L’arrivo sul Titano
Alberoni
si
trasferisce a Rimini
Alberoni si accosta ai confini della
Repubblica di San Marino nella giornata di venerdì 16 ottobre. Non fa tappa, però,
a Santarcangelo, come era stato preannunciato. Va a Rimini. Almerighi, mandato
in avanscoperta, giovedì 15 gli ha riferito di possibili difficoltà nel guadare
il Marecchia, ingrossato dalle piogge, per raggiungere la Repubblica da Santarcangelo.[1]
In effetti questo non è l’unico cambiamento e comunque non è
il più importante.
Il programma di Almerighi prevedeva l’arrivo del Cardinale
venerdì 16 verso sera a Rimini presso il
Convento dei Padri Rocchettini, ed il trasferimento sabato 17 di buonora presso
il Convento dei Padri Olivetani sul colle di Covignano. Qui sarebbe arrivato a ‘prelevarlo’
un gruppo di sammarinesi per accompagnarlo poi ai confini distanti appena due miglia, dove lo avrebbe atteso il
grosso della popolazione della Repubblica.
Almerighi era arrivato a Rimini martedì 13 per predisporre
il tutto.[2]
Resosi conto che le famiglie Lolli e
Belzoppi non sarebbero state in grado di assicurare la presenza ai
confini di un numero significativo di persone, Almerighi aveva preso contatto
con due preti sammarinesi, don Filippo Ceccoli di Fiorentino e don Teodoro
Faetani di Borgo. Questi da tempo (come forse altri preti delle famiglie
Sabbatini e Centini ed alcuni parroci) erano andati promettendo che, all’ora
convenuta, si sarebbero mossi incontro ad Alberoni alla testa di loro compaesani.
Ma giovedì 15 i due preti gli avevano fatto sapere che non sarebbero stati in
grado di onorare l’impegno: i compaesani non si sarebbero mossi dalle loro
case, per il panico timore d’esser poi
castigati dai governanti. I due
preti, tuttavia, gli promisero, questo sì – e, su sua richiesta, glielo promisero
per iscritto – che, coi loro compaesani, sarebbero usciti dalle case appena si
fosse sparsa la notizia dell’avvio dell’operazione.
Venerdì 16 i parroci di Serravalle e Faetano, parrocchie della
diocesi di Rimini, sono stati convocati urgentemente – e, a quanto pare, separatamente
– dal loro vescovo mons. Renato Massa, nel suo
casino in Savignano.[3] Egli
li ha informati della venuta in Repubblica del card. Giulio Alberoni con
l’incarico da parte del papa di raccogliere la dedizione dei sammarinesi alla
Santa Sede. Ha sollecitato la loro collaborazione facendo riferimento al Breve
ed alle Istruzioni e raccomandato, infine, sopra
ciò tutto il silenzio. Lo stesso venerdì 16 ottobre, i due parroci, su
indicazione dello stesso vescovo, hanno incontrato Almerighi a Rimini, nell’osteria della Posta.
Pare che Almerighi,
nella circostanza, non abbia avuto remore ad esibire ai due parroci una copia delle Istruzioni per
supportare meglio la sua richiesta di collaborazione. Pare che non abbia esitato
a ricorrere a mezzucci anche poco onorevoli, fino a dire: se v’abbisognasse denari ve li daremo.[4]
Senza successo. Vista la loro resistenza a impegnarsi a muoversi per primi
incontro al Cardinale assieme ai loro parrocchiani, Almerighi – racconterà il
parroco di Faetano – si è infuriato fino a gettare
il Capello per terra.
Cambiamento di programma
A Rimini
Alberoni arriva venerdì 16 quando è buio. Pernotta, come stabilito, presso il
Convento dei Reverendi Padri Rocchettini,[5]
dove apprende subito da Almerighi che l’indomani non ci sarà gente al confine ad
accoglierlo perché li curati[6] non
sono riusciti a convincere i parrocchiani a uscire allo scoperto prima del suo
arrivo in Repubblica, per timore dei governanti.
Nel Breve e nelle Istruzioni
l’accorrere della gente al confine era dato come condizione essenziale, una conditio sine qua non, per dare inizio
all’operazione. Altrimenti non si sarebbe potuto sostenere davanti alle grandi
potenze e, in particolare, davanti all’impero che l’acquisizione della
Repubblica era avvenuta per dedizione spontanea e volontaria della popolazione.
L’ordine di Roma, in proposito, è chiaro e tassativo: arrivata … alli Confini di S. Marino, attenda colà quelli, che
volontariamente verranno ad implorare la di lei Protezione. Nel caso che corra
ad accoglierlo la
massima, e la più sana parte del Popolo di San Marino, il Delegato Apostolico ha la facoltà di procedere
oltre. In assenza di gente al confine, deve rinunciare. Alberoni, a rigore,
deve riprendere la strada di Ravenna. Le disposizioni non gli consentono alternative.
Alberoni pur sapendo che al confine non troverà gente, non ritorna
a Ravenna. Scrive a Firrao la sera stessa di venerdì 16 per avvertirlo dell’imprevisto
e anche per comunicargli che ha deciso di partire ugualmente alla volta di San
Marino dandosi un atteggiamento da turista. Nel caso che la gente accorra a
lui, allora, e solo allora, procederà all’accoglimento formale della eventuale
richiesta di dedizione spontanea alla Santa Sede.
Fra altri, accompagnano Alberoni: Barone Giorgio de Redegeltt,
maggiordomo del cardinale, proveniente da Ravenna; Padre Giulio Martinelli,
Abbate dei Lateranensi di San Marino in Rimini (Padri Rocchettini); due notai:
Marino Bertozzi di Pennabilli e Ottavio Amato Bartolucci di Rimini; due
sammarinesi: Giancarlo Lolli e Vincenzo Belzoppi. Soprattutto, a fianco del
Cardinale, c’è Antonio Almerighi il ‘factotum’ dell’operazione.
Il corteo dei ‘villeggianti’ muove da Rimini alla volta
della Repubblica di San Marino di buon’ora, verso le 6,30 di sabato 17 ottobre.
Giunge a Serravalle alle 8 passate. Lì il parroco, don Antonio Tommasi, su
ordine scritto di Almerighi arrivatogli verso le 23 della notte precedente[7], mediante le sue premure usate per tutta la
notte,[8] era
riuscito a radunare dei parrocchiani con questa aspettativa: udire la Dottrina Christiana che doveva insegnare
Monsignor Vescovo di Rimini. Invece del vescovo di Rimini arriva il
Cardinale Alberoni. L’unico in paese che avrebbe potuto contrastare l’azione
del parroco sarebbe stato Lodovico Belluzzi (fratello di Gian Benedetto) che in
quei giorni soggiornava appunto a Serravalle, dove la famiglia disponeva di una
seconda casa. Ebbene don Tommasi, con il falso avviso di una grave emergenza
familiare, lo aveva indotto, nella notte, a rientrare urgentemente a San Marino
Città.
La dedizione di Serravalle
Racconta Alberoni a Firrao: a Serravalle è venuto il Paroco con più di
trecento (!) uomini ad incontrarmi
oltre il numero delle Donne, e ‘Viva il Papa, e il Cardinale Alberoni’.[9] Don
Tommasi, seguendo puntualmente le istruzioni ricevute da Almerighi, a nome dei
parrocchiani, avanza al Cardinal Alberoni la richiesta di passare sotto il
dominio diretto della Santa Sede.[10]
In questi termini: Eminentissimo
Principe. Io col mio Popolo appiedi dell’Emi-nenza Vostra supplicante
addimandiamo umilmente di essere accettati sotto l’Obbedienza, e così Sudditi
della Santa Sede per giuste cause e motivi che qui sarebbe lungo il riferirli,
onde a tale effetto imploriamo la grande protezione di Vostra Eminenza.[11]
Il
Cardinale prontamente accoglie la richiesta: quando state disposti, e vogliate spontaneamente essere sudditi di Sua
Santità, è ben ragionevole che io vi assista, come vi prometto di fare assicurandovi,
che vi date a un Principe che vi sarà Padre Amorosissimo, vi solleverà
dagl’incomodi, accordandovi li privilegi antichi con aggiunta de’ nuovi, che
non siano nocivi agl’altri Sudditi del Santo Padre. Seguono le grida: viva il
Sommo Pontefice, viva il Papa che è nostro Padrone; umilissime grazie
all’Eminenza Vostra che supplichiamo di sua protezione.
I due notai al seguito, Bartolucci e Bertozzi, stilano
l’atto della Dedizione del Popolo di
Serravalle come richiesto da don Tommasi. Firmano come testimoni Martinelli
e Barone Giorgio de Redegeltt, cioè due personaggi al seguito.
Racconta ancora lo stesso Alberoni: questo numeroso Popolo di Serravalle m’ha accompagnato al Borgo di S. Marino,[12]
cioè ai piedi del Monte Titano, sulla cui cima sta la capitale della Repubblica.
L’imprevisto
di Borgo
A
Borgo, aveva detto Almerighi, vi sarà
altra gente.[13]
Invece altra gente a Borgo non c’è.
Non c’è proprio. Nemmeno quella del posto. Eppure don Teodoro Faetani (di
Borgo) aveva assicurato per iscritto Almerighi non più tardi di giovedì 15: i
compaesani quando vedranno qui il loro
Liberatore compariranno da lui e si daranno al Papa.[14]
No. La gente non esce dalle case. Invano Almerighi, da Foriere a Cavallo, è
corso avanti al Calesse di Sua Em.za,
e, giunto alla Chiesa, ha fatto
suonare le campane ad un Mendico ivi a
sorte ritrovato.[15]
Eppure a Borgo abita Vincenzo Belzoppi, figura di spicco degli
artigiano-commercianti che hanno le loro botteghe attorno alla piazza del
mercato. E lì vicino, a Valdragone, ha sede la potente e vasta Confraternita
della SS. Annunziata, notoriamente in rotta coi governanti.
Alberoni, paziente, smonta dal Carozzino per rigolarsi. Cioè per decidere il da farsi. Non si
trattiene dal dolersi del silenzio de’
Borghiggiani. I quali Borghiggiani
punto non si riscossero benché l’Almerighi scorrendo a Cavallo ogni Contrada
colle mani, co’ Piedi, colle voci, cogli’occhi, li sollecitava a gridare: ‘Viva
il Papa’.[16]
A Borgo, a detta di Almerighi,
avrebbe dovuto esserci anche la gente proveniente da altri luoghi della
Repubblica, fatta convogliare lì dai curati.
Per Fiorentino don Filippo Ceccoli giovedì 15 aveva scritto ad Almerighi: se S.E. verrà in S. Marino i compaesani allora anderanno ancor essi a soggettarseli.[17] Eppure
non arriva nessuno né da Fiorentino né da altrove. Il tempo ci sarebbe stato.
Alberoni è entrato a Serravalle verso le 8. Ha speso alcune ore per ricevere la
dedizione di quella parrocchia e poi per salire a Borgo, piano piano, in
calesse. Adesso è quasi mezzogiorno. In poco più di un’ora si raggiunge Borgo
da qualsiasi angolo della Repubblica. La piazza, invece, è vuota.
La
dubbia dedizione di Borgo
Nonostante che la piazza di Borgo
sia vuota, i due notai, Bartolucci e Bertozzi, stilano un atto sulla falsariga
di quello di Serravalle che attesta la libera dedizione dei Borghiggiani alla
Santa Sede e l’accettazione di tale dedizione da parte di Alberoni. Mentre però
a Serravalle la richiesta è stata espressa dal parroco, di cui è riportato nel
verbale nome e cognome, non è dato sapere chi abbia proposto la Dedizione del Popolo del Suburbio di San Marino. Nell’atto sono riportati solo i nomi
dei due soliti testimoni: Martinelli e Barone Giorgio de Redegeltt.
Nella preparazione
dell’impresa era stato previsto che a Borgo una marea di gente avrebbe accolto
Alberoni come liberatore e che poi lo avrebbe portato su per la costa del monte
come sulla cresta di un’onda, su fin in Città, la capitale, e poi fin dentro il
Palazzo Pubblico. I governanti in carica sarebbero scappati oppure si sarebbero
rassegnati a firmare la dedizione. Alberoni e i suoi, fidandosi ciecamente di
quel che da mesi andava millantando Almerighi, erano così certi dell’accorrere
di tanta gente in Borgo che non era stata prevista alcuna alternativa.
Alberoni, dopo essersi trattenuto per Piazza
passeggiando per quasi un quarto d’ora,[18]
nonostante che alcuni suoi accompagnatori propendano per abbandonare l’impresa,
decide di andare avanti.[19] Saputo
che in Città i governanti sono incerti se chiudere o no le porte, Alberoni,
astutamente, lascia sulla piazza tutto il suo seguito, di modo che dall’alto
del Monte si veda che il convoglio è fermo lì, e quatto quatto si defila. In
tutta fretta, da solo o quasi, a dorso di mulo (anzi lui dirà a piedi[20])
affronta non senza gran fatica, il camino
di quel scoscese Diruppo ed entra nella piccola capitale per la porta principale, la Porta di San
Francesco, che trova aperta.[21]
Ed una volta entrato si sistema a Palazzo Valloni, la dimora di una famiglia
benestante che da qualche tempo si era trasferita a Rimini (e che era stata precontattata
dal solito Almerighi).[22]
Nessuno ad accoglierlo. Non tenta nemmeno di salire verso il Palazzo Pubblico,
sede del governo e del Consiglio. La tana dei governanti.[23] Come
avrebbe potuto affrontarli senza il sostegno di una folla?
Primo contatto coi governanti
Verso le 14 di quello stesso sabato
17 Alberoni spedisce da Palazzo Valloni un biglietto a Ravenna per avvertire
che si tratterrà a San Marino ancora per otto giorni. Raccomanda ai suoi
collaboratori di laggiù: voi dovete
prendere le vostre misure per cotesti Lavori che non abbino a tardare a causa
della mia assenza.[24]
Ordina che gli mandino subito il cuoco, dei salami e un prosciutto. Non si fida
di quel che i sammarinesi potrebbero dargli da mangiare! Infine trasmette la
richiesta d’un Piviale, d’una Pianeta, e
di due Tonicelle. Poi aggiunge: se
avete una cappa magna me la manderete. Infine decide per l’abito lungo di scarlato. Ordine
tassativo: il tutto che si trovi Sabbato 24 qui in S. Marino.
Alberoni dunque ha in programma di
trattenersi sul Titano tutta la settimana veniente. Prima di rientrare a Ravenna
presenzierà una cerimonia religiosa solenne, un Pontificale. Si immagina, a conclusione
della vicenda. Dunque Alberoni si dà una settimana per risolvere la partita. Non
sappiamo con quale strategia, dato che, quella prevista ed autorizzata dal
Breve e dalle Istruzioni, fondata sulla sollevazione della gente contro i governanti,
si è rivelata priva di fondamento.
Dopo Ravenna, Alberoni scrive a Roma. A Firrao. Gli racconta
quel che è avvenuto. Imprevisti compresi. Infine lo rassicura. Porterà comunque
a termine l’operazione nel sostanziale rispetto delle modalità impostegli.
Infatti, non è entrato in Città, nella capitale, senza che nessuno abbia osato
contrastarlo, levare la voce contro di lui, mancargli di rispetto? Io potevo – si vanta con Firrao – condurre meco soldati e sbiraglia, ma ho
creduto fosse di maggiore onore, e decoro della S. Sede, e perché il mondo veda
che questa dedizione è stata fatta puramente volontaria, il comparire qui
inerme, e senza altra assistenza, che quella del coraggio, e della mia
rappresentanza, che in simili casi basta per incutere timore, e rispetto anche
ai più arditi.[25]
Prima
contestazione
Alberoni già dopo un’ora deve
ricredersi circa la sufficienza della sua rappresentanza
… per incutere timore, e rispetto ai
sammarinesi.
I Capitani inviano a Palazzo Valloni due esponenti di alto
rango, Pierantonio Leonardelli (fratello del Canonico) e Giuseppe Onofri, ad inchinare S. Em.za[26] e
a chiedergli in che cosa possano servirlo. Il Cardinale ringrazia della
cortesia, ma non scopre le sue intenzioni: risponde che a suo tempo avrebbero inteso lo scopo del suo viaggio.
Nell’uscire i due ambasciatori trovano la
Sala di Palazzo Valloni piena di
Contadini di Fiorentino … armati d’arme curte, e l’anticamera con molti Preti
susurroni (!) ed altri contumaci.[27]
Che cosa è successo?
Don Filippo Ceccoli la sera di venerdì 16 invano ha cercato
di convincere il parroco di Fiorentino don Carlo Salviati ad andare incontro ad
Alberoni l’indomani di buon’ora coi suoi parrocchiani.[28]
Solo nella tarda mattinata di quello stesso sabato e solo dopo avergli mostrato
la lettera della Segreteria di Stato contenente le Istruzioni, è riuscito a smuoverlo.
Quindi tardi. Quando il gruppo (una ventina di uomini, fra cui molti Ceccoli[29])
arriva a Borgo, il Cardinale è già passato. Non trovando lì, contrariamente
alle attese e alle vanterie dei Ceccoli, né gente,
né segno d’allegria,[30]
alcuni vorrebbero ritornare indietro. I Ceccoli però insistono e riescono a
convincere i compaesani a salire in Città. Raggiungono la Città per la
scorciatoia della ‘costa’, entrano per la Porta della Rupe e si presentano a
Palazzo Valloni. Qui si trovano davanti Leonardelli e Onofri.
Onofri si trattiene nel vederli. Leonardelli no. Comincia a
inveire contro di loro. Si mette a far pratiche
per spaventarli. Ad uno gli ha
intimato la Carcere,[31]
annota Alberoni, cui subito hanno riferito l’accaduto.
Una nuova strategia
Alberoni si guarda bene dal
rimproverare quelli di Fiorentino per il ritardo. Anzi, li accoglie subito gentilmente. Li tira su di morale. Li
incoraggia. Ne hanno bisogno dopo l’impatto con Leonardelli. Alberoni accoglie
subito la loro richiesta espressa dal parroco di divenire sudditi della Santa
Sede. E con sommo loro piacere, dice
un Cronista di Pennabilli filoalberoniano (di qui in avanti solo ‘Cronista
pennese’), eseguono l’ordine del
Cardinale di trattenersi nella sala del
Palazzo.[32] A
difesa della sua persona?
Alberoni si rende conto che il comportamento di Leonardelli
potrebbe essere il segno che i governanti non hanno alcun timore riverenziale
verso di lui, visto di che cosa è stato capace uno di loro a due passi da lui.
Allora cambia registro. Passa a intimorirli. Mette in giro la voce che saranno
chiamati centinaia di soldati da Verucchio. Proprio da Verucchio.[33] Verucchiesi
e sammarinesi si odiano da secoli. Per secoli non hanno perso occasione per
darsele di santa ragione anche fisicamente oltre che nelle aule dei tribunali
per una controversia di confine nata nel 1463. Per i sammarinesi finire alla
mercé di quelli di Verucchio è molto pericoloso.
Ebbene Alberoni minaccia la Repubblica di chiamare i soldati
di Verucchio. Nel contempo, però, offre ai governanti una scappatoia per
evitarlo. Senza impegnarsi direttamente, cioè in prima persona, fa in modo,
attraverso i suoi aiutanti, che il parroco di Fiorentino, don Salviati, prenda
l’iniziativa di salire a Palazzo Pubblico, latore di un messaggio per i governanti.
Alberoni, come risulta dal Breve e dalle Istruzioni, è stato
inviato sul Titano col pretesto di liberare la popolazione sammarinese dalla
oppressione dei governanti. In effetti quel che a Roma interessa è la dedizione
della Repubblica di San Marino alla Santa Sede. Fallito il progetto di
conseguirla attraverso la sollevazione della gente contro i governanti,
Alberoni prova ad ottenerla dai governanti stessi. È una strategia diversa,
anzi opposta a quella prevista ed
autorizzata dal Breve e dalle Istruzioni. Il risultato però sarebbe lo stesso.
A Roma, in fondo, quel che importa è il risultato.
Una proposta ‘indecente’
Alberoni, attraverso i suoi
collaboratori, convince don Salviati a salire a Palazzo Pubblico con l’incarico
di riferire, come parole esatte profferite dalla bocca stessa del Cardinale, il
seguente messaggio: abbino giudizio, che
domineranno loro.[34]
Messaggio che il parroco traduce ai governanti con l’invito e la sollecitazione
ad avere giudizio, perché l’Eminenza sua
istessa erasi espressa che avrebbero essi continuato il governo. Insomma
per i governanti in carica e per tutta la classe nobiliare, non sarebbe
cambiato nulla con la dedizione della Repubblica alla Santa Sede: le leve del potere
sarebbero rimaste ancora nelle loro mani. Garante il card. Giulio Alberoni.
A ricevere materialmente la proposta
avanzata da Alberoni è la Congregazione appositamente costituita fin da
settembre per affrontare la controversia con la Santa Sede scoppiata col caso
Lolli. Vi fanno parte Onofri, Maccioni, Leonardelli, Manenti, Marino Giangi e
Beni.[35] Ed
è presieduta dai Capitani pro tempore Gian Giacomo Angeli e Alfonso Giangi. La
Congregazione, seduta stante, giudica indecente la proposta di Alberoni fatta arrivare
attraverso don Salviati. Ed incarica lo stesso don Salviati a riferire di
conseguenza.
I governanti, respinta con sdegno – come riferirà lo stesso don Salviati
– la proposta di barattare la fine della Repubblica con la promessa della mera
conservazione delle loro posizioni di potere, personali e di rango, proseguono
nel proposito, maturato già al ritorno di Onofri e Leonardelli, di resistere ad
Alberoni con ogni mezzo, compresa la forza. Primo atto del governo sammarinese
dopo l’arrivo di Alberoni: adunanza delle milizie.
Alberoni, al rifiuto della sua proposta, reagisce mandando a
Palazzo Pubblico un suo Ministro a
cercare Leonardelli e per far sapere ai governanti, lì riuniti in permanenza,
che se non verrà revocato l’ordine di adunare le milizie, egli sarà costretto a
chiamare sul Titano i soldati pontifici.[36]
A cominciare da quelli di Verucchio.
Verucchio o non Verucchio i sammarinesi non ‘consegnano’
Leonardelli e neppure ritirano l’ordine per il raduno delle milizie. Sono
convinti che Alberoni minacci a vuoto. A loro risulta che Alberoni – è lo
stesso Alberoni a raccontarlo a Firrao – non è più in grado di muovere soldati
perché le facoltà di Cardinal Legato
di Romagna sono ormai d’antica data e comunque
sono cessate per il Possesso preso
della carica da parte del nuovo Legato, il card. Marini.[37]
Dopo la presa di possesso di Marini, le cose a Roma, a parere dei sammarinesi, non
possono essere cambiate, essendo noto a tutti che Nostro Signore da qualche tempo in qua, trovavasi in stato a non poter
fare altri provvedimenti.
I governanti sammarinesi, dunque, non ritengono possibile
che il Cardinale sia entrato in Repubblica in base ad un ordine specifico della
corte papale. Credono che si sia mosso per iniziativa personale. Propendono per
un colpo di testa spiegabile con l’età ed i trascorsi del Cardinale e messo in
atto all’insaputa della corte romana, quando il suo incarico di governo in
Romagna è scaduto.
Alberoni
chiama i soldati
Alberoni viene a sapere di quelle
voci, circolanti fra i sammarinesi, che mettono in dubbio le sue facoltà. Sospetta, forse, che siano
state fatte arrivare sul Titano da Marini o da qualcun altro del Sacro Collegio
dei cardinali. Potrebbe smentirle subito quelle voci esibendo il Breve o le
Istruzioni. No. Preferisce stroncarle impartendo ordini che di per sé
dimostrano che egli agisce nella pienezza delle sue funzioni ed in piena
sintonia con Roma.
Come apprende che il
Capitano della milizia sammarinese girando
per la Terra animava i più idioti – così scrive in una lettera a Firrao – a diffendere la libertà della Patria[38]
e, convocata la soldatesca, andava prendendo posizione alle porte e
nella Guaita, cioè la fortezza del paese,[39]
Alberoni comunica ai governanti che se la
Repubblica aveva desiderio di vedere le milizie, egli le avrebbe mostrate le
sue.[40] E
fa venire davvero – racconterà egli stesso a Firrao – proprio da Verucchio … 200 uomini commandati dal loro Capitano Sergenti e
Caporali.[41]
I governanti inviano a Palazzo Valloni due Sacerdoti Cittadini per esplorare la mente di S.E.[42] Da
loro apprendono che Alberoni va sostenendo non solo di essere ancora Cardinal Legato di Romagna nella pienezza
delle sue facoltà, ma anche di essere salito sul Titano in nome e per conto del
papa, espressamente incaricato dal papa.
Però non esibisce le carte. Le carte le ha effettivamente? Davvero papa Clemente
XII ha incaricato Alberoni di porre fine, con un colpo di mano, alla
indipendenza della Repubblica?
Già Paolo III aveva tentato di sopprimere con un blitz l’autonomia sammarinese. Nel
lontano 1543. Una improvvisa nebbia – miracolo del Santo Marino – calò sugli
assalitori e ne scompaginò i piani. Dopo il Santo, intervenne a sostegno dei
sammarinesi il ducato d’Urbino. Quella volta si interessò della vicenda perfino
l’imperatore Carlo V mandando un suo rappresentante sul Titano ad offrire
protezione. Offerta di protezione che i sammarinesi, con le dovute maniere, lasciarono
cadere. Ora? Il ducato d’Urbino non c’è più. Quanto all’impero o al Santo se interverranno
o no, chi lo può sapere?
A notte fatta corre voce, secondo quanto racconta Alberoni a
Firrao, che i governanti avessero spedito
un messo alla Carpegna, dove sono di stanza truppe tosco-imperiali. Allora
– continua Alberoni – ebbi timore non
volessero costoro operar da disperati con chiamare in soccorso quel Presidio;
spedii subito a Rimini l’ordine al Capitano Bertoldi (altrove Bertolli) che con duecento uomini marciasse nella
notte per trovarsi in S. Marino di buon
ora.[43]
Ad Alberoni non va di correre il rischio di finire nelle
mani degli Asburgo coi quali ha in sospeso quel vecchio conto del 1717, quando
alla guida della Spagna anziché scagliare la flotta contro i Turchi, come aveva
promesso e ripromesso davanti a tutti, papa compreso, la rivolse
proditoriamente contro le fortezze degli Asburgo in Sardegna.[44]
I
soldati: un errore necessario
I soldati sono chiamati da Alberoni
– a quanto egli dice a Roma – per fronteggiare la convocazione delle milizie repubblicane
e per premunirsi contro una supposta richiesta di aiuto alle truppe tosco-imperiali
di stanza a Carpegna.
Alberoni è partito da Ravenna convinto,
in base a quanto riferitogli da Almerighi e da altri, che tutti i Popoli della Repubblica sarebbero stati desiderosissimi di accoglierlo per sottrarsi
ai Tiranni. Invece, arrivato sul Titano,
è costretto à temere ancora nella Persona per scarsezza degli aderenti.[45]
Così che – dicono i sammarinesi – per
sicurezza della Vita, e per onore della Porpora è stato necessitato a chiamare
l’estranea milizia.
Certamente chiamare i soldati per Alberoni è un errore. Gravissimo.
Costituisce un’aperta violazione del Breve e delle Istruzioni, porta allo scoperto
le mire reali della Santa Sede sul Titano
ed offre ai tosco-imperiali un eccezionale
pretesto per riprendere ad avanzare da Carpegna verso il mare.
D’altra parte Alberoni non può non chiamare i soldati. I
soldati gli consentono di sottrarsi all’umiliazione
di finire, anche fisicamente, in balia dei governanti sammarinesi e di rimettere
in sesto l’operazione altrimenti fallita.
San Marino-Città non conta più di trecento abitanti.[46] Ad un’ora di notte – a detta dei
sammarinesi – giunsero a Tamburo battente
le Soldatesche di Verucchio … e sulla mezza notte, e sul mattino arrivarono le
Milizie di Rimino, e finalmente sopragiunse la Sbiraglia di Ravenna
accompagnata dal ‘Boia’, sicchè dalle medesime restò innondato il paese, occupata
la Cancelleria, ristretto il Palazzo, blocata la Rocca, e costernati da tanto
furore li Cittadini tutti.[47]
Le famiglie più abbienti, nel timore di un saccheggio e comunque
per proteggersi dalla marmaglia soldatesca, si affrettano a dare in custodia le
loro robe alle monache del Monastero
delle Clarisse.
La
capitolazione formale
Nella mattinata della stessa domenica
18, i custodi della Guaita escono dal fortilizio per consegnare le chiavi.[48]
Alberoni, però, non le accetta. Esige una consegna formale di quelle e di tutte
le chiavi dei luoghi pubblici. La vuole, quella consegna, per mano delle
massime autorità della Repubblica: i due Capitani. Devono muoversi loro da Palazzo.
Devono scendere loro a Palazzo Valloni e portargliele. Sopra un bacile[49]
d’argento!
La consegna delle chiavi – sopra un bacile d’argento – avviene a
Palazzo Valloni per mano dei Capitani e del Segretario di Stato, presenti come
testimoni – quasi si fosse all’atto di resa al termine di una guerra – i comandanti
che hanno compiuto l’impresa: i capitani dei soldati di Verucchio e di Rimini.
Alberoni, scrivono i notai, unitamente alle chiavi accettò pure la ‘spontanea’
e pubblica dedizione della Repubblica alla Santa Sede (acceptavit eamdem publicam, et spontaneam Deditionem Sanctae Sedi[50]).
Non sono i vincitori a imporre il testo del documento di resa? La Repubblica di
San Marino, attestano i notai, si è data
‘spontaneamente’ alla Santa Sede e la Santa Sede, per mezzo del card. Giulio
Alberoni, investito delle specifiche facoltà, l’ha accettata. Così deve risultare
nella storia.
Alberoni potrebbe chiudere qui la
partita.[51] E,
per certi aspetti, la considera effettivamente chiusa. Dopo i soldati fa salire
da Rimini l’avvocato Bartolomeo Bonzetti
perché lo aiuti a riscrivere le regole istituzionali, cioè gli Statuti della
ex-Repubblica, ora terra soggetta al dominio diretto della Santa Sede. E fa
pure venire su da Rimini Giovanni Bianchi (più noto come Jano Planco), medico,
scienziato, poligrafo di una certa fama, col compito – dirà lo stesso Bianchi –
di comporre un’iscrizione per una lapide da erigere a ricordo dell’avvenimento.
Ed anche per cercare, proprio nell’Archivio della Repubblica, le prove documentarie
delle ragioni dell’alta sovranità della Santa Sede sul luogo.
Attraverso la fitta corrispondenza di Bianchi con i suoi numerosissimi interlocutori della ‘Repubblica Letteraria’,
si ricava una quantità di informazioni su
come l’impresa alberoniana è recepita dai
circoli intellettuali del tempo.[52]
Cerimonia pubblica il 25 ottobre
Alberoni non rientra subito a
Ravenna, appena conseguita la capitolazione. Rimarrà per tutta la settimana veniente. Scrive,
infatti, a Firrao: oggi a otto con Messa
solenne e ‘Te Deum’ si renderanno le dovute grazie al Signore Iddio, che per il
maggior servizio e gloria, un affare che poteasi rendere difficile, e spinoso,
siasi terminato con tanta felicità, e con tanta altra gloria di Nostro Signore
Clemente XII, che va rendere memorabile il suo Pontificato.[53]
Alberoni, nella stessa domenica 18, riunisce
i parroci della ex Repubblica e chiede loro – ordina?- di presentarsi a lui nei
giorni a venire con una delegazione di parrocchiani per procedere al giuramento
di fedeltà alla Santa Sede sull’esempio di Serravalle (sabato mattina) e di
Fiorentino (sabato pomeriggio).[54]
Così che risulti manifesta la volontà del popolo, cioè della gente comune, di
passare sotto il governo della Santa Sede. E chiede pure la loro collaborazione
per organizzare al meglio il solenne
giuramento dei rappresentanti della comunità domenica 25 in Pieve, a
conclusione dell’intera vicenda.
Tutto risolto dunque? No. Qualche contestazione può essere
ancora possibile. Nel caso, le tre
torbide teste[55],
cioè gli irriducibili, dice Alberoni a Firrao, non sarà bene lasciarle qui presentemente, ma allontanarle. Insomma
prospetta l’esilio. Il vescovo di Pennabilli, nel frattempo, ingiunge alle
monache del Convento delle Clarisse di non prendere in custodia eventuali robe da parte di chicchessia. Nessuno
deve sentirsi tranquillo nel caso che, temerariamente, voglia opporsi al nuovo
corso della politica. Per coloro invece che lo favoriranno, si spalanca da subito
la generosità del Cardinale, compresa quella spicciola della elargizione di danaro.[56]
L’allontanamento delle teste pensanti (cioè degli ex governanti),
la mobilitazione dei parroci e l’uso del danaro fanno intravedere un progetto
di recupero, da parte di Alberoni, del
consenso della gente. Di quella gente che, contrariamente alle previsioni e
alle aspettative, finora non si è mossa. Alberoni farà di tutto per guadagnarla
alla sua causa, smuoverla, darle una voce, una rappresentanza politica, in
contrapposizione, ovviamente, ai vecchi governanti.
I
vecchi governanti che, altezzosamente, in gruppo, hanno ri-gettato la sua
offerta di collaborazione ed anzi hanno tentato di contrastarlo con la forza,
dovranno necessariamente rassegnarsi. Cominceranno a cedere prima o poi. Quando
sarà passato l’inton-timento per la sberla ricevuta e si renderanno conto che
il paese sta andando avanti senza di loro. Dapprima cederà uno, poi un altro, poi
un altro ancora e infine lo smollo, come di solito avviene di fronte alla tentazione di guadagnare una
posizione di potere.
La
presa di possesso del paese
Lunedì 19, avendo in mano le chiavi
dei luoghi pubblici, Alberoni le adopera per prendere possesso anche
materialmente del paese. ‘Tira’ a sè …
la Bandiera e Ruolo de’ Soldati, i Sigilli.[57]
Visita la Rocca, poi il Palazzo. Infine ispeziona l’Archivio. In Archivio si
mette lui stesso, di persona, poi seguito da Bianchi, a cercare i documenti che
potrebbero suffragare i diritti della Santa Sede sulla Repubblica.[58]
Alberoni è ormai il padrone assoluto del luogo. Impartisce ordini
a destra e a manca. Tira fuori dalle carceri Pietro Lolli. Assegna al fratello
di questi, Beniamino, il comando delle milizie sammarinesi. Conferisce a
Belzoppi l’incarico di occuparsi dei tributi. Piazza don Filippo Ceccoli nel Collegio Belluzzi, l’unica
istituzione esistente a San Marino per formazione
dei giovani (delle famiglie dominanti).[59]
Gli ex governanti sono ormai fuori gioco. Lo devono capire loro ed anche la
gente comune, di modo che non ci siano dubbi su chi comanderà d’ora in avanti
nel paese. E aspetta che succeda, qui sul Titano, quel che avviene normalmente
ovunque dopo uno sconvolgimento politico: la corsa a salire sul carro del
vincitore prima che sia tutto occupato.
Alberoni, a ulteriore dimostrazione di forza, comincia a metter
subito mano alla riorganizzazione politica e amministrativa del paese, per la
quale, fra l’altro, egli ha un mandato amplissimo. Si legge infatti nelle
Istruzioni: rimette Nostro Signore
all’arbitrio e saviezza di Vostra Eminenza il dare al Governo Politico, Economico,
e Giuridico di detta Terra, e suoi Annessi quella forma, che crederà la più
adatta al Costume di quel Popolo.[60]
Alberoni ha in mente di partire, nel lavoro di riorganizzazione
della ex Repubblica, con il rifacimento del Consiglio. Sarà poi quel Consiglio,
il nuovo Consiglio, a formalizzare domenica 25 in Pieve la spontanea dedizione
di San Marino alla Santa Sede in forma pubblica e solenne.
In base allo Statuto della ex Repubblica Alberoni non potrebbe
intervenire sulla composizione del Consiglio.[61] Al
più potrebbe esercitare delle pressioni perché i consiglieri già in carica al momento
del suo arrivo, nominino tanti nuovi consiglieri quanti sono i posti vacanti
fino a raggiungere il numero canonico di sessanta. Siccome i consiglieri in
carica (una trentina) sono quasi tutti del fronte dei vecchi governanti,
imboccando questa strada verrebbe fuori un Consiglio ancora tutto in mano ai
vecchi governanti. Cosa che Alberoni deve assolutamente evitare, per non
trovarsi domenica 25 in Pieve dei consiglieri che, anziché per la dedizione,
alla Santa Sede si schierano per il mantenimento della Repubblica.
Convocazione
dell’Arengo?
Alberoni ha la possibilità di rifare
‘legittimamente’ il Consiglio addirittura per intero, cioè nominando daccapo
tutti i sessanta consiglieri, convocando l’Arengo, l’assemblea dei capifamiglia,
facendo riferimento a un precedente storico. Verso la fine del Cinquecento, infatti,
a seguito di una serie di disordini interni, alcuni sammarinesi sollecitarono
l’intervento del Duca d’Urbino perché li aiutasse a porvi rimedio. Questi non
si fece troppo pregare. Inviò un Commissario che, convocato l’Arengo,
procedette per ballottazione al completo rifacimento del Consiglio e fece approvare
nuove regole per il suo periodico rinnovo.
Proprio la mancata convocazione dell’Arengo, per il rinnovo o
il completamento del Consiglio, aveva costituito la ragione prima del contrasto
fra la fazione di Lolli e quella dei vecchi governanti. Lolli non fu carcerato per altra Ribellione, che
d’aver tentato di ritornare in piedi l’Arringo,[1]
dice Bianchi. E pure i seguaci di Lolli, i Ceccoli, i Centini, i Faetani non
volevano altro che far rimetter in piedi
l’uso antico dell’Arringo d’uno per Casa.[2]
E a tale Arengo, secondo Lolli ed i suoi seguaci, avrebbero avuto diritto di
partecipare anche i capifamiglia dei castra
subdita.[3]
Dunque Alberoni dispone di un calzante precedente storico
per rinnovare per intero il Consiglio attraverso una riconvocazione
dell’Arengo, che da più di 100 anni non
s’era tenuto più,[4]
annota Bianchi. E, nell’occasione, avrebbe potuto far approvare dalla stessa
assemblea dei capifamiglia anche la dedizione spontanea della Repubblica alla
Santa Sede. E senza forzare il diritto. Si legge infatti nei testi dello Ius Civile in uso in quel periodo che
l’Arengo (detto anche General Consiglio perché
da intimarsi tutti per capita Domorum),
rappresenta tutto il Corpo
dell’Università … Appresso il medesimo … risiedendo tutta la possibilità di disporre,
ne viene in conseguenza, che nelle cose ardue, e di gran rilievo si deve
precedere la risoluzione[5]
di tale organismo a quella del Consiglio vero e proprio (Consiglio Particolare). E quale cosa
è più ardua e di grande rilievo per
una comunità che la rinuncia alla autonomia politica per la sottomissione
spontanea a un principe esterno?
Arengo possibilmente no
Adunando l’Arengo, Alberoni avrebbe
continuato a presentarsi ai sammarinesi come il vindex della fazione di Pietro Lolli contro quella dei vecchi
governanti, notoriamente contrari, ossessivamente contrari alla convocazione
dell’Arengo. I vecchi governanti senz’altro avrebbero tentato di resistere,
creando disordini nel paese ed anche nell’assemblea, aizzando, ad esempio, i
capifamiglia del distretto vecchio contro quelli dei castra subdita.
Alberoni dopo aver fatto così largo uso di soldati per piegare
i sammarinesi ricalcitranti, ha bisogno che si ristabilisca una quiete totale
nel paese. Fra l’altro le norme correnti dello Ius Civile vietano espressamente, nello Stato della Chiesa, la convocazione
dell’Arengo qualora sussistano dubbi circa il suo regolare svolgimento. Cioè se
non si è certi che l’assemblea non degeneri. In alcuni casi la stessa Sagra Congregazione del Buon Governo, per evitare le confusioni, ordina, che si
faccia un Consiglio ristretto di persone più capaci,[6]
piuttosto che convocare l’Arengo, anche per decisioni di grande importanza.
Alberoni, dovendo evitare di aggiungere altro rumore a
quello dei soldati della cui eco a Firenze, Vienna e Roma ancora non si sa
l’effetto, preferisce tentare di costruire un Consiglio di sessanta membri in
cui tutte le parti si riconoscano, operando col consenso di tutte le parti, in
una atmosfera di generale pacificazione. Un Consiglio, ovviamente, che comunque
poi voti la dedizione, obiettivo di tutta l’operazione.
Fine
del surplace
Per costruire un Consiglio di
sessanta membri in cui tutte le parti si riconoscano, Alberoni ha bisogno che fra i vecchi governanti qualcuno
cominci a cedere, ad accostarsi a lui. Ma non è così. Nonostante che abbia
dimostrato, chiamando i soldati, che lui agisce nelle pienezza delle facoltà di
Cardinal Legato di Romagna e, di fatto, in
accordo con Roma. Nonostante che tenga occupato il paese con un mezzo migliaio
di soldati (non fatti rientrare a Verucchio e a Rimini subito dopo la resa).
Nonostante che stia dando prova di stare procedendo a una riorganizzazione globale, permanente anzi definitiva della amministrazione
pubblica. Eppure nessuno dei vecchi governanti si fa avanti, si distingue dagli
altri, tenta di guadagnare una personale posizione di vantaggio.
Alberoni, visto che da parte dei vecchi governanti non vengono
segnali di cedimento, prende lui l’iniziativa. Si incuneerà fra di loro adoperando uno di loro: Giuseppe
Onofri.
Onofri è un uomo pragmatico, disponibile al compromesso, attento
al proprio prestigio personale ed ai suoi privati interessi (ha molti beni al
sole) e gode di un certo ascendente sulla gente guadagnato attraverso la
professione di notaio e dottore in legge. Egli, politicamente, appartiene alla
fazione dei vecchi governanti ma non è inviso a Lolli, con cui, diversamente
dagli altri, non ha interrotto i rapporti. Ha avuto fra i suoi clienti anche
Vincenzo Belzoppi. E non ha mai interrotto i rapporti personali col vescovo del
Montefeltro, Crisostomo Calvi, conosciuto in occasione del suo insediamento.
Alberoni, dunque, rompe gli indugi, pone fine al surplace coi vecchi governanti, invitando uno di loro, Giuseppe Onofri, a Palazzo
Valloni.[7] Siccome questi – racconterà lo stesso
Alberoni – sin dal primo giorno del mio
arrivo quassù, mi fu descritto per uomo assai destro, quale avea sempre saputo
navigar in due acque, mi parve perciò di poter credere, ch’egli potesse
aspirare a farsi merito presso la Santa Sede.[8]
Dialogo
coi vecchi governanti
Alberoni chiede ad Onofri – dietro
adeguato compenso per il merito presso la
Santa Sede che egli acquisirebbe – di aiutarlo a convincere i vecchi
governanti a rassegnarsi al corso degli eventi. Cioè a prendere realisticamente
atto della necessità assoluta, inderogabile per la Santa Sede, di affermare la
sovranità sul Titano, a causa del sovrastante pericolo degli Asburgo già
arrivati a Carpegna. Tanto vale, di fronte a tale ineludibile evenienza, fare
tutti, tutti assieme, buon viso. E – perché no? – approfittarne. Egli, Alberoni,
assicura, garantisce che la comunità non ne avrà alcun danno: tutti i privilegi
di cui gode al momento saranno mantenuti, e altri se ne aggiungeranno, per un
impegno già preso in tal senso dal papa in persona. E nemmeno loro, i vecchi
governanti, riceveranno alcun danno. Né come gruppo né singolarmente. L’Arengo
non verrà convocato. Sarà lui stesso, Alberoni, ad assumersi la responsabilità
di impostare la nuova struttura di governo a partire dalla composizione del
Consiglio. E lo farà in modo che essi, cittadini di primo rango, possano
continuare ad occupare i posti più elevati nel governo della comunità. Esattamente
come prima. E non avranno alcun danno nemmeno singolarmente. Anzi dei vantaggi.
Molti vantaggi. Si spalancherà, per ciascuno di essi, una nuova allettante prospettiva
di carriera nello Stato della Chiesa, grazie al merito che acquisiranno
collaborando con lui affinché la Santa Sede possa affermare la sovranità sul
Titano senza ostacoli, cioè senza fornire alcun pretesto di intervento agli
Asburgo. Sarà lui, lui stesso, a rendersi garante personalmente di tutto ciò. A
lui direttamente potrà rivolgersi per qualsiasi evenienza, di qui in avanti,
ciascuno di loro. E, ciascuno, troverà in lui sempre l’aiuto necessario.
Il passaggio della Repubblica alla Santa Sede è già avvenuto
con l’atto di dedizione firmato dai Capitani domenica 18. Tuttavia lui, Alberoni,
per dimostrare la sua buona predisposizione d’animo verso i vecchi governanti,
darà loro modo ugualmente di dimostrare la buona volontà di collaborare con la
Santa Sede, per acquisire di fronte ad essa i relativi meriti. Domenica 25
ottobre in Pieve, quando si procederà al giuramento pubblico di fedeltà alla
Santa Sede, essi, i vecchi governanti, saranno chiamati per primi: per rispetto
al rango ed anche perché siano di esempio.
Alla base della proposta del Cardinale ai vecchi governanti,
trasmessa attraverso Onofri, c’è l’assunto che il passaggio della Repubblica al
dominio diretto della Santa Sede, per altro già avvenuto, è incontrovertibile.
Non c’è possibilità alcuna e per nessuno, nemmeno per lo stesso Alberoni, di
rimetterlo in discussione: è stato deliberato dal papa in una fase di grave
emergenza politica per lo Stato della Chiesa, minacciato nella sua sicurezza
dagli Asburgo.
Come gesto di buona volontà e segno esplicito di fiducia nei
vecchi governanti, entro quello stesso lunedì 19, Alberoni fa rientrare tutti i
soldati di Verucchio e di quelli di Rimini ne trattiene una cinquantina.[9] Però,
da Ravenna, arrivano gli sbirri, il bargello e, forse, il boia. Si va, diciamo,
verso la normalità. Il Titano diventa un comune luogo soggetto alle solite
autorità dello Stato della Chiesa.
I
sammarinesi miracolati
Il gruppo dei vecchi governanti è
intento a riflettere sulla proposta di Alberoni, ricevuta attraverso Onofri,
quando giunge nelle loro mani una copia delle
Istruzioni impartite ad Alberoni da Firrao il 26 settembre ed allegate al
Breve.[10] Un
miracolo.[11] Sì
un autentico miracolo dicono i
sammarinesi: Dio ha fatto giungere nelle
nostre mani la copia della lettera di
Segreteria di Stato diretta a S. E.!
Secondo i sammarinesi l’arrivo nelle loro mani della copia
delle Istruzioni è la prova che, anche in questa occasione, S. Marino, il loro Santo, non li ha affatto abbandonati.
Non è noto il luogo in cui il buon
Dio, su sollecitazione del Santo Marino, ha realizzato il miracolo. Forse a
Roma o altrove per mano di Maggio o Zampini o altri sammarinesi emigrati. Oppure
sul Titano, magari all’interno dello stesso Palazzo Valloni.[12]
Oppure c’è di mezzo un doppiogiochista. Non è da escludere la corruzione.
Se a noi, ammettono i sammarinesi, non capita fra le mani una copia della
Lettera di Segretaria di Stato … ci davamo tutti per perduti.[13]
Invece? Con quella in mano la situazione si rovescia. L’udire che … S.E. non poteva forzarci, essi
dicono, ci animò.[14]
Sì perché scoprono che Alberoni effettivamente è stato autorizzato dal papa a
salire sul Titano, non però con una delega in bianco come egli ha tentato di
far credere.
I sammarinesi vengono a sapere, leggendo le Istruzioni, che non
è vero che il papa ha deliberato la soppressione della Repubblica tout court. Il papa ha incaricato
Alberoni di accettare la dedizione della Repubblica alla Santa Sede se, e solo
se, questa dedizione è spontanea e volontaria. L’ha subordinata, la dedizione,
a un consenso della popolazione esplicito, manifesto, pubblico, di modo che non
ci siano dubbi, appunto, sulla volontarietà e sulla spontaneità. È evidente
dunque come Alberoni non dovesse, ne potesse
usar la forza contro i sammarinesi
e molto meno potesse violentarli contro il loro volere a
giurare l’ubbidienza alla Santa Sede ‘in temporalibus’,[15]
come invece è avvenuto domenica 18, a seguito dell’invasione militare.
Ecco perché Alberoni ha tenuto celate le carte![16]
Perché non si sapesse delle trasgressioni alle disposizioni impartitegli. In
particolare perché non si sapesse della condizione fondamentale, la conditio sine qua non per l’acquisizione
della Repubblica da parte della Santa Sede: una dedizione manifestamente volontaria
e spontanea.
Alla luce delle Istruzioni, quello dei soldati è stato un abuso di tale
gravità da poter essere utilizzato, e da subito, per impugnare l’atto di resa
sottoscritto dai Capitani.
Le
due parti si studiano
I vecchi governanti potrebbero, a
ragione, precipitarsi a Palazzo Valloni e, carta in mano, pretendere il
ripristino della Repubblica: restituzione delle chiavi dei luoghi pubblici e
loro reinsediamento nei precedenti posti di governo. Non lo fanno. È vero che
Alberoni non è stato autorizzato ad adoperare i soldati. È vero che non si è
fermato ai confini ad aspettare la popolazione come gli è stato ordinato.
Tuttavia non basterà certamente un pezzo di carta a indurlo a restituire sic et
simpliciter il potere ai vecchi governanti, magari dopo avere loro chiesto scusa
e prima di riprendere con la coda fra le gambe la strada per Ravenna!
Alberoni ha in mano il paese. E di certo ha in sé il potere
– un potere che a Roma è ritenuto legittimo perché conferitogli, questo sì, dal
papa – di rimettervi ordine. Il che vuol dire, anzitutto, che egli ha la
facoltà di riportare il Consiglio a 60 membri. Magari attraverso la
convocazione dell’Arengo. Un Arengo aperto ai capifamiglia dei castra subdita.
Troppo rischioso per i vecchi governanti affrontare vis-à-vis un personaggio navigato come
Alberoni, anche se si ha il diritto dalla propria parte. Se non altro in riflesso dell’impetuoso e violento
temperamento di questo Porporato.[17]
Meglio che sia Roma ad affrontarlo, a richiamarlo all’ordine, il card. Giulio Alberoni,
visto che è stata Roma a mandarlo sul Titano e visto che ha trasgredito ordini
impartitigli proprio da Roma.
I vecchi governanti decidono di segnalare a Roma con un documento
– che chiameremo di qui in avanti ‘Informativa’ – le trasgressioni alle
Istruzioni di cui Alberoni si è reso responsabile. Calcano, in particolare,
sull’uso della forza. Fanno sapere che non è loro intenzione arrendersi perché
non intendono affatto rinunciare alla loro libertà. Non tralasciano di
minacciare ampie proteste contro l’aggressione
e la violenza che hanno subito e stanno subendo.[18]
L’Informativa
è spedita dal Titano già martedì 20 per staffetta (come dire posta celere) attraverso
il territorio della Legazione d’Urbino. Ci impiegherà ad arrivare a Roma un
paio di giorni. Destinatario a Roma è il sammarinese mons. Melchiorre Maggio. Il
tutto nella massima segretezza.
La
strategia dei vecchi governanti
Mercoledì 21 i vecchi governanti
cominciano a presentarsi a Palazzo Valloni: chiedono udienza al Cardinale. Non
per contestarlo, però. Ci vanno per riverirlo. Vanno per dimostrargli
personalmente la loro gratitudine per i saggi consigli di cui li ha beneficati.
Ci vanno ciascuno per conto proprio. Quasi che ciascuno sia mosso da una sua
personale motivazione ad accettare la proposta che egli per pura benevolenza ha
voluto far loro pervenire attraverso un loro collega, Giuseppe Onofri, che pure
loro tanto stimano.
Sono venuti ‘ad pedes’
– racconta Alberoni a Firrao mercoledì 21 a proposito dei vecchi governanti – col pregarmi voler perdonare la loro
tardanza usata nel venir’a fare il loro dovere di dichiararsi sudditi della
Santa Sede.[19]
Il vecchio Cardinale è sorpreso. Sabato pomeriggio, di
fronte ad una proposta sostanzialmente analoga, cioè il mantenimento del potere
in cambio di collaborazione, gli avevano
risposto con un ‘no’ secco e stizzoso. Anzi, peggio: avevano adunato le milizie.
Tanto che poi era stato costretto a chiamare i soldati. Ora, invece, ascoltati
i suoi paterni suggerimenti, vanno uno ad uno da lui a omaggiarlo, a gettarsi
ai suoi piedi, come fossero sudditi della Santa Sede da sempre. Già sudditi
della Santa Sede da additare come esempio.
Alberoni rimane perplesso. E’ sfiorato dal dubbio: non sò se possa credersi che in un Istante
abbino a mutar massime, genio e costume. Poi l’ombra si dissolve a vederli
lì, i vecchi governanti, venire a ringraziarlo fin in ginocchio, e con le lagrime agli occhj per gioia, e tenerezza.[20] E
fra di essi si distingue, per la particolare
devozione alla Santa Sede, che
nell’occasione affetta, Lodovico Belluzzi,[21]
il fratello di Gian Benedetto, già luogotenente del Cardinale per le cause
civili a Ravenna e ora giudice a Bologna.
Lusingato da quella nuova piega dei fatti, Alberoni è
portato a ritenere che quel che succede sia frutto della sua abilità. Dice,
compiaciuto, a Firrao: mostrano tutti di
avere in me una somma fede, di credere quello che gli ho detto. E racconta
che cosa ha promesso loro: che tra tutti
i sudditi della Santa Sede saranno i più felici e i più fortunati, senza mai
avere a ricordarsi del loro antico Governo; che d’esser più che sicuri che in
questa mutazione io gli procurarò tutti i vantaggi possibili. E conclude,
visibilmente soddisfatto: di qui la gran
fiducia che hanno avuto ed hanno in me.
Alberoni si sente gratificato. Si tranquillizza. Si rilassa.
Si lascia andare. L’atteggiamento di rassegnazione da parte dei vecchi
governanti lo induce a concedere loro – e in prima luogo a Onofri – piena,
totale fiducia, tanto da pregarli di voler davvero collaborare con lui, di
dargli davvero una mano a reimpostare le istituzioni pubbliche. In conclusione,
finisce per chiamare a consulta sul
nuovo assetto di governo quelli stessi
che erano reputati i Capi delle passate oppressioni.[22] La
gente comune, per liberare la quale dalla tirannia dei vecchi governanti, egli
aveva ricevuto l’ordine di salire sul Titano, viene dimenticata. Non serve più.
Servono i vecchi governanti.
Saranno, di qui in avanti, proprio i Capi delle passate oppressioni, i vecchi governanti, ad assorbire
tutte le attenzioni di Alberoni. Saranno questi a suggerire a sua Em.za quelle notizie … più necessarie per
portare avanti il lavoro di ristrutturazione delle istituzioni, a cominciare
dal rifacimento del Consiglio.
Il
rifacimento del Consiglio
Alberoni ha bisogno di rifare il
Consiglio in vista della cerimonia di domenica 25 in Pieve. Vuole un Consiglio
nella pienezza della sua funzione rappresentativa.[23] Un
Consiglio completo, cioè di 60 membri, così come prevedono gli Statuti della ex
Repubblica. Soprattutto un Consiglio disposto a votare la dedizione. Il resto
non conta.
Lolli
è convinto da Alberoni a rinunciare alla convocazione dell’Arengo. Nella
prospettiva della dedizione, ormai, che importanza ha l’Arengo?
I
vecchi governanti sono convinti da Alberoni a non opporsi a rifare un Consiglio
di 60 membri, in quanto essi non solo non ne verranno esclusi, ma continueranno
a svolgervi un ruolo preminente: i posti al vertice del potere rimarranno di
loro esclusiva pertinenza.
Entrambe le parti
accettano la proposta di Alberoni di rifarlo, quel benedetto Consiglio,
assieme, a tavolino.[24]
Se ne occuperà, materialmente, Onofri: consulente personale del Cardinale, rappresentante
dei vecchi governanti e fiduciario di Pietro Lolli.
Di fatto, Almerighi, Belzoppi,
i Ceccoli passano in secondo piano. Anche Lolli è retrocesso in una posizione
defilata. Ritornano a girare a testa alta per il paese i vecchi governanti con
uno di essi, Giuseppe Onofri, assurto a quasi vice di Alberoni.
Per la gente comune
non cambia niente. Tutto come prima. Della gente comune Alberoni non si cura
più, non essendogli più necessaria per arrivare alla dedizione.
Un
Consiglio tutto ‘urbano’
Alberoni, alias Giuseppe
Onofri, si mette all’opera da subito, quello stesso mercoledì 21, per ridare al
paese un Consiglio di sessanta Persone.[25]
Anzitutto
– chi se lo sarebbe aspettato? – vengono riconfermati tutti quelli che in
Consiglio già ci stavano.[26]
Tutti con qualche eccezione relativamente ad alcune famiglie. Gian Benedetto
Belluzzi viene sostituito dal fratello Lodovico che è stato fra i primi a
recarsi a riverire il Cardinale (ad pedes)
a Palazzo Valloni ed a pregarlo di accettarlo come suddito del papa. Ed al
posto di Federico Gozi, vecchio e malandato in salute, è fatto subentrare il figlio
primogenito di questi, Girolamo.
Quindi vengono individuati i consiglieri nuovi. Questi,
tutti, sono scelti esclusivamente – chi se lo sarebbe aspettato? – fra gli
abitanti del ‘distretto vecchio’: Città, Borgo e vecchio contado. Vengono
perciò esclusi in toto – con buona pace di Lolli e dei suoi! – gli abitanti dei
castra subdita.[27]
È rispettata alla lettera la norma statutaria dell’ex
Repubblica secondo la quale i 60 seggi devono essere attribuiti: 40 ad abitanti della Città, e Borghi (in
pratica un’unica zona urbana, capitale del distretto vecchio) e 20 ad abitanti del Contado (cioè il resto del
distretto vecchio). E viene pure osservata la consuetudine, per la quale si
hanno tre Ordini o ranghi di persone: cioè Nobili, cittadini tra i quali gli artisti, e Paesani.
In conclusione, i consiglieri in carica sono confermati e quelli nuovi –
quasi una trentina – sono scelti di comune accordo fra le parti,[28]
nel rispetto delle norme statutarie e della consuetudine.
Tutte le parti hanno motivo per
ritenersi soddisfatte del Consiglio che viene fuori. A cominciare proprio da
Alberoni, assurto ad artefice e garante della pacificazione, con la facoltà,
riconosciutagli da entrambe le parti, di nominare i consiglieri (e dare vita a
un nuovo governo) come se il conglobamento del territorio sammarinese nello
Stato Pontificio fosse già perfezionato e la sua autorità, a nome della Santa
Sede, fosse già affermata ed accettata.
Tutti
contenti
Lolli, con la sua fazione, ottiene
ciò che ha sempre rivendicato: un Consiglio di 60 membri. Quanto al resto, cioè
alla non convocazione dell’Arengo, poco importa. Poca importa anche il fatto
che della sua fazione entrino in Consiglio solo Vincenzo Belzoppi, Giuliano
Ceccoli e un paio di altri e non già la massa degli abitanti dei castra subdita, che da anni hanno
militato con lui. La protezione riconoscente del Cardinale è, per Lolli ed i
suoi, garanzia più che sufficiente tanto nella fase del trapasso dei poteri che
in futuro, quando il territorio della ex Repubblica finirà definitivamente sotto
il dominio diretto della Santa Sede .
I vecchi governanti sono pure soddisfatti. Essi sono in Consiglio
come lo erano prima e come prima lo controllano per la quasi totalità. Il che
va a loro bene sia che l’Informativa spedita a Roma abbia successo sia che non
ce l’abbia. E, come prima, in quanto appartenenti al Primo Rango, mantengono
il diritto di accesso ai vertici del nuovo governo, non cessando mai di
occupare il centro della scena politica, a scapito di Lolli e dei suoi, pur in
presenza di Alberoni. Sono loro a far da filtro ad eventuali richieste di accesso
ad Alberoni da parte della gente comune!
Visto con gli occhi di Alberoni il Consiglio conta poco. Ecco
perché egli concede tanto. La composizione del Consiglio non è importante per
lui. O almeno non ha importanza in sé. Appena la dedizione della Repubblica
alla Santa Sede sarà formalizzata, quel Consiglio, come negli altri luoghi
dello Stato Pontificio, diventerà un semplice organo amministrativo al più con
competenza nella ripartizione dei carichi fiscali all’interno della comunità.
Il potere politico, dopo la dedizione, passerà automaticamente nelle mani del
governatore la cui nomina, come per gli altri luoghi, spetta alle autorità
pontificie. Insomma l’unico atto politico che il nuovo Consiglio è chiamato a
promulgare è anche l’ultimo, quello di domenica 25: la dedizione della
Repubblica alla Santa Sede. Dedizione che a questo punto, dopo l’accordo sul
rifacimento del Consiglio, ormai la si può dare per acquisita. Alberoni la dà
per acquisita. I vecchi governanti glielo stanno facendo credere.
Alberoni
orgoglioso del successo
Almerighi aveva millantato che
sarebbe bastato lo spazio di un week-end[29]
a sistemare la questione sammarinese. In effetti c’è voluto qualche giorno in
più. Perché le cose si sono subito complicate, fin dall’inizio. Anzi prima
dell’inizio, essendo mancato il concorso della gente ai confini, come, appunto,
Almerighi aveva assicurato. La gente, invece, non si è mossa. Questa è stata la
grande sorpresa per Alberoni! La gente non si è mossa nemmeno quando Alberoni è
arrivato in Borgo. Tanto meno in Città. C’è da dubitare che la gente sul Titano
venisse effettivamente oppressa come avevano fatto credere a Ravenna e a Roma
Almerighi, Lolli, Belzoppi, quelli di Pennabilli, nonché, forse, i sapientoni
di Rimini.
Insomma Alberoni, il vecchio Alberoni – settantacinque anni
suonati! – ha dovuto rimediare una situazione praticamente già persa, perché
tutta incentrata, erroneamente, sulla aspettativa della sollevazione della
gente comune. Ed ha dovuto provvedervi da solo. Fin dal primo momento. Ha dovuto
subito esporsi e rischiare di persona ed in prima persona.
Operazione complessa questa di San Marino e densa di pericoli.
Se per caso, ad esempio, fosse trapelato qualcosa prima del suo avvio, dice
Alberoni a Firrao, non entravo né meno ne
i confini del Stato di S. Marino. E continua: se io mi fermo nel Borgo, come fui consigliato, per sapere, come
diceano, qual mossa si faceva nella terra (cioè in Città), il colpo era perduto, ed Io deriso. Adesso
ce l’ha fatta. Ha vinto. Ha vinto grazie all’abilità e alla tenacia che sono
proprie dell’uomo politico navigato: invece di sobillare la gente contro i
governanti, ha convinto direttamente i governanti ad accettare la dedizione. Ha
vinto però anche grazie all’ardimento ed al gusto per la sfida che sono vanto
dei giovani: nell’affari grandi bisogna
dare qualche cosa all’azzardo, e tal volta molte cose non riescono al Uomo,
poiché non ha il coraggio d’intraprenderle.[30]
Alberoni dalla parte dei sammarinesi
Non è una impresa da poco quella che
Alberoni ha compiuto. Adesso può cominciare a vantarsene di fronte a Roma. E se
ne vanta, da subito, con Firrao. San Marino non è mucchio di sassi,[31]
uno dei tanti paesini sparsi per l’Appennino. Questo è un luogo governatosi fin qui sotto nome, e con leggi
di ‘Repubblica’.[32]
Un qualcosa di raro, di eccezionale. Il suo riacquisto
fatto alla S. Sede e in così breve tempo, può ritenersi un complesso di reiterati miracoli. Sì
perché questa che vi abita – dice Alberoni a Firrao – è gente … acerrima, tenace e, può dirsi, superstiziosa di questa loro libertà,
nella quale consisteva il vivere a modo loro. Egli arriva a riconoscere che
ha un certo fondamento la distinzione di
cui i sammarinesi godevano ne’ paesi
circonvicini. Una distinzione
così alta ché sino i Cavaglieri Bolognesi
domandavano d’esser cittadini della Repubblica.
Agli occhi di Alberoni adesso San Marino non è più una Ginevra,[33]
o la sentina di tutti i contrabbandi.[34] È
un paese che va aiutato, protetto, adesso che si è dato alla Santa Sede. In primis sta a lui proteggerlo, perché
è stato lui l’artefice della dedizione. Sta a lui cogliere le preoccupazioni
dei neosudditi e farsene carico. Da subito si impegna nel nuovo ruolo. E vuole
che anche Firrao si impegni perché ai sammarinesi venghi stabilito un Governo sotto il quale abbino a vivere con leggi
piene di Giustizia, e d’equità, adattate per quanto sarà possibile al loro
genio ed antico costume, e non abbiano mai a pentirsi della fiducia avuta in
quelli che han cooperato alla loro dedizione. Se i sammarinesi finissero
per trovarsi male sotto la Santa Sede, se dovessero pentirsi della dedizione,
dice a Firrao, confesso Em.mo Padrone che
se ciò mai succedesse troppo grande sarebbe il mio dolore, e nel poco tempo che
mi resta a vivere, dovrei forse augurarmi di non aver avuta parte in
quest’affare.
Alberoni è così ben disposto verso i sammarinesi che si mette subito a
concedere loro, per così dire, qualunque cosa gli chiedano. Cosa si chiede ai
potenti nell’ancien régime? Privilegi. I sammarinesi chiedono privilegi.
I
privilegi
San Marino nel momento in cui perde
la libertà politica, cessando di essere una entità separata dallo Stato della
Chiesa, corre il rischio di finire del tutto uniformato agli altri luoghi dello
Stato della Chiesa, anche per gli aspetti giuridici, amministrativi e, in
particolare, fiscali. Trattandosi di una dedizione spontanea è logico attendersi
che ai sammarinesi come minimo vengano confermate le condizioni di privilegio
godute precedentemente.
Ad Alberoni, attraverso il Breve e le Istruzioni, è stata
conferita un’ampia delega in materia di privilegi.[35]
Già domenica 18 egli aveva capito che occorreva attingere abbondantemente a
tale delega per farsi perdonare l’uso dei soldati. Ha messo subito le mani
avanti scrivendo a Firrao: converrà
chiudere gli occhi sopra qualche cosa cioè in materia economica e contentarsi di avere assicurato quello che
importava di più, cioè la soppressione dell’autonomia politica.
In effetti Alberoni è molto generoso coi sammarinesi. Concede
molto. Moltissimo. Si va dal Privilegio
della provvista del Sale al solito prezzo senza la menoma alterazione alla
completa esenzione di qualunque Colletta
Camerale imposta, e da imporsi in avvenire nello Stato Pontificio. In
sostanza si potrebbe dire che il territorio della ex Repubblica entrerebbe sì a
far parte dello Stato della Chiesa, ma, di fatto, almeno sotto l’aspetto fiscale,
continuerebbe a restarne fuori.
Alberoni, per
dimostrare ulteriormente la sua generosità, aggiunge il Privilegio di poter portare per tutto lo Stato Ecclesiastico lo
Schioppo ad uso di Caccia. Aggiunge l’esenzione dalle Confiscazioni de’ … Beni per qualunque Delitto. I
sammarinesi, inoltre, non saranno in
qualunque modo soggetti, né per cause Civili, né Criminali, né per qualunque
Interesse, anche Economico, ò Comunitativo ai tribunali romani, ma unicamente alla Legazione di Romagna, ed al
Legato prò tempore.
Seguono poi altri privilegi che esonerano i sammarinesi dalle
tante altre vessazioni cui sono soggetti i normali sudditi della Santa Sede,[36] al
di là dei brevi confini della ex Repubblica. Provvedimenti tanto nel Politico, economico che giuridico che sono adattati a un Governo avvezzo da lungo tempo
a vivere in libertà,[37]
si giustifica Alberoni. In effetti vengono concessi soprattutto per uno scopo
immediato: guadagnare consensi fra i sammarinesi in vista della cerimonia di
domenica 25 in Pieve.
Appena pronta, la lista dei privilegi è inviata celermente a
Ravenna per farla stampare sotto forma di manifesto. I manifesti saranno
affissi in tutta la Repubblica entro sabato 24 in modo che tutta la popolazione
ne possa prendere visione. Tutta la popolazione della Repubblica è invitata a
partecipare alla cerimonia del giorno dopo in Pieve, per una festa corale della
intera comunità stretta attorno ad Alberoni, come una famiglia attorno al padre.
Il
nuovo governo
Alberoni si impegna a cercare di
costruire per i sammarinesi la miglior forma di governo possibile. Non gli è
facile. Questo è un luogo che si è retto sempre a repubblica. Ora, il luogo, passa
al dominio diretto della Santa Sede. Alberoni vorrebbe conciliare le
istituzioni di una comunità ab immemorabili
libera, cioè amministrata da membri della stessa comunità, con quelle proprie
di una comunità soggetta, cioè governata da autorità imposte dall’esterno. È
come quadrare il cerchio.
Alberoni ci mette tutta la sua buona volontà per risolvere
la questione. Ma trova subito delle difficoltà. Pensa che le difficoltà che
incontra derivino dal fatto che è salito quassù
senza ministri,[38]
dice a Firrao. Cerca di rimediare con intellettuali reperiti sul posto (due savi sammarinesi) o lì attorno (Bianchi,
l’avvocato Bonzetti entrambi di
Rimini). Ci si mette lui
stesso, di persona, ad osservar lo
Statuto, e riconoscere alcuna delle scritture … del pubblico archivio. Il
lavoro però non va avanti.
Alla fine Alberoni getta la spugna: si è concluso non esser questa una impresa da farsi in angustia di
tempo. Conviene rimandarla e pensare
a tali cose da altro luogo e con comodo.[39]
Si decide di comune accordo, esperti sammarinesi e non sammarinesi, di
limitarsi a stendere un Piano
Provvisionale.[40]
Proponendosi in appresso di vagliare le
decisioni che più maturamente si riterranno
necessarie, e proficue alla direzione de
pubblici interessi.
In base a detto Piano
Provisionale al vertice dell’amministra-zione, al posto dei due Capitani
(un nobile e un non nobile) che stavano in carica sei mesi, d’ora in avanti,
per una durata di due mesi, ci sarà un Gonfaloniere (consigliere del primo
rango) affiancato da due Conservatori (due consiglieri, uno del secondo ed uno
del terzo rango). Nella contingenza i due ex Capitani Gian Giacomo Angeli e
Alfonso Giangi, in carica dal 1° ottobre, vengono nominati da Alberoni
rispettivamente Gonfaloniere e Conservatore per il secondo rango. A
Conservatore per il terzo rango è nominato Giuliano Malpeli, anch’egli già
consigliere.
In pratica Alberoni utilizza la ristrutturazione
dell’amministra-zione pubblica, come già il rifacimento del Consiglio, per uno
scopo meramente politico a breve: accontentare quanta più gente possibile in
vista della cerimonia di domenica 25. Lascia ai vertici tutti quelli che già vi
erano e, al contempo, allarga il ventaglio dei posti di comando per far salire
altri.
Massima cura dedica Alberoni ad instaurare un buon rapporto
coi consiglieri. Sono loro al centro di tutto. Loro, uno ad uno, saranno chiamati
a giurare sul libro del Vangelo, aperto sulle sue ginocchia domenica 25. Sono
stati scelti, sì, di comune accordo fra le parti e in particolare su
suggerimento di Onofri, però è il suo segretario a firmare, a nome suo, per
ciascuno di essi singolarmente la lettera di nomina. Per ciascuno di essi cerca
di creare un motivo personale di riconoscenza nei suoi confronti. Non possono
non essergli grati, ad esempio, i consiglieri di nuova nomina (F. Baroncini, S.
Franzoni, L. Canini, G. Casali, G. Vita, M. Biondi, D. Bertoni, L. Valentini e
altri), o quelli che sono stati elevati di rango (M. Giangi, B. A. Martelli) o
che rimanendo nello stesso rango hanno guadagnato una carica nuova (G. Malpeli).
Alberoni ascolta tutti. Riceve tutti. Nella sua anticamera è
un susseguirsi ininterrotto di sammarinesi. Di vecchi governanti, anzitutto. Dice
Gozi: in anticamera del cardinale ci
si va qualche volta per tenerli in fede di
modo che non sospettino, ma la nostra
intenzione non è mai stata di prestare il giuramento![41]
La gran tavola[42]
che Alberoni si era premurato di allestire fin dal primo giorno, la tiene
sempre imbandita. Non manca di sfoderare, all’occorrenza, la lusinga del rinfresco delle Cioccolate.[43]
Il pensiero a Ravenna
Mercoledì 21 ottobre, ritenendo
ormai prossima la conclusione dell’impresa,
Alberoni comunica a Firrao che non gli resta che fermare in ogni miglior modo le cose più essenziali, e poi correrà
giù a Ravenna. Tanto più che –
aggiunge – trattenermi più lungamente
quassù in paese cotanto alpestre, di aria così rigida … con nebbia e pioggia,
che mai non cessano, non può riuscirmi se non eccessivamente nocivo: oltre il
grave riflesso di dovermi restituire ad assistere alli lavori de’ fiumi in
Ravenna.[44]
Già i lavori. La deviazione dei fiumi. Resta da incanalare il Montone nel nuovo
alveo, per completarla.
A San Marino diluvia.
Laggiù a Ravenna si sarà ugiato dal lavorare,[45]
pensa Alberoni. Anche il tempo si è messo contro di lui, con quell’autunno così
piovoso. Ma egli recupererà. Come ha recuperato la situazione a San Marino,
data da tutti per persa già al mattino del primo giorno del suo arrivo.
Alberoni è così sicuro che domenica 25 in Pieve potrà concludersi
felicemente l’intera operazione col giuramento pubblico e solenne dei nuovi
consiglieri, che non ritiene più necessario nemmeno proseguire la raccolta
degli atti di dedizione delle parrocchie attraverso i parroci. La sospende. Si
ferma a quelli già ricevuti nei giorni passati: Serravalle e Faetano il 17; Acquaviva
il 19; Faetano il 20. Visto che è in programma la dedizione dell’intera comunità,
che bisogno c’è di continuare a raccogliere quegli atti di dedizione parziali?
Alberoni è così sicuro che all’inizio della settimana veniente (forse
già lunedì 26) potrà essere di ritorno a Ravenna che dà ordine di lasciare già correre a Ravenna[46] la
posta a lui indirizzata transitante per Rimini.
Ritenuta ormai risolta l’incombenza
affidatagli dal papa, Alberoni ne dà notizia direttamente anche al card.
Corsini, nipote del papa: ho creduto di
non dover tediare l’E.V. con mie lettere credute anch’inutili, giacche le
notizie di questo successo le avrebbe vedute dalle lettere di Segreteria di
Stato. Io non ho che portar’all’E. V.
le piu vive, e le piu devote congratulazioni, che questo
acquisto, che involve in se gra-vissime conseguenze per la S.ta Sede, siasi
fatto nel modo, e forma desiderate da N. Sig.re, e sotto il di lui memora-bile
Pontificato, nella di cui gloria ho avuto la fortuna d’essermi interessato.[47]