Open Migration. La macchina del dolore. Monologo di Giorgio Fontana

Open Migration. La macchina del dolore. Monologo di Giorgio Fontana

Da bambino sognavo che esistesse una macchina del dolore. Un aggeggio che consentisse, per pochi istanti, di provare concretamente le sofferenze altrui — specie quelle che mi apparivano più remote: il freddo, la fame, la tortura. Cosa sente un corpo quando viene ridotto all’impotenza? Potevo vederlo alla televisione. Lo leggevo nelle mie prime avventure attraverso le pagine. Ma ero sicuro di comprenderlo veramente?

Ritenevo che solo un’effettiva trasmissione di quella sofferenza avrebbe potuto scatenare in noi la vera empatia — e dunque un’azione immediata. Non puoi capire, mi dicevo: è vero, a volte realmente non possiamo capire. L’immaginazione ha dei limiti irritanti; e lì vedevo l’origine dell’ignavia morale.

(Molti anni dopo avrei fatto un piccolo, stupido esperimento per attuare questa idea. Non mangiai per due giorni. Volevo sperimentare, nella mia limitata esperienza di giovane occidentale, cosa significasse la privazione del cibo. Vi assicuro che alla fine del digiuno avrei preso a pugni chiunque, pur di avere un pezzo di pane. Questo per dire che in fondo basta poco: la sapienza del corpo è spesso molto più profonda di quella della mente). 

Perciò credevo nella necessità di una macchina del genere. E ogni volta che leggo di una tragedia capitata a chi si è messo in viaggio per fuggire, una parte di me — la più radicale, forse anche la più ingenua — ci ripensa con convinzione. Uno strumento capace di andare oltre la squallida contabilità del male: 366 migranti deceduti nel solo naufragio del 3 giugno 2013; 3500 i morti in mare nel 2015; centinaia di dispersi il 6 maggio 2011; centinaia di migliaia di sfollati dalla guerra in Siria; e così via, e così via.

Uno strumento capace di andare oltre i tanti discorsi, le tante immagini. Oltre il dramma della rassomiglianza e dell’assuefazione. Dopo cento volti straziati dalla sofferenza, dopo gruppi e gruppi di bambini affamati che fissano l’obiettivo, dopo un editoriale indignato, dopo un dialogo contrito fra amici e compagni — che resta? Come propagare un vero incendio delle coscienze? Volevo  un mezzo per proteggerci dal pensiero destinale: l’idea che in fondo le cose stiano così, che non vi sia altro da fare se non compiangere. Lamentarsi insieme. Un rito consolatorio. Pensavo che l’unico modo per evitarlo fosse una macchina democratica del dolore. 

Poi sono diventato grande, e mi sono trovato a che fare con le parole. Un mezzo certamente molto potente, e nel quale nutro grande fiducia. Ma limitato, e a volte impotente. Come vorrei che le mie parole potessero per un istante affamarvi, affogarvi, separarvi dai vostri cari, trasportarvi altrove, in un deserto o nel vano di un camion che attraversa frontiere di guerra: spogliarvi dei diritti più basilari e di ogni avere. Come vorrei che potessero fulminarvi, cambiarvi — cambiare me stesso in primo luogo. Come vorrei che per una volta le parole fossero ancora quelle del mito, inseparabili dalla cosa stessa: che suonassero simili a una maledizione biblica, cariche di forza autentica, capaci di agire direttamente sulla realtà come una lama. Come vorrei che le parole potessero farsi carico di quell’immensa quantità di sofferenza e trasmetterla, moltiplicarla in forma d’esempio per poi combatterla alla radice. La macchina che tanto sognavo.

E invece no. Le parole sono semplicemente parole; e oltre ai loro limiti hanno anche un aspetto scomodo, di cui si parla malvolentieri: la quantità di menzogna che possono contenere. Pensate solo a ciò che diventa un essere umano in fuga dall’Eritrea, o dal Sudan, o dall’Afghanistan, quando tocca le coste dell’Europa: un irregolare, un clandestino. Subisce una sorta di trasformazione — e basta qualche sillaba. Del resto su questo non ho mai avuto dubbi: il potere, anche il potere lessicale, è qualcosa di estremamente pericoloso. Richiede grande responsabilità e attenzione. Anche perché dalle parole — quelle delle opinioni come quelle delle leggi — si passa rapidamente ai fatti. Un esempio: i tanti muri che abbiamo eretto nel nostro discorso, e a quanti muri fisici si stanno alzando oggi nel nostro continente. 

Ma a volte le parole sono capaci di distruggere la menzogna. Al razzismo implicito dell’individuo irregolare e clandestino possiamo opporre un’idea molto semplice, uno slogan che di certo avete già sentito pronunciare: Nessun essere umano è illegale.

Certo, ogni giorno ne constatiamo la negazione. Il mondo accecato respinge delle persone come illecite, salvo poi servirsene quando gli viene comodo, sotto il ricatto dell’espulsione: come braccianti, come moderni schiavi. Ma è proprio da questa involuzione del diritto che dobbiamo partire: per sostituire un’etica umanitaria a un’idea del tutto astratta — e accecante — della legge.

Un uomo in fuga dalla guerra in Siria ha detto che è venuto a cercare aiuto nelle “nazioni dell’umanità”, ma non ha trovato umanità alcuna. Questa frase mi ha colpito molto. È di fronte ai grandi esodi di quest’epoca che mettiamo realmente alla prova il nostro concetto di essere umano. Cos’è un uomo? Qual è la sua essenza primaria, a tutti comune? Abbiamo millenni di risposte alle spalle, molto diverse fra loro. Troppe sono state decise in comode aule universitarie, mentre le migliori sono quelle che vengono forgiate nelle contraddizioni e nelle difficoltà quotidiane. Comunque, la mia preferita rimane sempre la stessa: la libertà.

Una libertà responsabile, naturalmente, e rispettosa della libertà altrui: ma che in nessun caso può essere sottratta o negata. Di certo non può essere soggetta alle latitudini. Nasci in un luogo e sei libero; nasci cinque chilometri sotto un confine, e non lo sei più. Il sistema planetario ha creato le condizioni per affamare e costringere allo spostamento milioni di persone, salvo poi reprimerne la libertà. Il capitale può andare ovunque, gli esseri umani no. Se c’è un esempio che indicherei come pura violenza, puro abuso di potere su una scala così ampia da riguardare tutti, indicherei questo e nient’altro. 

Il 4 febbraio 2011, sull’isola di Gorée al largo del Senegal, venne stilata la Carta mondiale dei migranti. Il primo punto recita: “Poiché appartiene alla Terra, qualsiasi persona ha il diritto di scegliere il luogo della sua residenza, di restare laddove vive o di andare ed istallarsi liberamente e senza costrizioni in qualsiasi altra parte di questa Terra.” Sembra così semplice. Del resto conosciamo già quest’idea. È il cuore del pensiero europeo, un concetto lavorato con cura nei secoli: nella filosofia come nell’arte e nella politica, la libertà splende come un valore primario. Ma oggi il nostro stesso continente provvede a una sua distruzione su base quotidiana.

I campi di Idomeni. I campi di Calais. L’hotspot di Pozzallo, vicino a Ragusa, la cui stragrande maggioranza delle presenze sono minori non accompagnati. Le torture. La burocrazia: per la convenzione di Dublino, la domanda d’asilo va presentata nel primo paese di arrivo. (E se uno vuole andare altrove? Non importa. Ti prendiamo le impronte digitali anche a costo della forza). La risposta militare sulle coste e la cosmesi per trasformarla in un’operazione di grande valore morale. I fermi, le minacce e gli sgomberi diretti a Ventimiglia. I respingimenti e le violenze in Turchia. Le frontiere alzate a Ceuta, in Bulgaria, in Ungheria, in Serbia. Gli assalti dei fascisti ai campi di identificazione e raccolta. L’idea stessa, aberrante, del campo. E naturalmente le acque insanguinate del Mediterraneo, quel mare che lo scrittore croato Predrag Matvejević cantava come “a un tempo un mondo a sé e il centro del mondo”, e che ora appare solo come un immenso cimitero di sommersi. 

Ma tutto questo lo sappiamo, no? Ed ecco di nuovo il punto: lo sappiamo — ma le cose non sembrano cambiare davvero. Per un tragico paradosso, la massima evangelica secondo cui la verità ci renderà liberi si ribalta nel suo opposto. Abbiamo la verità, ma ci libera soltanto dalle preoccupazioni. E cosa ancora più triste, nel fare questo può imprigionarci in un luogo particolarmente tetro: la rassegnazione.

Per questo il bambino che ero non aveva tutti i torti. La macchina del dolore: una maniera per superare il triste sapere giornalistico, l’elenco di quanto accaduto. La scintilla che può dare origine al cambiamento. All’accoglienza reale, a una lotta affinché nessuno più debba provare quel tipo di sofferenza. 

Di fronte all’idea svilita della verità come semplice trasmissione di fatti dobbiamo dunque opporne una più radicale, quella che suggeriva il grande scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo parlando — ancora una volta — del Mediterraneo. Dice così: “i porti che ha generato, le isole che culla, le linee e le forme delle sue rive rendono la verità inseparabile dalla felicità.”

La verità inseparabile dalla felicità. Proviamo a riflettere su questo suggerimento. Sembra contenere l’eco di una sapienza antica, di stampo greco. Una sapienza marina, ispirata a un umanesimo terreno. L’insegnamento del Mediterraneo è che ebbrezza e contemplazione si annientano nella stessa luce. La verità non è solo coerenza o rispecchiamento di quanto accaduto, ma una questione esistenziale. Di più: si confonde con essa, e avviene nel segno di una comunità. Ancora Izzo diceva che il Mediterraneo “non è altro che un appello alla riconciliazione”. Fra uomo e ambiente, verità e felicità, Occidente e Oriente, viaggiatori e persone inurbate, culture di ogni sorta. Nessun tipo di verità al di fuori di questo stare in comune, di questo abbraccio.

Una visione nobile e profonda, di cui resta ben poco. Il nostro mare è sempre stato pieno di battaglie, guerre, dolori; ma solo negli ultimi decenni è diventato una tomba collettiva su cui giace un enorme rimosso. Per la buona coscienza europea è necessario una confessione rapida, un’assoluzione implicita: non abbiamo colpe. L’essere umano che attraversa migliaia di chilometri e sopravvive a ogni sorta di avversità — guerre, terrorismo, fame, malattie, trafficanti, violenze fisiche e mentali — giunge alle nostre porte dopo mesi o anni (sì, possono volerci anni interi) chiedendo, semplicemente, di continuare a vivere con decenza. Che è quanto gli viene negato da un sistema per cui i confini sono più importanti dei corpi che li attraversano. 

Cosa opporre allora a tutto questo? Qual è la nostra personale macchina del dolore? Le storie, forse.

Le storie sono ciò che ci impedisce di ridurre questa immensa tragedia a un mucchio di concetti e numeri: le storie liberano le parole — migrante, clandestino, rifugiato, irregolare, in fuga — dalla loro banalità e dalla loro imprecisione.

La storia di dei detenuti del Cra di Vincennes, che incendiano il centro di detenzione dopo mesi di proteste e scioperi della fame; la storia di un uomo lì imprigionato che ha detto: “Ci sono persone che non mangiano, persone che si suicidano. Io stesso ho fatto tre tentativi di suicidio. Sono saltato una volta sulla recinzione, la terza volta mi sono dato fiamme e così via. E lo farò se non sarò libero. Lo farò finché non mi libereranno”.

La storia di Hassan, che dall’Italia sogna ogni notte la sorella Rahma, prigioniera della guerra in Siria e costretta a dormire per strada.

La storia di Zaher Rezai, un tredicenne afghano ritrovato morto a Mestre nel 2008; con sé aveva un taccuino sul quale aveva annotato delle poesie. Due versi recitano: “Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori / io stesso mi son fatto rosa, che bisogno ho di un altro fiore qualsiasi”.

O la storia di Kais, che parte dalla Tunisia come tanti, con un peschereccio adattato e resta in mare per tre giorni prima di riuscire ad arrivare a Lampedusa. E il terzo giorno sente la barca tremare, agitarsi sulle acque. La solitudine, il terrore, il gelo sulla pelle. L’acqua del mare di notte sotto di lui, e l’angoscia per chi gli sta a fianco — un figlio, un fratello, un amico — o anche solo una persona. Un corpo come il tuo. 

Questi sono racconti che non guardano soltanto al futuro, ma anche al passato: lo illuminano con una luce diversa. Dovrebbero ricordarci di quando i nostri avi si misero in cammino per sfuggire alla fame o alla miseria: dall’Italia all’America, all’Australia, alla Germania, alla Francia. (E non molti sanno che decine di migliaia di profughi europei, durante la Seconda guerra mondiale, trovarono accoglienza in Siria).

Quale ipocrisia pensare che questi esodi siano diversi. Dietro ogni migrante c’è spesso una catastrofe, o quantomeno una mancanza, un dolore originario. In un passo di Minima moralia, Adorno scriveva che “la vita passata dell’emigrante è, come è noto, annullata. Una volta era il mandato di cattura, oggi, invece, è l’esperienza intellettuale che viene dichiarata non trasferibile e totalmente estranea al carattere nazionale. Ciò che non è reificato, che non si presta ad essere contato e misurato, viene lasciato cadere.” Tutto ciò che all’Europa interessa è appunto il misurabile: un’impronta digitale, un nome, un foglio di carta. Quello che c’è dietro — la singolarità ineludibile di ogni persona, l’unicità di ogni esperienza — perde di significato.

Ecco, le storie si ribellano a questo pensiero. Le storie rivendicano l’eccezione e l’individualità contro la regola uniformante: narrarle, e ascoltarle, fa parte della nostra possibilità di riscatto morale. Perché non ci parlano di una massa confusa, ma di persone. Non dicono di clandestini, ma di esseri umani: liberi, affamati di felicità, terrorizzati dal destino dei propri cari. Esattamente come noi. 

Ma il bambino che ero a questo punto si alza e protesta. Ci costringe a essere onesti fino in fondo: persino le storie contengono il rischio dell’assuefazione. E di più: l’assuefazione al discorso stesso sull’assuefazione — anche a monologhi come questo, in fondo.

Allora è necessario qualcosa di più. Evitare di restare ascoltatori passivi. Le storie hanno la capacità di smuoverci e di farci agire: di cambiarci, letteralmente. Di questo sono e resterò sempre convinto. Ma richiedono anche una disposizione d’animo diversa dalla tranquillità con cui leggiamo di solito, evadiamo per un minuto dalla serenità di chi possiede ben oltre il necessario. Richiedono un cuore intelligente, un cuore capace di essere ferito. 

Il cinico vede nei corpi dei migranti scappati da una guerra o in cerca di condizioni materiali migliori — o anche solo semplicemente di una vita diversa — il rischio di un’invasione, di un contagio. Nessuna statistica e nessuna sofferenza altrui potrà levargli questa convinzione, per un motivo molto semplice: il suo odio è anteriore ai fatti. L’ha assorbito lentamente, un pregiudizio che circolava nell’aria da tempo.

Céline diceva che “quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli”. Già. Abbiamo accettato che il linguaggio dell’odio si diffondesse nelle nostre città, come un virus nel tanto celebrato Occidente dei diritti e della libertà: il linguaggio del rancore, del disgusto infondato. Abbiamo accettato che un nuovo razzismo prendesse piede — quello di chi si affretta a dire di non essere razzista, quello di chi ritiene che la vita di un individuo sia meno degna di essere vissuta solo perché è cresciuto sulla sponda sbagliata di un mare.

E abbiamo accettato anche il dolce loto dell’indifferenza. Gran parte di noi non odia affatto, non ha nulla contro quelle masse: ma si limita a constatarle, anche quando ne ascolta le storie. Cosa vediamo nei naufragi? Qualcosa di terribile, certo — ma dovuto in fondo alla sfortuna, al caso. Persino potremmo vederci un monito: se è tanto pericoloso, perché venire qui? Perché non restare dove siete? 

Ma un cuore intelligente sa perché così tanti corpi si sono messi per strada. Ne conosce l’urgenza, la rabbia, gli strazi; e rispetta il loro desiderio — basilare, essenziale — di avere un futuro. In altri termini: ha saputo cogliere il vero senso di queste storie. (Il direttore dell’Unicef l’ha detto con una semplicità disarmante: “Nessuno metterebbe un bambino su una barca se fosse disponibile un’alternativa più sicura”).

Leggendo un bel libro di Alessandro Leogrande, La frontiera, ho imparato a conoscere le “leggi di viaggio” redatte da due rifugiati etiopi, ora residenti a Roma. Si tratta di alcune regole di base che chi si mette in viaggio dal sud del mondo deve tenere presente. La legge che mi ha colpito di più è la numero 12: “Avere fortuna”. Avere fortuna. Come se fosse possibile comprarla o possederla. Come se la buona sorte fosse qualcosa che si può mercanteggiare.

Ecco, io credo che il nostro compito sia proprio questo: ridurre il più possibile la tirannia della fortuna sugli esseri umani in cammino. E possiamo cominciare correggendo le nostre parole, edificando accoglienza anche nel seno del nostro stesso linguaggio. Trasformare il pensiero comodamente seduto in poltrona in un pensiero in cammino.

Non c’è bisogno di una macchina del dolore. A volte penso ancora che sarebbe bello possedere un aggeggio del genere. Ma è impossibile. E dunque dobbiamo arrangiarci con ciò che abbiamo; le parole innanzitutto, e quindi i gesti. La compassione prima, e poi l’impegno. 

Ogni persona che ha la grazia della pietà ha già tutto ciò che serve. Dice un proverbio cinese: “Quando su un muro c’è una crepa, è meglio abbatterlo il più presto possibile”. I muri che si stanno alzando ovunque sono cosparsi dalle crepe di chi ne vede l’assurdità. Tanto quanto è stato crudele erigerli, tanto ora è urgente abbatterli.

Non crediate che sia soltanto un problema transitorio o legato a un dato periodo storico: in gioco c’è molto di più. Perché è in luoghi come il campo di Idomeni che oggi stiamo decidendo, concretamente e dolorosamente, che cos’è un essere umano. La libertà delle persone in fuga misura la nostra: più la neghiamo, più sprofondiamo in un abisso di vergogna e crudeltà, e più la libertà che viviamo ogni giorno suona come un insulto. La loro possibilità di avere un futuro misura il nostro. La loro stessa esistenza, in breve, misura il valore della nostra. 

È terribile pensare a tutti questi individui come a una semplice massa che giunge verso di noi in maniera casuale e scomposta; ed è sbagliato anche pensarli come oggetti inerti e semplicemente bisognosi di cure.

No, essi testimoniano invece una profonda dignità. Una resistenza all’oppressione, alla violenza terrorista o istituzionale, ai recinti, alla crudeltà gratuita, alla disperazione. Un fotografo siriano che ha lavorato nei campi dei rifugiati ha detto: “Le persone che ho incontrato sono nelle peggiori condizioni possibili, ma hanno il desiderio di continuare a rimanere umani”. E dunque soggetti liberi. 

È dallo straniero che viene che giungono i doni migliori, quelli che non avremmo mai sospettato di ricevere per paura o diffidenza. Albert Camus — uno dei primi a ricordarci che lo straniero giace dentro di noi — diceva: “Al mondo esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi”.

Restare fedeli alla bellezza e agli oppressi: non conosco modo migliore per dire quello che siamo chiamati a fare, di fronte a chi si mette in viaggio.

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