Il nostro è un istituto piccolo: conta 350 studenti o poco più.
Pur così piccolo è molto articolato. Ha quattro indirizzi: l’istituto tecnico
industriale (solo biennio) e tre indirizzi liceali completi: classico,
linguistico e scientifico.
Anche il bacino d’utenza è pure molto piccolo: appena 25.000
abitanti. Facendo raffronti con altre realtà, in base ai corsi che offriamo, si
può dire che la nostra è una scuola sufficientemente apprezzata. Diciamo che
stiamo nel mercato. O almeno cerchiamo, come dimostra l’impegno messo nelle
attività sostitutive degli esami di riparazione, di cui qui andiamo a
riferire.
Già perché anche qui sono stati aboliti gli esami di
riparazione, anche qui nello stesso anno, il 1994 ed, ovviamente, anche qui
all’improvviso. Lo ricordo bene. Era il mio primo anno da preside della scuola
secondaria superiore.
Ero arrivato nella scuola secondaria superiore, per
trasferimento dalla scuola media, il 1° gennaio di quell’anno. Come è usuale
quando si va in un posto nuovo, mi presentai anch’io con qualche idea, con
qualche progetto. Come succede tante volte, i progetti sono rimasti nel
cassetto perché si finì per essere sopraffatti dalla contingenza.
La prima contingenza si presentò appena terminati gli scrutini
del primo quadrimestre. Si presentò col Decreto Jervolino, quello che ha
modificato l’impianto dell’Istituto Tecnico Industriale. Si dovette elaborare
una proposta e si chiese al Deputato alla Pubblica Istruzione, cioè il nostro
Ministro, di procedere celermente con un apposito atto legislativo perché i
nostri ragazzi non si trovassero in difficoltà in uscita dal biennio. A giugno
già era tutto a posto.
Vivere in un paese piccolo ma anche essere l’interlocutore unico
del Deputato, in quanto unico preside delle superiori della Repubblica, è
indubbiamente un gran vantaggio.
Con l’estate l’altra novità: l’abolizione degli esami di
riparazione. Un fulmine a ciel sereno. Il Deputato annunciò subito
pubblicamente: anche San Marino farà altrettanto e subito.
Provai a far presente che, questa volta, non era necessario
aver fretta. Che, anzi, era il caso di aspettare, dato che non era chiaro in
cosa consistessero le attività sostitutive. Ma, si sa, la politica ha
esigenze diverse da quelle dell’amministrazione ordinaria. Ha sue regole, una
sua logica ed anche dei tempi propri.
Il Deputato alla Pubblica Istruzione chiese di preparargli una
proposta, contenente ovviamente anche le attività sostitutive, prima
dell’inizio delle lezioni cioè entro il 25 settembre. La ragione di tanta
fretta era sacrosanta: genitori, studenti, insegnanti, tutti hanno diritto di
sapere già dall’inizio dell’anno scolastico come è organizzata la scuola.
Essere l’interlocutore unico del Deputato, vi assicuro che non
è sempre un vantaggio.
A metà settembre, appena terminati gli esami di riparazione –
gli ultimi – in una pausa degli incontri dedicati alla formazione ed
all’aggiornamento, abbozzai una prima proposta in un Consiglio di Presidenza.
Il 23 dello stesso mese la proposta fu esaminata ed approvata in un Collegio
dei Docenti ed il 26 venne discussa nel Coordinamento Didattico, un
organismo formato dai presidi e dai direttori didattici e presieduto dal
Deputato stesso.
Nelle cose della scuola non ci si può accontentare delle
approvazioni formali, che di per sé, non danno certo garanzie nel merito. Dato
che la proposta era stata tutta elaborata in casa, senza l’avallo di esperti,
ritenni necessario sottoporla a verifica, ricorrendo al confronto con
l’esterno.
Già un’altra volta mi ero trovato nella necessità di sottoporre
a verifica esterna una proposta. Quand’ero preside di scuola media, a metà degli
anni Ottanta, per una iniziativa nel campo della didattica dell’informatica.
Adoperai la procedura solita: partecipazione a convegni specifici e invio di
articoli a riviste del settore.
Nel settembre del ’94 di convegni specifici non ne trovai
proprio, nonostante che tutti ne avessimo bisogno. Mi rimaneva l’altra strada.
Feci una sintesi del progetto e la mandai a Nuova Secondaria – che non è
l’ultima delle riviste – nelle prime settimane di ottobre.
Nel novembre era già pubblicata. Chi è uso a frequentare
riviste sa che i tempi ordinari non sono questi. Ancor più singolare il fatto
che la proposta non comparisse assieme ad altre, ma sola soletta. Il che non
è piacevole. Nel mondo della scuola i progettatori sono rari ed invece sono
numerosissimi e di altissima specializzazione i tiratori che prendono di mira
le proposte degli altri.
Alla proposta avevo dato questo titolo: un’occasione per
ripensare la scuola.
L’abolizione degli esami di riparazione di per sé non comporta
un ripensamento della scuola, cioè dei cambiamenti strutturali. Sarebbe bastato
ricordarsi, in sede di scrutinio finale, che non si poteva più rimandare a
settembre (ma solo promuovere e bocciare), ed automaticamente una scuola con
esami di riparazione sarebbe diventata una scuola senza esami di riparazione.
Tutto questo se gli esami di riparazione fossero stati una appendice inutile e
comunque priva di significato.
In effetti gli esami di riparazione almeno un significato lo
avevano ancora: quello di una ammissione: che la scuola forniva un servizio
limitato, anzi insufficiente per alcuni ragazzi. I ragazzi per i quali il
servizio erogato risultava insufficiente dovevano supplire con risorse proprie.
Al più la scuola accordava loro un tempo supplementare che coincideva con un
‘tempo morto’ per la scuola stessa, in quanto al di fuori del normale periodo
delle lezioni.
L’abolizione degli esami di riparazione comportava la
eliminazione di quel tale tempo supplementare: costringeva tutti gli studenti
a raggiungere il livello di preparazione minimo entro il termine delle lezioni.
Avrebbe fatto crescere la rigidità.
Già le scuole secondarie erano considerate troppo rigide. Già
l’anno scolastico da settembre a settembre era visto come un letto di Procuste.
Faceva troppi scarti. Accorciando quel letto gli scarti sarebbero aumentati. Il
che era inaccettabile. Per evitare l’aumento degli scarti si sarebbe dovuto
abbassare il livello minimo della preparazione richiesta, cioè della qualità
del servizio. Ma anche questo era inaccettabile. Le università non si
accontentano più dei certificati delle secondarie superiori, eseguono verifiche
in proprio prima di iscrivere gli studenti a certi corsi.
Per non abbassare il livello e nemmeno aumentare gli scarti
bisognava accompagnare il provvedimento con una modifica di struttura.
Il che non era avvenuto ad esempio nelle scuole medie inferiori
nel 1978.
Nelle scuole medie inferiori gli esami furono aboliti senza
modifiche di struttura. Lì non si andò oltre ad un appello alla professionalità
degli insegnanti. L’abolizione degli esami di riparazione fu addossata
tout court agli insegnanti ed, in particolare, agli insegnanti delle
materie per le quali il rimando a settembre era più frequente. E, quegli
insegnanti, vi hanno dovuto far fronte – e vi devono tuttora far fronte – nel
normale spazio di insegnamento. Dopo qualche anno si è finito per
dimenticare la esistenza stessa di una problematica conseguente all’abolizione
degli esami di riparazione, come se quegli esami, in quella scuola, non ci
fossero mai stati: come se la scuola fosse sorta e progettata senza di
essi.
Siccome avevo vissuto direttamente come preside
quell’esperienza senza poter intervenire, mi sembrava doveroso fare ogni
tentativo perché nelle superiori le cose andassero diversamente, perché gli
insegnanti più direttamente coinvolti nella innovazione non fossero lasciati
soli a fronteggiare la nuova situazione. Mi sembrava doveroso fornire a loro
ulteriori spazi di intervento, dotarli di nuove risorse e, soprattutto,
affiancarli con iniziative a carico di tutta la scuola.
Al contempo era mio dovere salvaguardare i diritti dei ragazzi
che, prima dell’abolizione degli esami di riparazione, avevano a disposizione
tutto il tempo che va da settembre a settembre, cioè dei ragazzi che faticano
a seguire il ritmo delle attività scolastiche ordinarie. Mi è sembrato
necessario, per loro, proporre di ridurre il ritmo di tali attività, dare un
po’ di respiro, prevedere qualche momento di tregua, allentare insomma il
calendario scolastico sulla falsariga di quanto avviene in altri paesi europei
dove i 200 giorni di lezione sono distribuiti su un arco di mesi più lungo che
nelle nostre scuole.
Il ritmo delle attività nelle nostre scuole è funzionale a chi
vi lavora ed assai meno ai fruitori. Ancora dividiamo l’anno in due soli
blocchi: un lungo periodo di lezioni ed una lunga pausa estiva. Il nostro
calendario è nato in una società borghese e contadina. Continuiamo ad
applicarlo in una società che si avvia a diventare post industriale.
Quello del calendario è però un problema molto delicato e
difficile. Perciò, nella proposta, ci si limitò a un ritocco piccolo,
piccolissimo, minimale, quasi impercettibile. Prima dell’abolizione degli
esami di riparazione gli insegnanti delle superiori erano impegnati già, a
vario titolo, dai primi di settembre fino a tutta la seconda decade di giugno o
quasi. Ci si limitò a proporre una riorganizzazione delle attività in tale
periodo.
In tale arco di calendario i giorni utili sono oltre 220.
Riservati i soliti 200 alle lezioni curriculari, se ne sarebbero potuti
impiegare una ventina per attività aggiuntive, nuove, appunto quelle
sostitutive degli esami di riparazione.
La proposta prevedeva l’anticipo delle lezioni agli inizi di
settembre, la suddivisione in trimestri, con due periodi di sospensione delle
lezioni alla fine del primo e del secondo trimestre della durata massima, per
ciascuno, di 10 giorni da dedicare in primo luogo al recupero. Si pensava ad
un recupero forte, intensivo, offerto ai ragazzi segnalati in sede di scrutinio
trimestrale e limitatamente ad un ventaglio di materie indicate, corso per
corso, dal Collegio dei Docenti.
Oltre a questo recupero intensivo a scadenza fissa, si era
previsto un recupero in itinere, veloce, da pronto intervento. A ogni
insegnante si dava la possibilità di spendere fino a due ore settimanali, al
pomeriggio, a favore dei propri ragazzi, decidendone tutte le modalità di
attuazione in piena autonomia.
Erano previste inoltre attività elettive cioè a scelta dei
ragazzi distribuite durante l’anno ma particolarmente concentrate nei periodi
di sospensione delle lezioni e rivolte soprattutto ai ragazzi non impegnati nel
recupero.
Questa era la proposta iniziale. Una proposta teorica, sulla
carta. Andava attuata.
La organizzazione effettivamente realizzata è, al contempo,
uguale e diversa da quella ipotizzata. Non ci sono i trimestri, i periodi di
sospensione non si sono aggiunti ai 200 giorni delle lezioni, ma sono stati
ricavati dai 200 giorni delle lezioni curriculari. La durata di tali periodi è
stata dimezzata (da 10 a 5 giorni), però si è creato un nuovo periodo
all’inizio dell’anno per i ragazzi segnalati a giugno e per i nuovi
arrivati.
Le modifiche sono derivate da mediazioni interne alla scuola e
da mediazioni esterne alla scuola: sindacali e politiche. Si sa, il mondo
della scuola è molto complesso, ed ogni proposta è necessariamente soggetta a
una serie di mediazioni.
Tuttavia è rimasta la impostazione di fondo caratterizzata dai
punti forti: il recupero intensivo, il recupero in itinere e le attività
elettive. Ed è passato soprattutto il fatto che il recupero è responsabilità
della scuola e che la scuola non può non farsene carico.
Si può dire che l’abolizione degli esami di riparazione ha
lasciato il segno, che ha costituito effettivamente un’occasione per ripensare
la scuola o che ha contribuito a gettare le basi per farlo. Merito questo
degli insegnanti, un merito che va sottolineato e pubblicamente riconosciuto.
Come è doveroso da parte mia segnalare pubblicamente e
ringraziare i coordinatori, il prof. Marcello Bollini ed il prof. Filiberto
Bernardi senza dei quali questa esperienza non si sarebbe potuta intraprendere e
realizzare. Essi meglio di quanto possa fare io riferiranno sull’attuazione
pratica dell’esperienza ed a loro cedo quindi il posto e la parola.
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