IL CONTESTO GENERALE

IL CONTESTO GENERALE

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IL CONTESTO GENERALE
 
 
Ritorna l’impero La prima metà del Settecento è caratterizzata da un continuo stato di guerra. E’ una tempesta senza fine. La penisola italiana è il campo di battaglia su cui si affrontano le grandi potenze nelle interminabili guerre di successione: spagnola (1701-14), polacca (1733-38), austriaca (1740-48). Più qualche conflitto per altra ragione. Complessivamente più di trent’anni di guerra. Gli eserciti, stranieri, si rincorrono per la penisola da nord a sud, da sud a nord sempre costeggiando l’Adriatico in questa parte d’Italia. La situazione politica, vista dagli occhi degli abitanti della penisola, è dominata dalla discesa degli Asburgo che mirano ad espandersi in Italia – le loro Indie – adoperando come pretesto la corona imperiale di cui sono titolari. Rivendicano la sovranità sui feudi di investitura imperiale. Ovunque siano. Cominciano, all’alba del secolo, col sottrarre allo Stato della Chiesa Comacchio. Il papa, Clemente XI tenta di opporsi con la forza, ma va incontro ad una disfatta completa, clamorosa ed umiliante: il suo esercito messo assieme con un enorme sforzo finanziario, evapora, svanisce prima del contatto col nemico.
Papa e imperatore, agli occhi degli abitanti della penisola italiana, si fronteggiano nuovamente come nel Medioevo, ma a parti invertite rispetto a Canossa. Visti dall’interno dello Stato della Chiesa, sembrano essere tornati a contendersi i vari luoghi nella logica del Medioevo, epoca nella quale ogni luogo non poteva che essere, necessariamente, o dell’uno o dell’altro. Molti feudi, di dubbia o di duplice investitura, cercano di salvarsi dalla stretta riprendendo lo slalom fra l’uno e l’altro. San Marino invece sfodera l’antico convincimento: la libertà del Titano trae origine dal Santo. Quindi non è un dono grazioso né di un papa né di un imperatore né di una qualche autorità facente capo ad uno di essi. Quindi nessuno dei due ha titolo per rivendicare l’alta sovranità sul Titano.
San Marino però avverte l’esigenza di dare all’antico convincimento una formalizzazione nuova, adeguata ai tempi, di esprimerlo in termini moderni, per poter meglio farlo conoscere. Nel 1717, a Venezia, in un libro di grandissima diffusione, l’Italia Sacra, viene pubblicato il testamento del Santo: Filii, relinquo vos liberos utroque homine. Come dire all’universo mondo e, in particolare ai diretti interessati, al papa e all’imperatore, che il luogo Titano non è né dell’uno né dell’altro.
La Repubblica, coerentemente, si mantiene poi a prudente distanza e dal papa e dall’imperatore per evitare di essere coinvolta nei loro rapporti: schiacciata quando litigano o giocata come pedina  quando si mettono a tavolino.
Dello Stato della Chiesa, oltre a quella padana, viene coinvolta, nel rinato scontro fra papa e imperatore, l’area prossima al granducato di Toscana. In particolare ci vanno di mezzo i feudi dei Carpegna, Carpegna-Castellaccia e Scavolino-Gattara, su cui entrambi rivendicano l’alta sovranità. Le due rivendicazioni per decenni covano sotto la cenere. Prendono fuoco appena si esaurisce, in uno dei due luoghi, la famiglia feudataria.
Nel 1731 muore, senza discendenza maschile, l’ultimo Carpegna del ramo Scavolino-Gattara. Per qualche anno se ne occupano i diplomatici. Ma agli inizi di aprile del 1738 compaiono i militari. Gli Asburgo – che fin dall’anno precedente attraverso il ramo collaterale dei Lorena sono subentrati ai Medici a Firenze – fanno occupare Scavolino-Gattara e, per sovrappiù, anche Carpegna-Castellaccia.
 
La crisi del 1738A Roma presero paura. Temettero che le truppe tosco-imperiali prima o poi avrebbero proseguito. Fu prontamente allarmata non solo la legazione di Urbino ma anche quella della Romagna, in mano all’Alberoni. Qualsiasi località dello Stato della Chiesa, e in particolare dello Stato d’Urbino e soprattutto del Montefeltro, sulla quale l’impero avesse vantato in precedenza l’alta sovranità o potesse, con un pretesto, sollevarla ex novo, da Roma venne ritenuta seriamente a rischio. E si corse ai ripari come meglio si poté.
Alle paure per Carpegna, venne associata, fin dai primi giorni dell’invasione, quella per la Repubblica di San Marino, considerata uno degli obiettivi più in vista del progetto di espansione degli Asburgo nello Stato della Chiesa.
Immediatamente la curia romana ordinò che si effettuassero ricerche negli archivi del Montefeltro e delle zone circonvicine, e nell’Archivio Segreto Vaticano per documentare il diritto antico della Santa Sede su Carpegna e l’esercizio di tale diritto con atti il più possibile recenti. Ma, nell’occasione, non ci si limitò a Carpegna. Si ordinarono analoghe ricerche anche per altre località. Fra cui San Marino. Anzi San Marino venne messo subito dopo Carpegna, quasi al pari di Carpegna. Mentre però per Carpegna la ricerca fu pressoché pubblica, per San Marino si decise che fosse svolta in segreto e fu affidata a persone in grado di garantire tale segreto. Anzi si volle un segreto, letteralmente, religioso. Si coinvolse il vescovo della diocesi, mons. Crisostomo Calvi, cioè l’autorità religiosa più alta in grado.
Ben presto si videro i frutti di tali ricerche tanto su Carpegna che su San Marino.
Il 30 gennaio 1739 veniva stampata in Roma la “Lettera di un anonimo ad un suo amico sopra l’affare presente della Carpegna per quello (che) riguarda alle pretese ragioni del Ministero di Toscana”. Poco dopo, sotto la data “29 giugno 1739”, ha cominciato a circolare – manoscritta – una “Lettera Concernente le Ragioni che Competono alla S. Sede Sopra la Terra di S. Marino”, a firma di tal “Oreste Eliseo”, indirizzata, da “Cesena”, a un non meglio precisato “Sig. Conte”. Il 26 settembre dello stesso 1739, papa Clemente XII autorizzava il card. Alberoni a procedere all’eliminazione di ogni incertezza circa l’alta sovranità sul Titano, avendo il cardinale assicurato che la operazione poteva condursi con la sola “destrezza” e sine strepitu. Insomma in barba ai tosco-imperiali di stanza a due passi dal Titano, a Carpegna.
Di chiasso invece l’Alberoni ne fece tanto. Troppo. Di fronte alla reazione dei sammarinesi, del tutto inaspettata, e alla necessità di far presto nel timore – infondato? – di un intervento degli imperiali, perse la testa. Ed il tentativo fallì.
 
I sammarinesi nel 1739Neppure durante la drammatica vicenda alberoniana, neppure nei giorni in cui il paese fu invaso da centinaia di soldati, neppure nel giorno del saccheggio di alcune case, la Repubblica abbandonò la linea politica della equidistanza dal papato e dall’impero: non chiese aiuto all’impero. Ai sammarinesi per liberarsi dai soldati del papa sarebbe bastato fare un cenno ai soldati dell’imperatore che erano di stanza a Carpegna. Ma ciò non avvenne. Con meraviglia di molti. Il dotto riminese Jano Planco non esitò, nell’occasione, a definire i dirigenti sammarinesi “teste di cedro” per questo loro – stupido – comportamento.
L’abate Marino Zampini, Agente della Repubblica a Roma, insistette coi propri concittadini, e tornò a insistere fino ad averla di vinta, perché resistessero, perché non cedessero a quella facile lusinga: non si compromettessero con l’impero. E ricordò a loro nell’occasione proprio il testamento del Santo così come era stato riassunto nell’Italia Sacra. E garantì che ci si poteva liberare da quella occupazione giocando sulle divisioni interne della curia romana.
Lo Zampini propose, in quella occasione, di “fare – disse ai concittadini – una scrittura jstorica della nostra Libertà, di tutto il fatto fondato sul diritto pubblico”, pur conscio delle difficoltà che si sarebbero incontrate non potendosi più disporre dei documenti d’archivio. Ed avanzò l’idea di farsi aiutare addirittura da Ludovico Antonio Muratori. Poi si ripiegò sull’Olivieri o comunque sul gruppo pesarese di cui facevano parte anche il Gentili ed il suocero dell’Olivieri, Francesco Maria Belluzzi (che si ritiene pure lui qualcuno nella ‘Repubblica Letteraria’).
 In quegli scritti si segue la impostazione politica dello Zampini: battere l’Alberoni con una azione assidua e costante presso la stessa curia romana, le corti estere e anche l’opinione pubblica rivendicando per il Titano il diritto alla libertà, non come dono grazioso dei papi, ma come eredità del Santo: Filii, relinquo vos liberos utroque homine.Insomma l’Olivieri, pur non sammarinese, ha dato già ottima prova di sicura fede durante l’occupazione alberoniana, quando la sua Pesaro divenne una specie di quartier generale della resistenza dei sammarinesi (contro l’occupazione condotta dalla Legazione di Romagna), sotto l’ala protettiva della Legazione d’Urbino. L’Olivieri collaborò attivamente, in quell’occasione, alla stesura di stampe in risposta a quelle alberoniane o comunque in difesa della Repubblica.
Un riscontro oggettivo del ruolo svolto dall’Olivieri durante la vicenda alberoniana si trova in una lettera a lui indirizzata qualche anno dopo dall’avv. Bartolomeo Bonzetti che era salito sul Titano assieme al Bianchi al seguito dell’Alberoni. Egli si sente in dovere di raccontare proprio all’Olivieri la sua versione dei fatti, di esporgli il suo ruolo – ovviamente marginale – accanto all’Alberoni: egli si sarebbe limitato a “far stendere in Latino almeno tollerabile i vari atti della dedizione senza minima mutazione della sostanza”.  
Da Pesaro, fra l’altro, fu lanciato contro l’Alberoni quel siluro micidiale costituito dalla lettera di Girolamo Gozi indirizzata al figlio, studente a Pesaro presso il Gentili, in cui egli racconta delle violenze perpetrate dal cardinale e del saccheggio della loro casa. La lettera, sapientemente confezionata – col concorso di più mani? – per far leva anche sui sentimenti, tradotta in più lingue, sarà prontamente diffusa anche oltralpe.  
 

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