano avere informazioni era il crocevia. Ora è il web. Nel web ciascuno è crocevia. Anzi – più modernamente – una rotonda. Può ricevere e smistare, assorbire e ridistribuire informazioni. Al contempo, efferente e afferente. Sempre attivo. Formicolante. Com’è, appunto, il traffico in una rotonda.
Diventa necessario, nella nostra società, essere in rete. Cioè ‘connesso’. Chi non è connesso è escluso. Quasi non facesse parte del consorzio civile. E chi è più bravo a estrarre informazioni dall’ocea-no dei dati (l’umanità non ne ha mai prodotti tanti!) adoperando la statunitense Google o la cinese Baidu come ‘caravelle’, si proietta alla sommità del potere. Diventa “Signore degli Anelli”, come si dice nel fantastico contemporaneo. Passa in cima alla piramide sociale. Con una modalità nuova: datacracy, invece di democracy.
Questi “signori” al potere ci possono arrivare da soli, con la loro intelligenza. Sfruttando, ad esempio, le pieghe della nuova economia. In economia è diventato rilevantissimo il settore finanziario. La massa monetaria negli Stati non è più l’equivalente dell’oro della banca nazionale e, nel settore finanziario, stanno prevalendo ‘titoli’ il cui valore non è rapportato direttamente a materie prime, scorte di lavorati, immobili o catene produttive. ‘Titoli’, cioè prodotti finanziari, che sono costruiti, spesso, su altri prodotti finanziari che solo dopo una catena più o meno lunga sono ancorati – quando lo sono – a beni reali. Gran parte delle transazioni su tali prodotti o sulle monete avvengono in automatico, con una velocità di decisione che è impossibile a un operatore in carne e ossa. Si innescano sulla base di un programma informatico al realizzarsi di certe condizioni in qualche borsa del mondo. Programma che fa partire negoziazioni in grado di cogliere all’istante situazioni di vantaggio. Basta sfruttare differenze di prezzo minimali per un tempo minimale per accumulare (o perdere) ricchezze enormi in un tale sistema. In assenza di regole, prevale il più forte che può essere anche il più scaltro o il più disinibito, come quando si specula a livello mondiale sulle derrate alimentari.
Un gruppetto di super ricchi, che potrebbero stare tutti in una stanza, aveva, nel 2015, un patrimonio più grande di quello della metà piùpoveradellapopolazionedellaTerra.In pratica, 62 persone possedevano quanto 3 miliardi e 600 milioni di loro simili messi assieme.
Il singolo Stato “non controlla più la sua economia” (Arjun Appaduray). Emergono entità economiche come Amazon, Ebay, Alibaba, Facebook, Visa o Mastercard con le quali i singoli Stati sono costretti a entrare in rapporto e a subirne le logiche. E non si vede ancora come uscirne.
Come non si vede ancora come si possa frenare la disgregazione dei rapporti interpersonali. Rapporti che, invece, la società dell’infor-mazione si pensava che favorisse, dato che consente a tutti di colloquiare con chiunque direttamente senza vincoli né di tempo né di spazio. L’agorà con internet è diventata tanto grande che, in effetti, si finisce per conoscere, in senso pieno, meno persone che nella piazzetta del proprio paesello. Ci si sente, in sostanza, isolati. Immersi in una solitudine di massa. Si vive ciascuno per conto proprio, coi propri privati problemi, in un mare di indifferenza reale o presunta o solo percepita come tale. Inoltre, assai più che in passato, siamo assillati dalla competizione.

La dittatura del numero, competition

La competizione è sempre esistita fra gli umani, come del resto all’interno di altre specie. A livello collettivo fra gruppi di cacciatori-raccoglitori, fra famiglie, fra Luogo di Sopra e Luogo di Sotto, fra Stati.
Oggi il fenomeno si fa più individuale. Personale.
La competizione, una competizione a tutto campo, è la versione ultima della razionalità moderna. Il ring è la rete. Tu sei quello che la rete dice di te. Ognuno vuole arrivare più in alto possibile nella valutazione della rete. Per fregiarsi di un numero importante come al termine di una corsa. La stiamo subendo, la corsa, come se fosse partito l’ordine perentorio di correre da qualche entità superiore. In effetti ce la siamo inventata noi, la corsa. Come se fregiarsi di un numero che ci colloca in un punto alto della graduatoria sia ormai l’unico modo per dare un senso alla vita.
È una ‘invenzione’ della nostra stessa cultura, questa corsa. Che subiamo individualmente come un’autocostrizione e che ci tormenta da dentro come tormentava, in antico, un precetto religioso non osservato. E si compete non per il gusto di competere, ma per vincere.
La competizione è il nuovo paradigma della vita. La vita come una maratona; il quotidiano come un percorso a ostacoli; il confronto con gli altri come un matchrush finale. Il motto citius, altius, fortius, cioè più veloce, più in alto, più forte, è passato dalla sportività alla vita ordinaria. È diventato il mantra della società. Ci sottoponiamo continuamente a prove: training, verifiche, test, rodaggi. Siamo sotto gli effetti dell’incantesimo del numero. Anzi viviamo sotto la dittatura del numero.
Il numero, ogni giorno viepiù, è assunto come una verità scientifica, prodotto e aggiornato in continuazione da statistiche, classifiche, sondaggi. Ha assunto il ruolo di valutatore delle persone. Finisce per improntare la vita delle persone, essendo diventata, la nostra, una societàche ha nell’agonismo il suo leitmotiv. Con un effetto boomerang sulla qualità della vita. Anche perché agisce in concomitanza con l’eclissi dei valori prodotti a suo tempo dalla religione. 

***

 Dalla ‘quarta di copertina’ di “Il parlante”
Con un approccio divulgativo si rilegge il percorso della civiltà, scegliendo di mettere in particolare rilievo alcune tappe:
– l’alfabeto e lo zero; 
– la separazione fra divinità e natura; 
– la tecnica che dalla ruota dentata dell’orologio medioevale ci ha portati su su fino alla Luna; 
– la logica, che gemmata dal sillogismo aristotelico,  sta alla base dell’utensile ‘amico computer’. 
In quanto parlante l’uomo resta al centro del creato, anche se non più fisicamente come si riteneva prima di Copernico. 
In prospettiva c’è il ‘robot sapiens’, obiettivo dei recenti progetti sull’apprendimento automatico, ed, in sostanza, anche dell’Alfabeto del Pensiero di Leibniz. Lo potremmo considerare il Sacro Graal del nuovo millennio: lo ‘schiavo perfetto’ del parlante, costruito dal parlante stesso.
 

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