PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO. Seconda puntata (Il grande duello)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO.   Seconda puntata (Il grande duello)

PROTEZIONE SI’, DOMINIO
NO

Come ha fatto la Repubblica di San Marino a rimanere indipendente

PROTEZIONE SI’, DOMINIO NO

seconda puntata
(Inquadramento e  protagonisti)
(Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXII, Anno scolastico 1995-96)

(Il grande duello)

 (Annuario della Scuola
Secondaria Superiore, n. XXIII, Anno scolastico 1995-96)  

Gian Benedetto Belluzzi

Abbiamo già conosciuto, su indicazione del nostro Autore, tre sammarinesi ecclesiastici, pronti a porsi al servizio della loro patria in ogni evenienza fino – se necessario – ad anteporre gli impegni ed i doveri verso di essa a quelli del proprio ufficio e, addirittura, del proprio status di religiosi. In effetti il loro comportamento non è da considerarsi eccezionale. Nemmeno quello di Mons. Maggio, che ha tanto scandalizzato il nostro Autore. Comportamenti analoghi si riscontrano anche fra i sammarinesi laici in servizio presso l’amministrazione dello Stato Pontificio. E’ significativo e, per certi versi, più eclatante di quelli citati dall’Autore, il caso di Gian Benedetto Belluzzi.

Il Belluzzi è un tipico rappresentante di quei ‘funzionari itineranti del diritto’ che caratterizzano per secoli lo scenario politico del microcosmo sammarinese. Uomini che peregrinano da un ufficio all’altro, dentro e fuori dallo Stato Pontificio, ed al contempo svolgono – magari saltuariamente – un qualche ruolo di responsabilità nel loro paese.

Ancor prima che esplodesse la vicenda alberoniana, il Belluzzi era uno dei massimi protagonisti della politica sammarinese. E già da diversi anni si trovava proprio al servizio dell’Alberoni, come suo “Luogotenente Civile” nella Legazione di Romagna. L’Alberoni, appena gli prospettano da Roma la ‘questione San Marino’, si vanta col Firrao di avere pronta in casa la pedina giusta: il Belluzzi appunto. E lo spedisce subito in missione sul Titano per farsi assegnare il ruolo di mediatore fra il Titano e Roma. Ma i sammarinesi respingono la proposta, benché presentata da un concittadino così autorevole. Non solo. A detta dell’Alberoni, essi – fratello Ludovico compreso – cominciano a rimproverare a Gian Benedetto di essere “poco amante della di lui Patria, vile, e codardo”, per non essere ancora riuscito, lui con la sua posizione e con la sua professionalità, ad attirare l’Alberoni dalla parte di San Marino nello scontro con Roma.

Il Belluzzi sa che è Roma ed in particolare il Firrao a spingere l’Alberoni contro San Marino. Cerca di spiegarlo ai suoi concittadini. Ma invano. Invano, ad esempio, scrive ai suoi concittadini che la “rapresaglia” che colpì i Bonelli “di Roma stessa fu ordinata” e che l’Alberoni non poteva non eseguirla. E che anzi, appena poté, egli lasciò liberi i due sammarinesi e li favorì per quanto possibile: “S. E. fece chiuder l’occhio circa la sigurtà … S.E. (si dica e si esclami quanto si vuole) non ha mai straniato né la Repubblica, né i Rappresagliati, anzi a questi ha mostrato gli effetti dell’animo suo generoso, e benefico”!

Gian Benedetto Belluzzi, pur ragionando in questi termini coi suoi concittadini, rimane tuttavia prudentemente guardingo verso l’Alberoni. Lavorando con lui gomito a gomito per anni, ha avuto modo di conoscerne i metodi di governo ed i risvolti della personalità. L’Alberoni invece sembra riporre sempre piena fiducia nel Belluzzi: in una lettera del 28 marzo 1739 scrive al Firrao che il Belluzzi, “uno de’ Principali di San Marino”, a proposito dei governanti del suo paese va dicendo: “Iddio non può più tollerare il governo iniquo e tiranno di quella combricola”. E’ una affermazione che lascia perplessi: appena tre giorni dopo – e l’Alberoni lo sa – il Belluzzi sarà a San Marino per assumere, in coppia con Biagio Antonio Martelli, la carica di Capitano, cioè di capo di quella “combricola”. Quello fra l’Alberoni ed il Belluzzi è un rapporto che si mantiene, giorno dopo giorno, pericolosamente in equilibrio sulla lama di un rasoio. Dice in una lettera l’Alberoni al Firrao: “Sotto il primo del passato Aprile [Lei] si degnò scrivermi, che i Sammarinesi (forse per ispaventar Roma) avevano fatto correre una ciarla, che volevano darsi al Gran Duca. Io risposi, che tal nuova, l’avevo detta al Belluzzi che allora era primo Capitano di S. Marino e nell’istesso tempo mio Luogotenente Civile, e che se ne mostrò confuso, e sorpreso, senza però dirmi né sì, né no”.

Tuttavia l’Alberoni fino all’ultimo è convinto che il Belluzzi possa (e voglia) essergli di aiuto. Quando il Belluzzi va da lui ad accomiatarsi per finita Luogotenenza, egli coglie l’occasione per affidargli un nuovo pacchetto di proposte da portare sul Titano. Il Belluzzi, rientrato a San Marino, puntualmente riferisce al Consiglio ed illustra lui stesso – da Capitano – le proposte dell’Alberoni. Ebbene, il Consiglio, dopo lunga discussione, “fu d’unanime [si noti unanime] sentimento risoluto … di non acettare”, perché i “proietti che da Sua Eminenza erano stati suggeriti … furono creduti svantaggiosissimi”.

Insomma anche il Belluzzi antepone i doveri del buon cittadino a quelli del proprio ufficio, benché questo ufficio sia a fianco, anzi alle dipendenze di cotanto personaggio. E farà di tutto per “assicurare la Repubblica nel modo migliore, che sia possibile”. E non avrà remore ad affermare, quando si inizierà a giocare a carte scoperte, che occorre difendersi con ogni mezzo dal “capriccio di chi, deviando dal sentiero del giusto e dell’onesto, cerca di opprimere la libertà di chi non ha forze proprie per sostenerla”.

Lasciato l’incarico di Luogotenente Civile a Ravenna, nel maggio del 1739 il Belluzzi si trasferisce a Bologna, dove è stato nominato giudice presso la rota (tribunale) di quella città. Raramente è a San Marino, benché Capitano. Guida la politica sammarinese da Bologna. All’occorrenza partono da Bologna raccomandazioni del tipo: “Che il Signor Canonico [Leonardelli] ed il Signor Abate Zampini … stiano vigilanti e in parata per qualche sottomano che potessero ordire”. Il Canonico e l’Abate indirizzano direttamente a lui, da Roma, missive anche dal contenuto ‘pericoloso’, dimostrando così di avere in lui, entrambi – pur cane e gatto fra loro – piena fiducia. E piena fiducia ha in lui pure il suo collega Capitano, Martelli, costretto spesso a prendere le decisioni da solo in condizioni via via più difficili. Il Martelli gli scrive in continuazione, attestandogli la sua buona volontà, la sua fedeltà alla causa della Repubblica. Eppure, dai suoi concittadini, è “tacciato di voler fare le cose senza dipendere” dal collega. Per difendersi da quell’accusa, supplichevole, chiede aiuto allo stesso Belluzzi: “V. S. Ill.ma … può farmi giustizia del continuo carteggio avuto con Lei in ossequio della stima dovutale, e in adempimento del debito che me ne corre”. Conscio delle difficoltà in cui si sta cacciando il paese, vorrebbe il Belluzzi più presente a San Marino e non tralascia occasione per rinnovare “le suppliche pel suo ritorno, per il maggior vantaggio di questo Governo”. Senza successo. Belluzzi rimarrà a Bologna anche durante “le vacanze” estive. Starà a Bologna anche nel cruciale mese di ottobre. Di lì, pur non essendo più Capitano, continuerà a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende sammarinesi. Costituisce, per così dire, il terzo polo della resistenza sammarinese, dopo quello di Roma e del Titano. A lui, infatti, fanno capo da Roma l’Agente Zampini, l’Inviato Leonardelli e Mons. Maggio, ma anche quelli che si trovano in prima linea sul Titano, ad esempio Girolamo Gozi, e, soprattutto, la sorella, suor Lucrezia, ed il fratello Ludovico.

 

Viva la libertà

Il ruolo svolto da suor Lucrezia nella lotta contro l’Alberoni, dall’interno del Monastero di Santa Chiara, è meno conosciuto di quello di Ludovico, il braccio operativo più noto della resistenza sammarinese. Ludovico Belluzzi non ha avuto bisogno, per fare la sua scelta di campo, che giungesse a San Marino copia della lettera della Segreteria di Stato annessa al Breve. Già domenica 18 ottobre era corso giù a Serravalle a rimproverare quegli “80 uomini” che il giorno prima avevano applaudito l’Alberoni.

L’Alberoni, per toglierlo di mezzo, in vista della cerimonia del solenne giuramento prevista per domenica 25, constatata l’inefficacia di altri mezzi, venerdì 23 mandò ad arrestarlo. Ludovico non si intimorì di fronte agli sbirri: “nel mentre … veniva condotto alle Carceri gridò ‘Viva la libertà, Viva S. Marino’. Il Bargello gli gettò adosso parte del suo ferraiolo e gli pose un fazzoletto alla bocca”. E’ lo stesso Alberoni a riferire l’episodio al Firrao in una lettera scritta il 24, all’interno di un contesto argomentativo sul modo più economico e funzionale per mantenere il controllo del luogo, adesso che è stato acquisito alla Santa Sede. Non lega l’episodio alla cerimonia di domenica. E non fa il nome del temerario, non dice che è il fratello di colui che egli ha avuto a Ravenna per anni come suo Luogotenente Civile e che ora è giudice a Bologna.

L’episodio di Ludovico Belluzzi fa molto scalpore, anche oltre il territorio sammarinese. L’Alberoni non può non parlarne al Firrao, che prima o poi ne sarebbe comunque venuto a conoscenza. Meglio anticipare.

Giovanni Bianchi, un intellettuale riminese dell’entourage alberoniano, racconta così il fatto al Muratori: “Venerdì …. Lodovico Bellucci, andava pubblicamente … per la Terra gridando: Viva San Marino, Viva la Libertà …, anche nelle mani de’ Sergenti della Giustizia, seguitava a gridare viva la Libertà, e così va gridando nelle Carceri Medesime”. Quasi continui ancora a gridare e il Bianchi lo senta perfino da Rimini. In effetti durò a lungo quel grido ed arrivò lontano. Non solo per merito dei sammarinesi, ma anche dei tanti ‘Bianchi’ che l’hanno rilanciato per l’Italia e per il mondo. Verso la metà del Settecento, sparsi qua e là, c’erano già tanti ‘Muratori’ ansiosi di ricevere il “ragguaglio di codesto avvenimento” che si andava consumando sul Titano. Personaggi singolari che assillano il Bianchi con pressanti richieste di notizie e che al contempo sembrano mettere in dubbio quanto il Bianchi va loro scrivendo, come si rileva dalla insistenza con cui essi gli pongono e ripropongono la domanda: veramente “quella povera Rep.ca ha spirato l’ultimo fiato”?

I ‘Muratori’ sanno che “Popolo avvezzo a Repubblica se non dopo lungo si quieta, e si accomoda al giogo”.

L’Alberoni, che evidentemente ha avuto una formazione diversa da quella del Muratori, non riesce a capacitarsi dei continui sussulti che si trova a fronteggiare e che lo costringono a “star all’erta” in permanenza. Non sapendo o non volendo interpretarli secondo i canoni del Muratori, elude il problema rifugiandosi, irrazionalmente, nell’invettiva: quello sammarinese è “un Popolaccio, che si volta ad ogni vento”, sentenzia nella lettera al Firrao del 24 ottobre.

L’Alberoni, pur scrivendo al Firrao alla vigilia della solenne e pubblica dedizione della comunità sammarinese alla Santa Sede, accenna appena ed in modo indiretto all’avvenimento. Eppure è un appuntamento importante. O almeno tale era stato considerato otto giorni prima, il 18, quando il cardinale lo aveva fissato – dice lui – dopo aver parlato coi parroci e su consiglio degli stessi parroci. Appena lo ebbe fissato subito si era premurato di informarne il Firrao. Addirittura gliene aveva parlato in entrambe le lettere speditegli il 18, anticipandogli già molti particolari: la cerimonia, detta del “solenne giuramento”, si sarebbe svolta in pieve ed in giorno di festa per consentire la massima partecipazione anche della gente comune, e sarebbe terminata con un doveroso Te Deum di ringraziamento, dato che “un affare che poteasi rendere difficile, e spinoso” era stato risolto e “terminato con tanta felicità, e con tanta gloria di Nostro Signore Clemente XII”.

Aveva spedito, nella prima parte della settimana, inviti a destra ed a manca per quella cerimonia, che doveva costituire il coronamento di tutta l’operazione: voleva avere al suo fianco, in quel momento, le più prestigiose autorità religiose e politiche della Romagna. Ed aveva ingaggiato ben quattro notai per stendere il verbale della cerimonia, affinché nessuno, a Roma o altrove, avesse a ridire sulla spontaneità della dedizione. A Roma, dopo un successo simile, nessuno più si sarebbe opposto alla sua permanenza nella Legazione e finalmente avrebbe potuto portare a termine quei lavori attorno a Ravenna che gli stavano tanto a cuore. E, forse, andare oltre nel mandato.

Ma ora, alla vigilia di quell’appuntamento, si sente molto meno sicuro di otto giorni prima, quando lo aveva fissato. Ripercorriamo quegli otto giorni.

 

La fase del collaborazionismo

Per l’Alberoni la settimana successiva al suo arrivo era cominciata secondo i migliori auspici. Già domenica 18, in segno di ‘spontanea’ e pubblica dedizione, gli erano state consegnate, con tanto di rogito, dai due Capitani in persona, Gian Giacomo Angeli e Alfonso Giangi, accompagnati dal Segretario Biagio Antonio Martelli, “le Chiavi delle Porte della Terra, della Rocca, e degli altri luoghi pubblici”. Ed era proseguita fin dai primi giorni della settimana la raccolta degli atti di sottomissione delle altre parrocchie, dopo quelli di Serravalle, Borgo e Fiorentino ricevuti il giorno stesso dell’arrivo: lunedì si era presentato il parroco di Faetano, martedì quello di Acquaviva. Qualche ritardo per Montegiardino e Chiesanuova ma non per cattiva volontà. Già mercoledì l’Alberoni può scrivere al Firrao: “tutto è caminato tal qual poteasi desiderare”. Ed esclama soddisfatto: “ci è riuscito il farne acquisto con tanta facilità e sì buon successo ch’era difficile l’imaginarselo, non che crederlo”!

Appena ricevute le chiavi dei luoghi pubblici egli aveva preso anche materialmente possesso del paese, ‘tirando’ “a sè … la Bandiera e Ruolo de’ Soldati, i Sigilli”, visitando la Rocca, poi il Palazzo ed infine l’Archivio. Ma si era guardato bene dall’acutizzare la situazione, magari umiliando i vecchi governanti o, peggio, lasciandoli in balia della fazione vincente, quella dei Lolli. Tira fuori dalle carceri Pietro Lolli, assegna a lui ed a suo fratello qualche posto di responsabilità, distribuisce qualche prebenda ai Ceccoli (seguaci del Lolli), ma non permette che si consumino vendette. Ne è una riprova l’atteggiamento che assume verso Marino Belzoppi, il braccio operativo della fazione del Lolli. Il Belzoppi verrà tenuto dentro col pretesto di pendenze per reati comuni e, appena possibile, sarà trasferito in una prigione della Legazione, lontano dal Titano. Insomma l’Alberoni non lo vuole in circolazione a San Marino, perché, dato il carattere iroso e vendicativo, avrebbe potuto creare problemi di ordine pubblico, magari mettendo in atto qualche gesto sconsiderato verso qualche personaggio del vecchio apparato governativo. Al contrario l’Alberoni non esita a liberare dallo stesso carcere Gian Battista Zampini, fratello dell’Abate, benché anche lui, come il Belzoppi, sia accusato di reati comuni.

In effetti l’Alberoni cerca subito il dialogo coi vecchi governanti, con l’obiettivo di coinvolgerli nella normalizzazione ed eliminare così ogni prevedibile resistenza alla formalizzazione della dedizione della Repubblica alla Santa Sede prevista per domenica 25. Comincia col contattare da subito il Dottor Giuseppe Onofri: “il giorno dopo il suo arivo … fu da lui stesso fatto chiamare come uno de’ più giusti e più clementi”. Dopo l’Onofri, personaggio autorevolissimo per nobiltà, scienza ed ‘enorme’ proprietà terriera, segnalatogli probabilmente dall’Almerighi, continua con gli altri. Con sua grande meraviglia non incontra resistenza alcuna nel portare avanti il suo proposito. L’intera classe dei vecchi governanti asseconda i suoi intendimenti, quasi lo precede nei suoi desideri, gli si accosta, va a lui scusandosi addirittura per il ritardo: “sono venuti ad pedes col pregarmi voler perdonare la loro tardanza usata nel venir’a fare il loro dovere di dichiararsi sudditi della Santa Sede”. Il vecchio cardinale è sorpreso. Rimane per un attimo perplesso. E’ sfiorato dal dubbio: “non sò se possa credersi che in un Istante abbino a mutar massime, genio e costume”. Sembra paventare una macchinazione. Ma, poi, l’ombra si dissolve: lusingato da quello svolgersi dei fatti, è portato a ritenere che quel che succede sia frutto della sua abilità e della sua destrezza. Si tranquillizza. Si rilassa. Si lascia andare fino a profondersi in affermazioni insolite nei confronti dei sammarinesi, “gente … acerrima, tenace e, può dirsi, superstiziosa di questa loro libertà, nella quale consisteva il vivere a modo loro”. Arriva addirittura a riconoscere una qualche fondatezza alla “distinzione che [essi] godevano ne’ paesi circonvicini”: una “distinzione” tale “ché sino i Cavaglieri Bolognesi domandavano d’esser cittadini della Repubblica”. Dice, compiaciuto, al Firrao: “mostrano tutti di avere in me una somma fede, di credere quello che gli ho detto, che tra tutti i sudditi della Santa Sede saranno i più felici e i più fortunati, senza mai avere a ricordarsi del loro antico Governo; che d’esser più che sicuri che in questa mutazione io gli procurarò tutti i vantaggi possibili; e questa è stata sempre la gran fiducia che hanno avuto ed hanno in me”.

Egli comincia a guardare la situazione come la vedono loro, i sammarinesi. Si mette nei loro panni. Passa a condividere le loro preoccupazioni di neosudditi della Santa Sede. Se ne fa carico. Si impegna, e vuole che anche il Firrao si impegni, perché a loro “venghi stabilito un Governo sotto il quale abbino a vivere con leggi piene di Giustizia, e d’equità, adattate per quanto sarà possibile al loro genio ed antico costume, e non abbiano mai a pentirsi della fiducia avuta in quelli che han cooperato alla loro dedizione”. Se i sammarinesi dovessero trovarsi male sotto la Santa Sede, se dovessero pentirsi della dedizione spontanea, “confesso Em.mo Padrone che se ciò mai succedesse troppo grande sarebbe il mio dolore, e nel poco tempo che mi resta a vivere, dovrei forse augurarmi di non aver avuta parte in quest’affare”.

L’atteggiamento di rassegnata e, al contempo, attiva collaborazione da parte dei vecchi governanti induce l’Alberoni ad allentare la pressione del controllo poliziesco sul paese, così che essi hanno maggiori possibilità di manovra nell’organizzare la resistenza. Abbiamo già visto, che proprio in quegli stessi giorni, è pervenuta per ‘vie miracolose’ sul Titano una copia della lettera della Segreteria di Stato contenente le istruzioni cui avrebbe dovuto attenersi l’Alberoni. I vecchi governanti hanno esaminato attentamente quelle istruzioni, individuato i punti che l’Alberoni aveva disatteso, preparato una versione dei fatti che mettesse in risalto proprio quelle trasgressioni, ed inviato in tutta fretta, martedì 20, quella loro versione (lettera dell’Anonimo) a Mons. Maggio a Roma, il quale la leggerà al papa. Lettere e dispacci analoghi partono alla volta di Urbino, di Bologna e per altre destinazioni.

Ovviamente tutto questo avviene in gran segreto, senza destare alcun sospetto nel fronte alberoniano, che – con addetti al seguito a vario titolo, soldati e sbirri – ha inondato la minuscola, lillipuziana capitale i cui abitanti “vix trecentesimum numerum excedebant”. “La sera del [Lunedì] 19 partirono li Soldati di Verucchio e poco dopo giunse da Ravenna il Bargello di Colluna con 20 Sbirri a Cavallo”. Né l’Alberoni, né l’Almerighi, né il Bargello, né tutti gli altri al suo servizio, compresi i numerosissimi informatori segreti, nessuno ebbe sentore del lavorio sotterraneo dei sammarinesi, in particolare della messa a punto e della spedizione della lettera dell’Anonimo. Di quel periodo l’Alberoni avrà questo ricordo: “per otto giorni continui li già Oppressori conferiscono meco, e lavorano per mezzo del Dottore Onofrj, uno di essi, … con … alacrità, e buon genio”.

 

Un nuovo Consiglio

Ed è un lavorare concreto. Scrive ancora l’Alberoni al Firrao mercoledì 21: “sono alcune sere che col Signor Avocato Bonzetti di Rimini e due di questi soggetti creduti i più savi e i più assennati, si travaglia a formare un piano provvisionale del nuovo Governo”. Il nuovo governo prende rapidamente forma. Si tratta, ovviamente, di un governo ‘locale’ che, come avviene per ogni Terra immediate subiecta, ha solo compiti amministrativi. La responsabilità politica è affidata ad un governatore nominato dalle autorità pontificie. Per il resto l’Alberoni compie ogni sforzo per salvaguardare le peculiarità della comunità sammarinese, per rispettarne le tradizioni e per pacificarvi gli animi dopo tanti anni di contrasto interno. Ricostruisce un “Consiglio di sessanta Persone”, così come era previsto negli antichi statuti (al momento del suo arrivo il numero dei consiglieri viventi si aggirava attorno a 25). Egli riconferma i vecchi e procede alla nomina dei nuovi, tenendo conto, nello scegliere i nuovi, della norma statutaria secondo cui, dei 60 consiglieri, 40 devono essere “abitanti della Città, e Borghi” e 20 “abitanti del Contado”. E rispetta pure la norma consuetudinaria di “un Consiglio generale composto di tre Ordini [o ranghi] di persone”, cioè “di Nobili, di cittadini tra i quali gli artisti, e di Paesani”. Al vertice invece dei Capitani (un nobile e un non nobile) che stavano in carica sei mesi, d’ora in avanti, per una durata di due mesi, ci sarà un Gonfaloniere (consigliere del primo rango) affiancato da due Conservatori (due consiglieri, uno del secondo ed uno del terzo rango). I due ex Capitani Gian Giacomo Angeli e Alfonso Giangi, in carica dall’1 ottobre, vengono nominati rispettivamente Gonfaloniere e Conservatore per il secondo rango. A Conservatore per il terzo rango è nominato Giuliano Malpeli, anch’egli già consigliere.

In pratica l’Alberoni lascia ai vertici dell’amministrazione pubblica tutti quelli che già vi erano e, al contempo, allarga il ventaglio dei posti per far salire altri.

Il numero effettivo dei componenti del consiglio era questione controversa, tormentata e complessa, che teneva banco da oltre un decennio nella piccola Repubblica, motivo di aspro contrasto, anzi, almeno all’apparenza, il principale motivo di scontro fra il Lolli ed i suoi da una parte ed i vecchi governanti dall’altra. Invano il Lolli ed altri per anni avevano chiesto ai vecchi governanti di riempire tutti i seggi fino a 60.

Impossibile per l’Alberoni mancare di dare quella soddisfazione alla parte politica che aveva favorito la sua venuta. D’altra parte egli sapeva che, così facendo, avrebbe resa manifesta, quindi cocente, la sconfitta dei vecchi governanti. Questi, umiliati, non gliela avrebbero perdonata. Si sarebbero di nuovo messi di traverso e, per non rendere definitiva la loro sconfitta, avrebbero cercato di ostacolare in ogni modo la formalizzazione della dedizione.

L’Alberoni supera – brillantemente ? – l’impasse portando sì a 60 il numero dei consiglieri, come vuole il Lolli, ma facendosi ‘assistere’ nell’operazione proprio dai vecchi governanti, cioè procedendo con il loro consenso: chiama “a consulta quelli stessi che erano reputati i Capi delle passate oppressioni, e che da questi a sua Em.za quelle notizie si suggerì, che erano più necessarie per le disposizioni del Governo”. Così che l’accrescimento del numero dei consiglieri fino a 60, che avrebbe potuto costituire un motivo di insanabile contrasto fra l’Alberoni e vecchi governanti, viene trasformato in una occasione di collaborazione: i nuovi consiglieri – oltre una trentina – li sceglie e nomina il cardinale, ma a seguito di un accordo che ha il consenso di tutte le parti.

Tutte le parti, sia pure ciascuna per ragioni diverse, hanno motivo per ritenersi soddisfatte. In primo luogo è soddisfatto l’Alberoni che, sia pure indirettamente e tacitamente, si vede riconosciuto il diritto di nominare i consiglieri – e formare un nuovo governo – come se il conglobamento del territorio sammarinese nello Stato Pontificio fosse già perfezionato e la sua autorità, a nome della Santa Sede, fosse già affermata ed accettata.

Il Lolli ottiene ciò che ha sempre rivendicato: un Consiglio di 60 membri. Quanto al resto, poco importa: se la sua fazione non ha in mano tutto il nuovo governo e non può contare che su una mezza dozzina di consiglieri, la protezione riconoscente del cardinale (e quindi della Santa Sede) è, per lui e per i suoi, garanzia più che sufficiente tanto nella fase del trapasso dei poteri che per il futuro.

I vecchi governanti controllano la quasi totalità dei seggi in consiglio, come prima. Come prima occupano i primi posti nell’organigramma del governo. Rimanendo, anche visivamente, al centro della scena politica, possono riprendere da subito il loro consueto ruolo di punto di riferimento per il paese e per la stessa gente comune, dopo il breve periodo di sbandamento creato dall’ambiguo comportamento dei parroci, nelle prime ore dall’arrivo dell’Alberoni.

Visto dalla parte dell’Alberoni il Consiglio conta poco. Ecco perché concede tanto. La composizione del Consiglio non è importante. O almeno non è importante in sé. Appena formalizzata la dedizione della Repubblica alla Santa Sede, quel Consiglio, come negli altri luoghi dello Stato Pontificio, diventerà un semplice organo amministrativo, al più con competenza nella ripartizione dei carichi fiscali all’interno della comunità. Il potere politico passerà automaticamente nelle mani del governatore la cui nomina, come per gli altri luoghi, spetta alle autorità pontificie. Insomma l’unico atto politico che il nuovo Consiglio è chiamato a promulgare è anche l’ultimo, quello di domenica 25: la dedizione della Repubblica alla Santa Sede. Tutto passa in secondo piano in vista di tale obiettivo. Fra l’altro, dopo l’acquisizione, San Marino diverrà una comune Terra immediata subiecta, quindi le autorità pontificie non troveranno, all’occorrenza, alcun ostacolo a intervenire anche sulla composizione del Consiglio, come succede ordinariamente, qua e là, coi pretesti più vari di ordine religioso o civile.

L’Alberoni ha, dunque, il pensiero fisso sulla cerimonia di domenica. Fa tutto in funzione di quell’appuntamento. Contatta e nomina i consiglieri ad uno ad uno, perché ad uno ad uno domenica essi giureranno sul sacro libro del Vangelo aperto sulle sue ginocchia. Per ciascuno cerca di creare un motivo di riconoscenza nei suoi confronti. Non possono non essergli grati, ad esempio, i consiglieri di nuova nomina (F. Baroncini, S. Franzoni, L. Canini, G. Casali, G. Vita, M. Biondi, D. Bertoni, L. Valentini), o quelli che sono stati elevati di rango (M. Giangi, B.A. Martelli) o che rimanendo nello stesso rango hanno guadagnato una carica nuova (G. Malpeli). Ascolta tutti. Riceve tutti. Nella sua anticamera è un susseguirsi ininterrotto di persone: ci si va senza paura di destare sospetto. La “gran tavola” che egli si era preoccupato di allestire fin dal primo giorno, la tiene sempre imbandita. Non manca di sfoderare, all’occorrenza, la lusinga del “rinfresco delle Cioccolate”.

.Entro la mattinata di giovedì 22 ottobre, l’organigramma del nuovo governo è pronto. Sono stati scelti il Gonfaloniere (l’ex capitano Angeli, nobile), il Conservatore ‘cittadino’ (l’ex capitano Giangi, commerciante) ed il Conservatore ‘campagnolo’ (Malpeli, agricoltore). L’Alberoni è visibilmente compiaciuto: “non vi potrà essere più né prepotenza né Tirannia, poiché ogn’uno potrà dire il fatto suo”.

Ora non gli resta che trasmettere le lettere di nomina ai designati ed invitarli alla cerimonia del solenne giuramento di domenica 25.

 

I privilegi

In parallelo col nuovo assetto governativo l’Alberoni porta avanti – in accordo con i vecchi governanti – la definizione di un’altra delicata materia, oggetto della massima attenzione da tutte le parti fin dall’inizio della vicenda: quella dei cosiddetti ‘privilegi’. San Marino nel momento che perde la libertà politica, cessando di essere una entità separata dallo Stato Pontificio, corre il rischio di essere uniformato automaticamente agli altri luoghi dello Stato, anche per gli aspetti giuridici, amministrativi, e, in particolare, fiscali. Trattandosi di una dedizione spontanea è logico attendersi che i sammarinesi come minimo chiedano il mantenimento delle condizioni precedenti, che ora, una volta inseriti nello Stato Pontificio, si configurano, rispetto agli altri sudditi, come ‘privilegi’.

All’Alberoni è stata conferita attraverso il Breve e la lettera della Segreteria di Stato unita allo stesso Breve, una delega specifica con ampi margini di discrezionalità, in materia di privilegi. Appena arrivato a San Marino, già il 18, l’Alberoni aveva capito che occorreva attingere abbondantemente a tale delega. Mette subito le mani avanti scrivendo al Firrao: “converrà chiudere gli occhi sopra qualche cosa [cioè in materia di privilegi economici ecc.], e contentarsi di avere assicurato quello che importava di più”, cioè la soppressione della autonomia politica.

In effetti l’Alberoni si comporta con molta liberalità nei confronti dei sammarinesi, in materia di privilegi. Concede molto. Moltissimo. Si va dal “Privilegio della provvista del Sale al solito prezzo senza la menoma alterazione, e dall’esenzione di qualunque Colletta Camerale imposta, e da imporsi in avvenire nello Stato Pontificio”, al “Privilegio di poter portare per tutto lo Stato Ecclesiastico lo Schioppo ad uso di Caccia”, a quello dell’esenzione “dalle Confiscazioni de’ … Beni per qualunque Delitto”, a quello “di non essere in qualunque modo soggetti, né per cause Civili, né Criminali, né per qualunque Interesse, anche Economico, ò Comunitativo” ai tribunali romani, “ma unicamente alla Legazione di Romagna, ed al Legato prò tempore”. Seguono altri privilegi che esonerano i sammarinesi dalle tante vessazioni cui sono soggetti i normali sudditi della Santa Sede.

Quelli concessi dall’Alberoni sono “provvedimenti tanto nel Politico, economico che giuridico … adattati a un Governo avvezzo da lungo tempo a vivere in libertà”. E vengono concessi in circostanze particolari, per un fine strumentale: in vista della cerimonia di domenica 25. Appena la lista dei privilegi è pronta, si stende il relativo decreto ed il tutto viene inviato per via celere a Ravenna per farlo stampare sotto forma di manifesto. I manifesti dovranno essere affissi in tutta la Repubblica entro sabato 24 in modo che tutta la popolazione ne possa prendere visione. Tutta la popolazione della Repubblica è invitata a partecipare alla cerimonia del giorno dopo.

Il cardinal Alberoni si è preparato al meglio alla cerimonia curandone in prima persona tutti gli aspetti, anche quelli decisamente secondari. Ad esempio, ha fatto richiesta, per tempo, a Ravenna “d’un Piviale, d’una Pianeta, e di due Tonicelle”. Poi ha aggiunto: “Se avete una cappa magna me la manderete”. Infine ha deciso per “l’abito lungo di scarlato”. Ordine tassativo: il tutto “che si trovi Sabbato qui in S. Marino”.

Le cose procedono decisamente bene per l’Alberoni. Anche il cuoco è finalmente arrivato. Aveva chiesto che glielo mandassero da Ravenna già sabato 17, appena si era reso conto che a risolvere la questione sammarinese non bastava lo spazio di un week-end. Ne aveva sollecitato nuovamente l’invio, come pure del “Credenziere”, domenica 18. Ma lunedì 19 scrive: “Sin’ora non si è veduto il cuoco e ve n’è un gran bisogno”. Poi, finalmente, era arrivato anche il cuoco. Solo il tempo rimane decisamente brutto, inclemente: “qui diluvia”. Ed il pensiero corre a Ravenna, ai lavori che forse non vanno avanti a causa, appunto, del maltempo o della sua assenza. Aveva scritto ai suoi di Ravenna, visibilmente accorato, appena arrivato sul Titano, nel pomeriggio di sabato 17: “voi dovete prendere le vostre misure per cotesti Lavori che non abbino a tardare a causa della mia assenza”.

 

La svolta di metà settimana

L’Alberoni stava preparando il grande appuntamento di domenica 25 e tutto stava procedendo, per lui, secondo i migliori auspici, quando, improvvisamente, la situazione cambiò: “La notte del Giovedì venendo il Venerdì [i ‘Tirannetti’] mandarono al Castello di Serravalle uomini armati a minacciare quell’Arciprete ed alcuni altri di detto luogo, che se fossero andati domenica a prestar il solenne giuramento, un giorno, e più presto di quello che pensavano, avrebbero reso conto alla Repubblica, e che adesso per all’ora li avrebbe riguardati come Ribelli; che dovevano credere essere quella una scena ridicola, che era imminente un Conclave, e che sotto un’altro Papa la Repubblica sarebbe risorta gloriosa e trionfante”. Insomma voci certamente messe in giro da uomini “in malafede”, che mirano, pericolosamente, a riaccendere la contestazione come il primo giorno del suo arrivo. L’obiettivo della macchinazione: “fare tutto il possibile perché non segua Domenica il solenne giuramento”. L’Alberoni ne scrive al Firrao sabato 24, ne parla come di una prova, appunto, della “malafede” dei “tirannetti”. Lo informa inoltre che quella “malafede” gli ha provocato delle noie: le voci hanno riscosso credito, la contestazione si è effettivamente riaccesa. Insomma questo è un “popolaccio vario ed incostante [su cui] non si può far fondamento”! Egli si è trovato costretto nuovamente a “mutar sistemma” e “dalla piacevolezza passare al rigore”.

Effettivamente l’Alberoni, appena gli sono giunte all’orecchio quelle voci, è corso ai ripari adoperando, all’occorrenza, anche la forza. Già venerdì mattina prontamente i soldati mettono a tacere coloro che pubblicamente incitavano al boicottaggio della cerimonia, arrestandoli (Valerio Maccioni e Ludovico Belluzzi) o costringendoli alla fuga nel territorio della Legazione di Urbino (Pier Antonio Leonardelli e Filippo Manenti). Chi ha manifestato anche una semplice riluttanza è stato ammonito e – a detta dei sammarinesi – minacciato fin nella famiglia (Gozi, Onofri, Begni, Martelli).

Tuttavia l’Alberoni non si ferma: la preparazione della cerimonia va avanti. In particolare si provvede, secondo programma, all’invio delle nomine dei consiglieri. Eccone una: “D’ordine dell’Ecc.mo, e Rev.mo Sig.e Cardinale Giulio Alberoni Legato a Latere della Romagna, e della Santità di Nostro Signore specialmente delegato, si fa sapere à Giuliano Malpeli essere dall’Eminenza Sua stato annoverato tra li Consiglieri di Terzo Rango col carattere di Conservatore di questa Città di San Marino, e facendosi dall’Eminenza Sua Domenica Prossima 25 del corrente la funzione d’assistere in Abito alla gran Messa in musica della Chiesa matrice della Città, dovrà pertanto il medesimo Malpeli venire a servire l’eminenza Sua colli Sig.ri Confaloniere, et altro Conservatore suoi Compagni. Dato da Palazzo della Residenza dell’Eminentissimo e Reverendissimo S.r Cardinale Legato questo dì 23 Ott. 1739. [Firmato] Sig. Baldassar Bellardi, Segretario”.

Nel testo della lettera di nomina, che al contempo è anche un ordine-invito a partecipare alla cerimonia, non si fa cenno al giuramento. Pare proprio che sia intervenuta una variazione di programma nello svolgimento della cerimonia o almeno una variazione del suo significato. L’Alberoni, lo stesso sabato 24, quasi volesse indirettamente far sapere che la vicenda sammarinese in effetti è già conclusa, trasmette a Roma questa notizia: “Per il glorioso e memorabile riacquisto fatto alla Santa Sede sotto l’Augusto Pontificato di Nostro Signore” affinché “se ne perpetui la memoria appresso i Posteri … avendo saputo che in Rimini vi è un Busto rappresentante l’immagine di N.S. senza che abbia quel Pubblico potuto servirsene”, egli lo ha fatto portare sul Titano “per collocarlo sulla facciata “ del Palazzo con una adeguata iscrizione. Ed allega alla lettera, a mo’ di ciliegina, “un bozzetto” dell’opera affinché quei di Roma e soprattutto “l’Em.mo Corsini n’abbino sotto l’occhio in qualche modo l’idea”.

 

Tensione nella “sera fatale”

Al Firrao, sabato 24, l’Alberoni non dice esplicitamente che il giro di vite è finalizzato ad assicurare un regolare svolgimento alla cerimonia dell’indomani. Gli racconta di Ludovico Belluzzi (e di Filippo Manenti salvatosi dalla galera con la fuga) a mo’ di premessa ad un lungo, stucchevole, quasi delirante ragionamento sui provvedimenti che dovranno essere presi per mantenere il “luogo”, dando per scontato che il luogo sia stato già definitivamente acquisito, quasi che la cerimonia dell’indomani sia un ‘pro forma’. Premesso che sarà necessario un presidio militare fisso, il vecchio cardinale si mette a disquisire sulla consistenza di tale presidio (“cinquanta Uomini”), sulla composizione (“un Tenente col titolo di Comandante, Alfiere, Sergente e suoi Caporali”), sul dove sistemarli “con pochissima spesa” (“il sito delle Porte, e della Rocca”), sui precedenti che giustificherebbero la dislocazione di tale presidio (“Torre de Bonarelli [anche quello, come S. Marino] un nido di quattro disgraziati contrabandieri”), sul come mettere assieme quei soldati “senza aggravare la Camera” (facendolo venire “da Ferrara” dove c’è stabile un “presidio di mille uomini”, di cui spesso ” si mandavano cento soldati alla Mesola”). Il succo: “questo luogo non può stare solamente con cinque o sei Birri, ma bisogna pensare di porre in questa Rocca, e alle Porte almeno cinquanta soldati”.

Le grida di Ludovico Belluzzi, che non si tacque nemmeno ammanettato, nemmeno quando “veniva condotto alle Carceri”, nemmeno quando “il Bargello gli gettò adosso parte del suo ferraiolo e gli pose un fazzoletto alla bocca” (e ancora “così va gridando dalle Carceri medesime”, come apprendiamo dal Bianchi), devono aver turbato non poco il vecchio cardinale e forse continuano a risuonargli ancora nelle orecchie mentre scrive al Firrao, influenzandone lo stile e anche la consueta chiarezza espositiva. Tanto più che Ludovico Belluzzi, nei giorni precedenti, “aveva affettato particolare devozione alla Santa Sede”.

A lettera terminata, gli arrivano altre segnalazioni che egli riporta nel Post Scriptum: “i cinque tiranni … continuano a far correre voce, e s’ingegnano a farla credere, che all’imminente Conclave ed anche prima, quando il Papa abbia vita, che la Repubblica ritornarà ad essere quella che era…. Una diabolica invenzione che ha messo in timore più d’uno”. Fra quelli ‘messi in timore’ c’è lo stesso Alberoni? Quelle voci, oltre che insistenti, sono divenute precise: “Oggi hanno sparso che il Conte Zambeccari di Bologna [rappresentante della Spagna] siasi portato a Roma per le poste per assisterli e proteggerli, e che impegnarà il Card. Acquaviva”.

Dopo aver messo in condizioni di non nuocere le teste calde, cioè gli irriducibili, l’Alberoni riallaccia il dialogo con tutti gli altri, adoperando probabilmente come esca la questione dei privilegi: i privilegi già concessi si possono ulteriormente accrescere. Fra i maggiorenti che contatta nuovamente c’è sicuramente l’Onofri. E sembra che abbia avuto luogo, nel tardo pomeriggio, in vista della cerimonia dell’indomani, addirittura una riunione, per così dire, preparatoria, presenti tutti i consiglieri del primo rango, compreso il Lolli. E sembra che nel corso della riunione nessuno abbia fatto presagire un atteggiamento contrastivo riguardo al giuramento.

Alla cerimonia il cardinale farà partecipare anche delegati di Serravalle, Faetano e Montegiardino, cioè dei castelli ex malatestiani, che non avevano voce in Consiglio. Tale decisione è stata presa all’ultimo momento. A Serravalle la riunione per l’elezione dei due delegati ha luogo sabato 24, presenti 36 abitanti. Gli abitanti di Faetano e di Montegiardino procedono alla designazione addirittura nella prima mattinata di domenica 25, riunendosi in San Marino-Città rispettivamente in numero di 26 e di 20.

Il fatto rivela un certo nervosismo nel fronte alberoniano, quasi un affanno, certamente un appannamento nella esecuzione del progetto messo a punto con tanta lucida determinazione all’inizio della settimana.

Analogo nervosismo si riscontra dalla parte dei sammarinesi. Il loro tentativo di boicottare la partecipazione alla cerimonia è stato neutralizzato dal pronto e capillare intervento poliziesco del cardinale. La preparazione della cerimonia non si è interrotta. Già sta dilagando per il paese una folla di forestieri. “Oggi 24 sabato – scrive un anonimo del fronte alberoniano – sono giunti molti Musici, e Sonatori, così pure il Sig. Marchese Spreti, Mons. [leggasi Conte] Rasponi, molti Cavallieri di Rimino, e d’altre Città circonvicine per vedere la funzione pubblica che sarà fatta domattina nella Chiesa Principale di S. Marino da S. E. di prendere dà questi popoli il giuramento di fedeltà alla S. Sede”.

I sammarinesi tuttavia non si arrendono. Tentano un’altra, un’ultima strada: premere sul vescovo del Montefeltro, che deve arrivare da un momento all’altro, perché convinca il cardinale a sospendere la cerimonia. Si imbarcano in questo ennesimo tentativo pur consapevoli della scarsa probabilità di una riuscita: le cose ormai sono andate troppo avanti e, soprattutto, quel vescovo, Mons. Calvi, non è detto che dia loro ascolto dato che in passato non è stato tenero verso i vecchi governanti, avendo dimostrato, piuttosto, una certa condiscendenza verso la famiglia Belzoppi, notoriamente schierata con la fazione del Lolli.

“Nella sera de’ 24 il Dottore Giuseppe Onofrj” come apprende dell’arrivo sul Titano del nipote del vescovo mandato in anteprima “a complimentar sua Eminenza”, si precipita da lui, facendosi accompagnare e presentare addirittura da Pietro Lolli (!), per scongiurarlo “con le lacrime agli occhi perché volesse gittarsi a piedi del Sig. Cardinale, e piagnere, e pregare per loro”. Ma “l’Archidiacono Calvi Nepote di quel Prelato”, si defila per “l’età sua giovanile da tal impegno”. Allora “l’Onofrj impaziente dimandò, e ridimandò mille volte in quella sera fatale, se nulla sapeasi di certo circa la venuta del Vescovo”. Ma il vescovo quella sera non arrivò. E forse non solo per colpa della pioggia che da giorni cadeva incessante sulla zona e rendeva difficile la viabilità.

Invece “giungeva ad un’ora di notte [cioè verso le 19] da Ravenna tutta la Guardia Svizzera di S.E”, registra puntualmente l’anonimo del fronte alberoniano.

 

Uno strano verbale

Il vescovo arriva sul Titano domenica verso le 10, 30. L’Onofri, che lo aspettava con apprensione, “si fé subito vedere in Casa dell’Arciprete Angeli per intender dall’Archidiacono quanto fosse per operare Monsig.” vescovo, riguardo alla richiesta della sera prima. Gli fu risposto che ormai mancava troppo poco all’ora in cui “il Sig. Cardinale intim’avea la funzione, onde stata sarebbe temerità il voler muovere bocca in un affare tanto avanzato”.

In effetti la cerimonia ha inizio poco dopo, verso le 11, 30, come da programma.

Per la ricostruzione degli avvenimenti di quel giorno ci si potrebbe basare sull’atto specifico “rogato in solidum da quattro pubblici notai estranei a San Marino”. Vi dovremmo poter trovare una miniera di informazioni. In effetti le informazioni ci sono ed anche tante. Ma di che tipo? Apprendiamo che il cardinale quella mattina è partito presto “dalla Casa de’ Signori Valloni situata in detta Città di San Marino, ove risiede l’Eminenza Sua, scortato da due Corpi di Soldati di Cavalleria, e Fanteria (dodici uomini a cavallo e cinquanta fanti in maggior decoro di quella Sacra Funzione), preceduto dal Clero della stessa Città, da molta Nobiltà forestiera de’ luoghi circonvicini … da Cittadini e da grandissimo numero di Popolo d’ogni Rango tra le pubbliche continuate voci di Evviva di tutta la Gente che acclamava la Santa Sede, si trasferì alla Chiesa Matrice di S. Marino”. Sappiamo che però prima di entrare era passato per la chiesetta di San Pietro ad adorare “l’Augustissimo Sacramento dell’Altare, avanti del quale, sopra uno Sgabello preparato, fece breve, e devota Orazione…”, che poi si vestì (“in disparte”) con “Cappa Magna”, che entrò in pieve dove è accolto “dal Signor D. Francesco Angeli Arciprete di detta Chiesa vestito con Piviale” e dove “genuflettendosi Sua Eminenza sopra un cussino ivi preparato, li fu presentata la Croce”. Sappiamo poi che il Cardinale “si alzò, e successivamente presentatoli l’Aspersorio dell’Acqua Santa, dopo aver asperso se stesso, asperse il Clero, e Popolo tutto; di poi postasi in capo la Beretta, mise nel Turibolo l’Incenso, col quale dal detto Signor Arciprete Angeli fu tre volte incensato” e, finalmente, a suon di musica, “giunse al Faldisterio ivi preparato”, e dopo altri canti, “dal detto Signor Arciprete Angeli così vestito col Piviale, stando in Cornu Epistolae [fu recitata] l’orazione prescritta in detto Pontificale”. E così via. Non si manca di sottolineare che attraverso il solito Arciprete – si chiama Angeli, per chi non l’avesse inteso! – “fu pubblicata l’indulgenza di Cento giorni da Sua Eminenza concessa al Popolo”. Poi il Cardinale “dall’Altare si trasferì al suo Trono eretto in Cornu Evangelij” ed invece “l’Ill.mo e Rev.mo Monsignore Giovanni Grisostomo Calvi Vescovo di Monte Feltro vestito Pontificalmente … poscia a Sua Eminenza … si trasferì al Faldistorio preparato a Cornu Epistolae col suo Postergale.” Si va avanti con egual tono e pedanteria fino al “Vangelo, cantato il quale fu dato a baciare a Sua Eminenza, il quale poi incensata, sedé”.

E’ arrivato il momento del giuramento

Proprio ora però, stranamente, il verbale diventa stringato, contorto, avaro di particolari. Sorvola su indicazioni che, a rigore, dovrebbero ritenersi essenziali. Ad esempio, mentre il nome dell’arciprete ricorre già tre volte, coloro che devono giurare – questa doveva essere la cerimonia del solenne giuramento! – all’infuori del Gonfaloniere, Giacomo Angeli, non hanno nome: viene indicata genericamente la presenza di “moltissimi altri Signori Consiglieri d’ogni Rango”. Non solo. Sembra che essi, per il solo fatto che sono lì, cioè senza compiere alcun atto formale, abbiano ratificato “la spontanea Dedizione fatta da Signori Pubblici Rappresentanti in nome pubblico all’Eminenza Sua sotto li 18 corrente Ottobre”, cioè al momento della consegna delle chiavi delle porte e dei luoghi pubblici. Altra sorpresa: i delegati (due per castello) di Serravalle, Montegiardino e Faetano, indicati questi sì con nome e cognome, ratificano nell’occasione gli atti di dedizione firmati dai loro parroci rispettivamente il 17, il 19 ed il 23.

Insomma l’Alberoni – almeno così sembra dalla struttura del verbale – ha modificato il programma della cerimonia inizialmente incentrato sul giuramento solenne della comunità, cioè dei rappresentanti della comunità, vale a dire dei consiglieri. Pare che abbia messo in primo piano la convalida degli atti di dedizione già avvenuti, quasi che il giuramento dei consiglieri fosse un punto del programma, sul quale, all’occorrenza, si sarebbe potuto sorvolare.

In effetti non si sorvola. Si passa, a un certo punto, al giuramento dei consiglieri. Il verbale ne tratta in questi termini: “Datosi di mano però dal prefato Em.mo Signor Cardinale al Libro de’ Sagrosanti Vangeli presentatoli aperto dal Signor D. Ignazio Carpigiani Mansionario della Chiesa Metropolitana di Ravenna e Maestro di cerimonie, tenendolo così aperto l’Eminenza Sua l’esibì a tutti li sudetti, sopra del quale uno dopo l’altro toccando il Sagrosanto Vangelo, in mano all’Eminenza Sua defferente in forma, alla presenza degli infrascritti Testimoni, di Noi Notari, e del Popolo tutto pubblicamente e solennemente giurarono nella seguente forma …”. Segue la formula del giuramento. Poi il verbale conclude: “Et ita omnes supradicti iurarunt tactis Sacris Evangelijs ad delationem Em.mi et Rev.mi Domini Cardinali legati et Delegati ut supra deferentis in forma, et ad praesentiam nostram, totiusque Populi adstantis”.

Insomma non si riesce a capire chi, dei consiglieri, effettivamente abbia giurato: l’omnes supradicti rimanda a “tutti li sudetti”, che a sua volta sembra riferirsi ai, non meglio precisati, “moltissimi … Signori Consiglieri d’ogni Rango” presenti.

Dopo il ‘latinorum’ si legge: “Improvvisamente s’affacciò al Trono dell’Eminenza Sua il Signor Dottor Giuseppe Onofri, che seguito dalli Signori Girolamo Gozi, Biagio Martelli, Giovanni Marino Giangi, Alfonso Giangi, Lodovico Amatucci e Marino Tini, sedotti ed ingannati dal detto Dottor Onofri, sfacciatamente protestarono in favore della libertà e Repubblica, et insolentemente procurarono di suscitare il Tumulto del Popolo. Ma indarno, perché l’Eminenza Sua, colla coraggiosa sua gran Mente pensò (alzandosi in piedi sul Trono) sedare ogni Tumulto, e parlare in simigliante forma…”. Il Cardinale dice alla gente di cogliere l’occasione per liberarsi dalla ‘tirannide’ e godere degli enormi privilegi che la Santa Sede, per il suo tramite, ha già concesso. Nessuno replica. Il popolo osanna al cardinale ed al papa: “Evviva la Santa Sede; evviva il Papa, e moiano i Tiranni ed il Mal Governo”. La messa prosegue ed alla fine il vescovo che “s’era vestito di Piviale, ad alta voce intonò il Te Deum laudamus, il quale fu cantato solennemente in musica sino in fine”.

 

Tre diversi punti di vista

L’Alberoni riferisce quanto accaduto in pieve al Firrao lo stesso giorno in una lettera eccezionalmente breve. Dopo aver minimizzato il valore della cerimonia, riducendola a semplice convalida degli atti di sottomissione già raccolti nei giorni precedenti, lo informa che la richiesta di giuramento solenne “ha posto in tal furore quattro dei Tiranni, che si sono approssimati al Trono protestando contro tutto ciò che si faceva contro la libertà. Il Popolo ha cominciato ad alte voci: Viva il Papa, e moiano i Tiranni con tal rabbia e sdegno, che credevo non restassaro col corpo massacrati in Chiesa. Ho procurato di quietare il Popolaccio con fargli un breve discorso ed assicurarli che come sudditi fedeli che si mostrano della Santa Sede sarà cura della medesima proteggerli, e chi che siano vorrà opprimerli”.

Il Bianchi dà un’altra versione: “Domenica, mentre dal Vescovo di Montefeltro si cantava nella Pieve la Messa a cui il Legato assisteva per ricevere in tal tempo il Solenne giuramento dai sessanta novelli riordinati Consiglieri, il secondo di questi, che era stato creato Anziano, protestò contro, e gridò: viva San Marino, Viva la Libertà; così altri quattro fecero alternativamente, finche si arrivò al nono Consigliero, nel quale bisognò fermarsi per cagione del Tumulto nato, per cui S. E. s’alzò in piedi e parlò con fuoco al Popolo, esortandolo all’obbedienza alla S. Sede, e gridando Viva il Papa, e periscono i Tiranni e i Ribelli, e finitasi, come si potea il meglio, la messa, senza seguitare a dare il giuramento agli altri”, se ne andò a Palazzo Valloni.

Il sammarinese Girolamo Gozi racconta così la vicenda in una lettera al figlio: “Domenica mattina fece il Sig. Card. Alberoni Capella, ed all’Evangelio volle ricercare il Giuramento di fedeltà al Papa. Il Capitano Angeli lo diede; il Giangi giurò fedeltà a S. Marino, così fece Onofri, così feci io, così Martelli, il Giangi del Borgo, e così facevano tutti, se S. E. avesse permesso che tutti lo dessero”.

Un fatto è certo: la situazione, al momento del giuramento, dentro la chiesa, è degenerata. La cerimonia doveva fornire il suggello della legittimità dell’intera operazione, attraverso la dimostrazione pubblica della spontaneità della dedizione della Repubblica alla Santa Sede. L’Alberoni l’aveva organizzata personalmente, curata fin nei minimi particolari, unitamente ai suoi migliori collaboratori di Ravenna e di Rimini, e col massimo impegno. Altrettanto impegno hanno messo i sammarinesi per farla fallire: non essendo riusciti a boicottarla nei giorni precedenti per il pronto intervento poliziesco del cardinale, non rimaneva a loro che giocare la carta della contestazione durante la cerimonia stessa, forti del fatto che erano riusciti a far nominare un Consiglio nella stragrande maggioranza antialberoniano. E l’hanno giocata con abilità e tempismo. L’efficacia è indubbia. La presenza di tanti autorevoli forestieri fornisce al loro gesto una cassa di risonanza che ne spingerà l’eco fino a Roma e di lì in tutto il mondo.

 

I “Protestanti”

Non sappiamo quanti dei 60 Consiglieri fossero realmente presenti quella mattina in pieve. Si hanno i nomi solo della decina che hanno avuto modo di esprimersi. I “quattro notai estranei a San Marino” sono tanto provvidi nel descrivere un comune ‘Pontificale’, quanto parchi sul resto ed in particolare sul giuramento. Ma i narratori di quella fase della cerimonia non mancheranno, spunteranno come funghi, esploderanno in numero e fantasia nei giorni immediatamente successivi, nei restanti mesi di quell’anno e negli anni a venire per tutto quel secolo ed negli altri due secoli, fino ai giorni nostri. Eppure ricostruire lo svolgersi dei fatti è difficile come quando c’è scarsità di fonti.

Il primo in assoluto dei consiglieri ad essere chiamato a giurare fedeltà alla Santa Sede è Gian Giacomo Angeli, ex Capitano, ora consigliere del primo ordine, nominato Gonfaloniere. L’Angeli, zio del Lolli, giurò fedeltà alla Santa Sede senza esitazione.

Il secondo è Alfonso Giangi, anch’egli ex Capitano, ora consigliere di secondo rango nominato Conservatore. Il Giangi rifiutò di prestare giuramento di fedeltà alla Santa Sede ed accompagnò il rifiuto con la seguente motivazione espressa ad alta voce: “Il primo giorno di Ottobre giurai fedeltà al legittimo Principe della Repubblica di S. Marino, lo stesso giuramento adesso io confermo, e così giuro”.

Per terzo venne chiamato Giuliano Malpeli, consigliere di terzo rango, nominato Conservatore. Egli “toccando il libro degli Evangeli’ disse, sebben fra’ i denti: giuro per la libertà”.

Dopo i tre consiglieri che ricoprono le più alte cariche del nuovo governo, chiamati in ordine gerarchico, si fanno avanti, “alla rinfusa”, gli altri consiglieri. Il primo di questi senza incarico di governo (il quarto in assoluto) a presentarsi fu Pietro Lolli, il quale giurò senza proferire parola.

Quindi si presentò (quinto) Giuseppe Onofri. Egli, come il Giangi, si rifiutò di giurare proclamandone la ragione: “Io son richiesto di prestare il giuramento di fedeltà alla Santità di nostro Signore CLEMENTE XII, felicemente regnante. Se il Santo Padre m’obbliga al prefato giuramento con assoluto suo venerato Commando, io son pronto a prestarlo. Se poi la Santità Sua rimette questo all’arbitrio della mia volontà, io confermo il giuramento da me altre volte prestato, e giuro d’esser fedele alla diletta mia Repubblica di S. Marino”. Insomma l’Onofri mette in dubbio le facoltà dell’Alberoni, pubblicamente, davanti a cotanti testimoni, dando corpo alle voci miranti a delegittimarne l’autorità, insinuando un travalicamento delle autorizzazioni. Lo fa in termini precisi e chiari, ostentando una proterva sicurezza, come se già avesse saputo da Roma che il papa, a seguito della lettera dell’Anonimo, spedita martedì 20, ha deciso di riconsultare i sammarinesi per verificare la spontaneità della dedizione. Certamente la dichiarazione è preparata con molta cura, sia nella forma che nella sostanza. “Il Dottor Onofri aveva scritta questa sua protesta, e la leggeva con riso degli astanti, tenendola nel Capello” scrive l’Accolita nel tentativo di ridurne la portata.

Dopo l’Onofri è la volta di Girolamo Gozi (il sesto). Anch’egli non giura. Anch’egli ne dice la motivazione: “Eminentissimo Signore, sono in grado di porgere a V. E. quella stessa preghiera, che fece Gesù Cristo nell’Orto al Padre Eterno, SI POSSIBILE EST TRANSEAT A ME CALIX ISTE; mentre a vista di questa S. Testa non hò cuore di farle un cotal sfregio; anzi sempre dirò: Viva S. Marino, Viva la sua libertà”.

Nei resoconti della fase del giuramento si parla anche di una partecipazione, per così dire, popolare. I “quattro notai estranei a San Marino” registrano a verbale gli “Evviva il Papa” dopo il discorso dell’Alberoni, ma ignorano gli “Evviva San Marino, Viva la libertà” riportati invece nelle versioni dei sammarinesi. E viceversa. Non sappiamo se questi ultimi “Evviva” siano stati proferiti dopo la dichiarazione del Gozi, come scrivono gli stessi sammarinesi, o dopo quella dell’Onofri, come sostiene l’Accolita. Sia i sammarinesi che l’Accolita attribuiscono l’iniziativa a un cantore. Scrivono infatti i sammarinesi che, a un certo punto, alle affermazioni di un “Protestante” fece “plauso un nostro buon Prete di Campagna, Musico, che stava fra gli altri Cantori sull’Organo, con dire ad alta voce: ‘Bravi : Viva la libertà’”. Dopo di che “ s’udiron di nuovo dal tumultuante Popolo replicare l’istesse acclamazioni nelle quali proruppe lo stesso Sacerdote che assisteva da Diacono Monsignor Vescovo Celebrante”. L’Accolita si limita a riferire di “sciocche voci d’eviva che dall’Organo cantando proferiva un ardito, e scostumato musico”.

I sammarinesi metteranno in rilievo il coraggio di chi ha osato contestare il cardinale “benché vedesse attorniato il luogo da’ Soldati colle Baionette [e] una Squadra di trenta Birri alle Porte”. Gli alberoniani invece sottolineeranno la incoerenza: “Se ebbero il coraggio di protestare in pubblica Chiesa alla presenza di tanto Popolo, e Foresteria, e Soldati venuti in pompa, perché non farlo prima in tutti gli otto giorni, che col Cardinale Legato liberamente trattarono?

 

 

Giuseppe Onofri, il regista

La resistenza dei sammarinesi sul Titano ha indubbiamente in Giuseppe Onofri la mente organizzativa e strategica. Egli, politicamente, appartiene alla fazione dei vecchi governanti ma non è inviso al Lolli, con cui, diversamente dagli altri, non ha interrotto i rapporti. Per questo l’Alberoni l’aveva scelto come chiave di volta della normalizzazione. Sfruttando il ruolo assegnatogli dall’Alberoni e l’autorevolezza di cui gode presso i suoi concittadini, ha potuto scandire i tempi, fissare i limiti e regolare le forme sia della collaborazione che della contestazione (“Ognuno di noi – dice un sammarinese – aveva qualche incombenza”). Ha una chiara visione politica di tutta la vicenda. La sua dichiarazione durissima nella sostanza ed irreprensibile nella forma si integra con la precedente del Giangi e la seguente del Gozi. Anche di queste, molto probabilmente, è lui l’autore, come, del resto, sostiene l’Accolita.

L’Alberoni rimane sconcertato. Della contestazione aveva avuto un qualche sentore nei giorni precedenti, ma non se l’aspettava in questa forma. Finisce per trovarsi oggettivamente in difficoltà. Non ha di fronte, come gli è capitato altre volte, una forza militare, e nemmeno, come pure gli è capitato tante volte, un ostacolo giuridico. Non ha davanti nemmeno un fermento di quelle idee che, oltralpe, stanno preparando gli animi al fuoco delle rivoluzioni. Egli, sfruttando la sua duplice veste di autorità al contempo politica e religiosa, ha organizzato le cose in modo che la dedizione della Repubblica di San Marino allo Stato Pontificio, che è un atto di natura squisitamente politica e quindi di competenza del Consiglio, sia formalizzata non attraverso una deliberazione del Consiglio nella sua collegialità, in una riunione appositamente convocata a Palazzo Pubblico, ma attraverso i giuramenti individuali di “fedeltà al papa” dei singoli consiglieri, quasi fosse un problema personale di coscienza e sensibilità religiosa, all’interno di una cerimonia di natura squisitamente sacra come la celebrazione della Santa Messa. I sammarinesi si muovono all’incontrario: partono dal sentimento religioso attivo sul piano personale, la fedeltà al loro Santo, per affermare il diritto politico della comunità nel suo insieme a rimanere libera.

Contro l’Alberoni che ha scelto di adoperare la religione per sopprimere una libertà politica, i sammarinesi inalberano un’idea di religione che è un tutt’uno con la libertà politica. Un’idea certamente anacronistica sia sotto l’aspetto religioso sia sotto l’aspetto politico in pieno Settecento, perché un cimelio della storia, il frutto di una credenza medioevale. Eppure efficace ed adeguata di fronte ad una minaccia alla sopravvivenza politica della comunità che si presenta ancora in forme medioevalizzanti. Proprio la concezione “superstiziosa di questa loro libertà”, dà ai sammarinesi la forza e la sicurezza necessarie per non lasciarsi intimorire ed affrontare il cardinale nella pienezza dei suoi poteri spirituali e civili, con il sacro libro del vangelo sulle ginocchia e circondato dai suoi sbirri.

Tuttavia l’Alberoni non dimostra una particolare reazione alle contestazioni del Giangi, dell’Onofri e del Gozi. Si controlla, subisce ed incassa. Lascia che si vada avanti. Aspetta gli altri, soprattutto quelli che lui ha beneficato direttamente, personalmente, ad esempio il Martelli, già pronto a giurare.

Biagio Antonio Martelli – è arrivato il suo turno – era stato “più di ogni altro favorito da lui fino ad averlo posto fra i Consiglieri di primo Rango e fatto Segretario perpetuo”. Egli appartiene a una famiglia emergente, come i Giangi. Per una famiglia emergente in una qualsiasi realtà di quel periodo della storia, specie nello Stato Pontificio, riuscire ad entrare a far parte della nobiltà significa raggiungere una posizione, oltre che di prestigio, di enorme privilegio. Fra l’altro il Martelli, che era stato Capitano nel semestre precedente in coppia con Gian Benedetto Belluzzi non era, notoriamente, ben visto dai vecchi governanti, perché sospettato di portare avanti la battaglia contro il Lolli ed i suoi protettori esterni, con scarsa convinzione. Era bastato questo sospetto, per far scattare la minaccia – quando ancora era Capitano! – di bruciargli la casa. Con l’acquisizione della nobiltà, graziosamente concessagli dall’Alberoni, egli può collocarsi definitivamente al livello massimo della scala sociale e del potere. Inoltre con la carica di “Segretario perpetuo”, pure concessagli dall’Alberoni, si assicura una entrata regolare e costante, preziosissima per la sua famiglia che dispone, contrariamente a gran parte delle famiglie più in vista, di pochi beni al sole.

Dopo il Martelli c’è Marino Giangi anche lui, come dice l’Accolita, elevato alla nobiltà dall’Alberoni, quantunque faccia parte di una famiglia di artigiani-commercianti. Poi verrà Lodovico Amatucci anch’egli di una famiglia di artigiani-commercianti, poi ancora Marino Tini, un contadino analfabeta. Ebbene? “Prestarono il giuramento Biagio Martelli, Giammarino Giangi, Ludovico Amatucci, e Marino Tini nella maniera, ch’avevan fatto il Gozi, ed Onofri”. A questo punto l’Alberoni decide di intervenire: “temendo l’Em. S., che il restante di loro giurasse a favore della Repubblica, come senza fallo sarebbe seguito, dopo aver rigettati Pierantonio Leonardelli, e Gianni Beni, che s’erano presentati a giurare per la libertà, non volle ammettere gli altri Consiglieri al giuramento”. Si alzò in piedi e non riuscì a trattenersi dal “prorompere per ben due fiate in un assai ardente risentito discorso al Popolo”.

Ecco il discorso dell’Alberoni come riportato nel verbale dei “quattro notai”: “La Santa Sede, che trovasi in possesso di questa Città et Annessi, ed in assoluto Dominio e piena Giurisdizione non accetta, né io per la medesima accetto, anzi ripudio e rigetto l’impertinente Protesta fatta da questi pochi Tiranni, quali solo ambiziosi di Dominio, per opprimere i Poveri con le loro angarie, malvolentieri soffrono il vedersi spogliati di quel tirannico Commando, col quale sin ora hanno sfogato le loro barbare Passioni, colle loro manifeste Ingiustizie. Intanto ratifico a questi popoli la Clemenza del Sovrano, sotto di cui sono ritornati, e nome della Santa Sede li prometto, anzi ora li confermo tutti li Privilegi, che sin qui hanno goduti, e di più gliene concederò molti altri, se li domanderanno, quando non siano di pregiudizio della medesima Santa Sede Apostolica, e degl’altri Sudditi, e in nome della medesima gl’assicuro, e prometto che saranno sempre difesi dalla Barbarie e Tirannide di questi perfidi Ribelli, et avranno sempre in ogni tempo da detta Santa Sede tutto l’aiuto e forza”.

Insomma giuramento o non giuramento, l’acquisizione della Repubblica alla Santa Sede non può essere rimessa in discussione. E’ avvenuta e basta. E’ avvenuta con la consegna formale delle Chiavi da parte dei Capitani. Chi protesta è un ribelle. Coi ribelli non si scherza, come l’Alberoni stesso ricorderà richiamando un terribile precedente verificatosi in quel di Ancona per opera del Card. Benedetto Accolti.

 

 

Il saccheggio

Tuttavia l’Alberoni, nonostante le parole pronunciate in pieve, certamente di fuoco, tenta, di fatto, di smorzare il clamore della contestazione. Non considera i “Protestanti” dei “Ribelli”, andando contro le aspettative delle persone accanto a lui, le quali si meravigliarono che “come tali non li facesse arrestare in Chiesa … come anche sugeriva il Vescovo di Montefeltro, che si facesse per punirli secondo che meritavano”. I “Protestanti”, dal canto loro, cercano di non esasperare gli animi: sentito il discorso del cardinale, percepito quanto andavano mugugnando quelli del suo seguito e, soprattutto, “prevedendo dal volto adirato sinistri eventi, si ristettero nella stessa Chiesa”. Ciò bastò a proteggere le loro persone ma non a impedire che la tensione provocata dai loro comportamenti si abbattesse sulle loro case.

L’Alberoni, appena uscito dalla chiesa, se ne tornò a Palazzo Valloni coi suoi ospiti. Però “non stette a tavola [con loro], perché molto alterato e riscaldato per le cose successegli antecedentemente, ma mangiò da se in Camera parcamente”. Racconta poi lui stesso, quasi in diretta, al Firrao quel che segue: “Nel tempo che sto a tavola m’è venuto l’avviso che il Popolo infuriato contro i Protestanti è corso alle Case loro a saccheggiarle. Ho spedito subito 50 soldati riminesi che avevo di guardia per vedere di frenare questo Popolo; ma sono ritornati indietro; col dirmi che ne meno si sono potuto accostar’a dette case”. Dunque il saccheggio, secondo l’Alberoni, è opera dei sammarinesi stessi, del “Popolo” sammarinese adirato verso i “Protestanti” per aver in qualche modo messo in discussione la dedizione alla Santa Sede nel tentativo egoistico di evitare di perdere il loro potere personale. Questa tesi è sposata da molti appartenenti al fronte alberoniano. Emergono anche altre ipotesi, come si evince dalla relazione del notaio riminese Ubaldo Marchi: “Nel mentre che si pranzava, non si sa se fosse ordine del Legato o de suoi ministri, o mossi dalla propria avidità, molti Soldati della Truppa Papalina spalleggiati anche da Birri, entrarono nelle Case di quei Cittadini, che avevano ricusato di prestar giuramento”.

Per il Bianchi non ci sono dubbi: “S.E. .. ordinò il sacco alle cinque case di quei che aveano avuto campo di protestare, … ed il saccheggio fu tosto severamente eseguito”. Anche la gente comune del circondario è del parere del Bianchi: “esso Porporato ordinò l’assacco alle case … come subito fu eseguito”.

Certo è che l’operazione ha uno svolgimento che non può essere frutto del caso. Rivela, a detta dei sammarinesi, una pianificazione, una regia. Eccone la prova. In una stampa anonima, per difendere il vescovo del Montefeltro dall’accusa mossa dai sammarinesi di averne tradita la fiducia, l’autore fa sapere che il vescovo, al contrario, deve essere considerato un protettore dei sammarinesi, dato che egli “avea impiegati tutt’i suoi ufficj più calorosi per que’ di loro, che s’erano a Lui raccomandati, come ne può far testimonianza il Giangi Chierico Coniugato, la di cui casa senza la di lui interposizione sarebbe forse stata preda del furore del Popolo”.

Quanto allo svolgimento del saccheggio, dice il Marchi che i soldati “diedero un Sacco formale [sic], rubando il migliore, e specialmente danaro, argenteria ed anelli d’oro, e per le Finestre gettarono quelle supelletili grosse, che non si potevano, se non con difficoltà muovere e maneggiare. Ruppero a forza Cantarani, Casse, Scrigni, e per poco tempo fecero molte altre insolenze e barbarie, che forse una Truppa regolata entrando in una Città nemica non avrebbe fatte; e la nostra Soldatesca Ariminese in questo fatto molto si distinse”.

“Quel saccheggio guastò ogni cosa”, aggiungerà il Bianchi, nel senso che danneggiò irreparabilmente l’Alberoni, per servire il quale anch’egli era salito sul Titano, poco dopo i soldati. E precisa: ”quel dì solenne … diventò così lugubre”. La sua amarezza deve essere stata veramente grande nell’apprendere del comportamento non proprio eroico dei soldati riminesi. Questi, ed i loro ufficiali, hanno agito per qualche ora al di fuori di ogni controllo. Dicono i sammarinesi: “Lo stesso Signor Cardinal’Alberoni mostrò dapoi dispiacere d’una esecuzione cotanto avanzata e si protestò non essere stata né di suo consentimento, né ordine”. In effetti, sembra che sia rimasto spiazzato, da quegli eccessi. Sembra che a un certo punto, scosso ed irritato, temendo di non riuscire a riportare la situazione sotto controllo abbia fatto venire sul Titano in fretta e furia altri soldati, come si legge in una relazione anonima: nella notte “giunsero da Verucchio … 200 soldati Tamburo Battente, quali furono distribuiti parte alle due Porte della Città, e parte al Pubblico Palazzo”.

A San Marino mai si erano verificati disordini di tal gravità, né a seguito di contrasti sociali o politici interni, ad esempio nel periodo dei guelfi-ghibellini, né per effetto di nemici esterni, nemmeno durante le guerre malatestiane, in cui si è battagliato per decenni sull’uscio di casa. La gente comune, dopo il saccheggio, riprese a schierarsi nettamente a favore dei vecchi governanti. Ma è sul fronte esterno che il saccheggio ebbe gli effetti più vistosi, in aggiunta a quanto avvenuto in pieve. La contestazione induce alla simpatia politica, il saccheggio alla solidarietà umana. Le notizie dei due fatti si propagano dal Titano in contemporanea, entrano in risonanza: l’effetto globale è dirompente: va in frantumi l’intero progetto alberoniano.

 

La resa dei “Protestanti”

I consiglieri contestatori, già elevati ad eroi il mattino, acquisirono, il pomeriggio, con quel saccheggio, anche l’aureola dei martiri. Diventerà celebre la lettera con cui Girolamo Gozi descrive al figlio che cosa è successo in casa, in conseguenza del suo rifiuto di giurare: “Figliol mio caro, io mi ritrovo in grado di chiedervi… perdono, se vi ho ridotto un pover’uomo… Consolomi che non ho fatte infermità, e ciò rende quieto anche voi…”. Dice di sperare “che gli uomini d’onore” apprezzino il suo gesto; che comunque non è affatto pentito e precisa: ”dormo tutti i miei sonni, come se avessi avuto una eredità”. E conclude con uno sfoggio di ‘latinorum’ nei confronti del figlio studente: “S. Marino est vir magnus valde”. Poi, per sdrammatizzare, dopo avergli riferito che i soldati hanno portato via “anche gli Orinali”, aggiunge un’altra nota di colore: “ Il mio calamajo e spolverino sono andati, e per candeliere mi servo con tutta allegria di un Fiasco”.

Sul far della notte i “Protestanti” per evitare ulteriori guai decisero di arrendersi, di capitolare: quando ancora c’erano i “Soldati nelle Case, i Padroni delle medesime non sapendo a che partito apprendersi, risolsero di piegare il Collo, e fatto chiedere al Legato perdono, ancor eglino prestarono il giuramento di fedeltà”. Infatti il cardinale “benignamente la sera per un semplice atto di Sottomissione loro perdonò e ordinò, che ogni cosa loro tolta dal Popolo fosse restituita”.

Il primo a cedere è Biagio Antonio Martelli, che si giustificò così: questa mattina non ho giurato per il papa perché “sedotto da alcuni di questa Città, e per il timore che avevo di perdere il Posto in cui mi trovo, nel quale benignamente son stato confirmato dall’Em.za Sua”. Poi seguono Girolamo Gozi, Giovanni Marino Giangi, Giuseppe Onofri, Alfonso Giangi, Lodovico Amatucci, Marino Tini insomma tutti. Tutti dicono di essersi sbagliati, di aver preso un “abbaglio”. Girolamo Gozi si dilunga in un discorso-confessione che uno dei notai venuti al seguito dell’Alberoni, fedelmente riporta, per nulla insospettito dal tono quasi farsesco che vi traspare: “questa mattina dopo aver egli fatta la Protesta …, e nello stesso atto di partirsi dal Trono di Sua Eminenza si sentì talmente pentito, che se avesse potuto fare di non aver fatta la suddetta Protesta, volentieri l’avrebbe fatto, e se non avesse dubitato, che Sua Eminenza l’avesse rigettato dal Trono sarebbe ritornato a disdirsi, et avrebbe cogl’altri preso il sudetto Giuramento di Fedeltà … assicurando l’Eminenza Sua, che infinito è stato, et è il ramarico, che a causa di questo suo Trascorso ha risentito, e risente, protestandosi come sopra Suddito fedelissimo della Santa Sede”. Lo stesso Girolamo Gozi, autore di cotanta ritrattazione, due giorni dopo scriverà al figlio nei termini che si è visto!

L’Alberoni sembra non rendersi conto che quelle ritrattazioni sono espresse in termini così esagerati per far intendere che sono conseguenza di un ricatto, quello del saccheggio. Diranno i sammarinesi: “Le ritrattazioni, essendo meticolose, e forzate, non militano punto per prova di una libera dedizione, come pretende S. E., ma fanno prova in contrario”. L’Alberoni sembra non cogliere la differenza fra le due circostanze: la contestazione è avvenuta in pieno giorno, davanti a così autorevoli testimoni esterni e la capitolazione invece è raccolta in ore notturne, nel chiuso di una stanza, alla presenza esclusiva di uomini del suo seguito. I sammarinesi avranno buon gioco a sostenere che le carte contenenti le ritrattazioni sono frutto di una coercizione e le utilizzeranno, dato che su di esse la macchia del ricatto è più evidente, per dare fondamento al sospetto che anche tutte le altre carte che l’Alberoni ha messo insieme con tanta fatica e costanza fin dal primo giorno, sono frutto di una coercizione, perciò nulle sul piano giuridico.

 

Marino Cecchetti, Annuario Scuola Secondaria Superiore, n. XXIII, anno scolastico 1995-96

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La rilettura completa della vicenda alberoniana è stata in seguito trattata nel libro: Alberoni a San Marino, 17-29 ottobre 1739, San Marino, aprile 2003 (1702 d. F. R.)

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