San Marino. Trionfo di Zoe Niamkei Koyé in un altro concorso letterario

San Marino. Trionfo di Zoe Niamkei Koyé in un altro concorso letterario

Un altro successo in un concorso letterario per Zoe Niamkei Koyé, studentessa della Scuola Media di San Marino.

La Scuola Media di San Marino, attraverso un comunicato, rende noto che “la studentessa della classe 3G della sede di Fonte dell’Ovo, Zoe Niamkei Koyé, si è classificata al primo posto del Concorso letterario nazionale Monselice, indetto dalla Commissione per le Pari Opportunità della città, a partire dal temaDonne: la forza di cambiare il mondo’“.

L’alunna, “già vincitrice lo scorso anno del Premio Teresa Sarti Strada organizzato da Emergency con il testo ‘Sin da piccoli'”, ha presentato quest’anno un elaborato dal titolo ‘Nata per sognare’, che racconta la battaglia contro i talebani di Rasha, una giovane afghana con la passione per i motori, risultato al primo posto fra le opere presentate da tutta Italia per la sezione Narrativa delle Scuole secondarie di Primo Grado”.

Infine, la Scuola Media di San Marino “rinnova le congratulazioni alla studentessa e alla sua famiglia, orgogliosa dell’eccellente risultato, che conferma la sensibilità e il talento letterario di Zoe”.

Segue il testo dell’alunna:

“Nata per sognare” di Zoe Niamkei Koyé

Sarò onesta; sono sempre stata un “maschiaccio”, specialmente per la mia passione spiccata per i motori. La gente diceva di me che ero una bambina eccentrica, ribelle e che non stava mai al suo posto. Mi ricordo tutte le crocette scritte alla lavagna sotto il mio nome, i richiami di quella povera donna che mi faceva da bambinaia e tutta la spensieratezza e i sorrisi luminosi con cui affrontavo qualsiasi cosa…

Quanto vorrei essere leggera come ero una volta. La cella è piccola, fa freddo, i muri sono bianchi smorti, a farmi compagnia restano solo i ragnetti scuri agli angoli di questa gabbia. Tuttavia, potessi tornare indietro, seguirei le mie stesse orme, fino a ritrovarmi nuovamente qui, a scrivere in silenzio, ogni notte, accovacciata, a raccontare come sia arrivata in questo spregevole posto con la forza di protestare ancora.

Partirei dicendo che io sono una donna fortunata, che ha studiato, una donna che ha lavorato e che ha potuto coltivare con cura le sue passioni, finché loro si sono ritrovati con il potere in mano e hanno strappato a ogni donna il diritto di lavorare o studiare. Sono rimasta da un giorno all’altro senza mestiere, totalmente nascosta dietro ad un velo e priva di ogni libertà.

Le giornate avevano preso ad allungarsi; era primavera, era passato ormai un anno da quando i talebani erano saliti al potere, e tutti si dovevano attenere alla legge se tenevano alla propria pelle. Camminavo a fianco di Abba, che aveva accettato di accompagnarmi dalla parrucchiera. L’idea di dover essere seguita come una bambina a 25 anni mi stava creando un groppo in gola, che in qualche modo avrei dovuto digerire. Arrivammo presto davanti all’edificio e salutai Abba, che fino a quel momento non mi aveva rivolto parola; scostai la scura tenda che divideva quel freddo mondo dall’unico posto in cui si potesse essere sé stesse. Tolsi il burqa lasciando i lunghi capelli scuri scorrermi lungo la schiena e inspirai riempiendomi i polmoni di quel buon odore di lavanda. È da specificare che il parrucchiere non è mai “misto”, ma o solo per uomini o esclusivamente per donne, in modo che ci si possa togliere il burqa senza nessuna preoccupazione. Venni subito accolta da Halima, una vecchia amica che aveva deciso di dedicarsi a quel mestiere, uno dei pochi consentiti alle donne. Mi abbracciò, entusiasta di vedermi, mi fece sedere e prese a curarmi i capelli… Nonostante sia passato molto tempo, mi ricordo tutto di quella conversazione.

– Alla fine tuo padre ti ha trovato un futuro marito? – mi chiese.

– Non mi ha detto nulla… spero di no.

– Io il mio non lo conosco bene, ma ti assicuro che non è male, cioè ti mantiene lui… tu devi solo occuparti delle faccende di cas―

– Halima sei seria?! – la interruppi.

– Tanto, Rasha, non ci si può fare niente, che ti piaccia o no: è meglio se te lo fai andar bene.

Prese una ciocca di capelli.

– Non ti riconosco più.

– Sono solo più realista.

Iniziò a tagliarli.

– Halima, ci hanno tolto tutto, tu non volevi diventare una farmacista? Guardati adesso! Come riesci a fare finta di niente?

Si voltò, come se non riuscisse a sostenere lo sguardo che le stavo rivolgendo.

– Spero che tu abbia smesso di andare le notti nel parcheggio qui sopra a fare le tue acrobazie assurde con il motorino – disse tenendo lo sguardo sul pettine, con il quale, delicata, mi stava separando le ciocche.

Girai di scatto la testa, incredula: come faceva a saperlo?

Lei rise e aggiunse:

– Rasha, abito a qualche metro da qui adesso, ricordi? Mi sono trasferita per il matrimonio. Come facevo a non accorgermene? È stato semplice anche riconoscerti… mai conosciuto nessuno tanto bravo come te.

Il complimento riuscì a strapparmi un sorriso. Sentii il pettine stopparsi bruscamente, alzai il volto per incontrare il suo sguardo rigido.

– So benissimo quanto sia grande la tua passione, ma devi metterla da parte. Hai idea di quanto sia pericoloso quello che stai facendo? Ci hanno proibito di guidare: dovresti rispettare la legge. Per favore metti il tuo sogno in un cassetto come ho fatto io, tanto prima o poi qualcuno verrà ad aiutarci…

Ebbi la sensazione di essere tradita da quelle sue parole, che mi colpirono dritto dentro il cuore.

– Smetti di ingannarti, Halima, nessuno ci aiuterà. Se non facciamo qualcosa noi… puoi anche aspettare, ma prima che tu possa ritirare fuori il tuo sogno dal cassetto, saremo tutti nella tomba!

Non mi resi conto di aver alzato la voce, attirando gli sguardi contorti delle clienti.

– Mi sa che non ti è ben chiaro, Rasha, quello che è successo a quella porella. Si è messa a protestare e le hanno sparato, così, dritto in testa, in modo che tacesse una volta per tutte. Vuoi per caso finire così?

Ammutolii. Halima appoggiò le forbici sul tavolino lì a fianco, fece un sospiro e ricominciò a sorridere.

– Che te ne pare? – chiese facendo ondulare i capelli, che adesso arrivavano poco più in giù della spalla.

– Belli, molto, peccato che nessuno li possa vedere.

Mi alzai e andai a pagare con i soldi che aveva dato a me Abba.

Una volta tornati a casa, fui libera di mostrare il mio viso e sedermi alla tavola dopo aver apparecchiato. Ero dovuta tornare a vivere con i miei, dal momento che non si poteva essere indipendenti. Mia madre si sedette al tavolo dopo aver servito il cibo.

– Oddio, Rasha, i capelli ti stanno una favola! – esclamò.

– Stavi meglio prima. – la interruppe la voce roca di Abba.

– Rasha, vedi di esser pronta per domani; ti accompagno a fare la spesa, che tua madre non si sente molto bene.

Annuii, Abba non era mai stato molto amichevole, ma adesso l’atmosfera fra di noi era cambiata, sentivo la sua autorità: era una cosa che mi smarriva un po’ ma, anche a quello, avevo deciso di non fare caso.

La mattina seguente ero fuori con Abba, scorsi con la coda dell’occhio una sagoma che attirò la mia attenzione: Halima. La riconobbi semplicemente per il suo burqa floreale. Era in giro con un uomo, intuii pochi istanti dopo che era il marito che mi aveva nominato qualche tempo prima. Vidi che gli stava sussurrando all’orecchio qualcosa con fare giocoso e l’attimo dopo il suo volto era girato dall’altra parte. Lo schiaffo fu così inaspettato che realizzai cosa stava succedendo solo mentre lui la strattonava violentemente, portandola via. Mi si creò un nodo in gola, sentii che cominciavo a diventare rossa. Ero furiosa. Abba, che non vedeva il mio volto, mi incitò a muovermi, distraendomi da quell’oscenità.

– Rasha, impara a farti gli affari tuoi.

Fu questa la risposta che Halima mi diede quando la incontrai qualche giorno dopo.

Rimasi sbigottita mentre lei, cercando di tagliare corto, se ne andò lasciandomi davanti al fruttivendolo con una mela in mano e una sola certezza: io non sarei mai stata quel tipo di donna.

Nei mesi seguenti iniziai ad alzarmi a notte fonda e ad appendere lungo le strade lenzuoli bianchi, su cui erano scritte frasi di protesta sui diritti delle donne, ma in particolare sull’abolizione della libertà di guida.

All’inizio ero convinta che nessuno ne sarebbe stato effettivamente interessato, eppure la gente iniziò a sembrarne attratta, la notizia si sparse velocemente ed io continuai. Il governo non sembrava affatto contento; pochi mesi dopo l’inizio delle mie proteste, con i lenzuoli fecero un falò, minacciando che chiunque li stesse criticando l’avrebbe pagata cara, eppure la cosa mi stimolò ancora di più a stuzzicarli.

In autunno la notizia aveva iniziato a conquistare i telegiornali. Mi ero guadagnata il soprannome di “cavaliere in rosso e bianco”, dato dal rosso contrastante con cui adornavo i candidi lenzuoli. Agivo con più cautela possibile, stavo attenta ad ogni dettaglio; mi sentivo al sicuro, eppure… erano riusciti a risalire alla mia identità.

Se non erro erano le 18:21, quando Abba aprì la porta, trovandosi davanti uno di loro, che chiese immediatamente di me. Io indossai il burqa e mi feci avanti. In tribunale, di fronte alle loro denunce, ammisi di essere colpevole sorridendo. Peccato che loro non lo abbiano potuto vedere, era proprio un bel sorriso.

Per motivi di cui non sono a conoscenza, hanno deciso di tenermi in vita e di chiudermi in questa cella pensando di tenermi buona; brutto errore!

Entrai qui sapendo che avrei dovuto scontare trent’anni di galera, ma avendo già deciso che non sarei di sicuro stata zitta.

L’unica cosa che mi permette di interagire con l’esterno è la piccola fessura da cui le guardie, a turno, mi porgono la sbobba che chiamano cibo.

Attraverso quello spazietto ho avuto modo di farmi amica una guardia, Keyah, originaria della Costa d’Avorio. Non ho idea di come lei sia arrivata qui o perché, ho provato a chiederglielo ma rimane sempre molto ferma sul fatto che io debba occuparmi degli affari miei. È molto dura, ma non è cattiva, anzi io la trovo molto gentile; tutto sommato è lei che mi fornisce di notte i fogli per scrivere.

Ho iniziato così a scrivere ogni giorno la storia di cui ora siete a conoscenza; ho trovato anche una fessura nel muro nella quale nasconderla, in modo che durante i controlli nessuno si accorga di questa “insignificante” infrazione.

(…)

Sì, è vero, da piccola sono sempre stata un “maschiaccio”, ho seguito il mio sogno e l’ho difeso; ho sempre fatto quello che pensavo fosse giusto, mi sono ribellata alle regole, sono eccentrica e non sto mai al mio posto, ma in un mondo come questo è un male?

Fu così che la Presidente di Giuria finì di leggere la prima parte del testo ritrovato in un carcere dell’Afghanistan qualche anno prima che l’autrice vincesse il Nobel per la pace. Si sistemò gli occhiali.

– Questo testo è di Rasha Hura, una ragazza afghana che ha lottato fino all’ultimo per i diritti delle donne e che, nonostante la condanna a trent’anni per le proteste contro i talebani, ha raccontato la sua storia.

Si portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio.

– Purtroppo Rasha è morta prima che si trovasse il suo scritto Nata per sognare, ma ha lasciato di sicuro il segno nella storia dell’Afghanistan e delle donne.

 

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